| Cordelia | aprile 2025
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di aprile 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#Roma
ANONIMASEQUESTRI (di Leonardo Tomasi)
C’è un regista sardo laureando al DAMS, poi due attori trentenni in cerca di ruolo e un ostaggio incappucciato. C’è una telecamera che riprende live ma in lieve differita, c’è un tavolo di lavoro, due birrette e due tipici berritas. C’è anche una nonna, che compare in delle foto segnaletiche e in un video messaggio. È tutto nello spettacolo anonimasequestri, in cui a essere sequestrato è il pubblico da un gruppo, poco organizzato, di banditi che come riscatto chiedono la loro stessa identità. Vincitore del Premio Scenario 2023, il lavoro è una drammaturgia maleducata (e meno male!) che ibrida il linguaggio scenico con incursioni cinematografiche, battute dai toni “pulp” à la Quentin Tarantino, di cui riconosciamo l’influenza stilistica sin dall’inizio e poi dichiarata in un divertente mash up teatrale in dialogo con Mr. Blonde de Le Iene. Il brano Stuck in The Middle with You, che nel film fa da memorabile colonna sonora, diventa qui sul palco emblematico della condizione di questi trentenni, stuck/bloccati alla ricerca di un’identità che sia il più possibile lontana dall’«antica terra brulla di Sardegna», dai nuraghe, dai culargiones, dalle maschere dei Mamuthones e Issahoderes, e pure dall’Anonima Sequestri di Graziano Mesina. Anche se a volte la scrittura si compiace in dei passaggi ridondanti, che la fanno attorcigliare sul già detto creando una sorta di litania, il lavoro fa emergere il grottesco di questa ricerca/sequestro/riscatto creando - grazie proprio ai riferimenti cinematografici, giornalistici e televisivi delle serie poliziottesche - una sovrapposizione di piani del racconto e di senso in cui la strenua rivendicazione politica decade, messa in crisi da una sequenza ritmata, incessante, di gag comiche. Tra tutte, l’espressione “tipicamente sarda”, un po’ superba, anche menefreghista, del tecnico luci Alessandro è un perfetto contraltare mimico, e sinceramente identitario, che si contrappone alle velleità confuse del regista e dei due attori. (Lucia Medri)
Visto al Centrale Preneste Teatro per la rassegna YOU. The YOUng City – I grandi racconti Under 35: con Federico Giaime Nonnis, Daniele Podda, Leonardo Tomasi e un ostaggio, dramaturg e assistente alla regia Sonia Soro. Il lavoro è stato sviluppato in residenza presso Teatro Due Mondi, è una produzione Teatro di Sardegna e Teatro Metastasio di Prato e Vincitore Premio Scenario 2023. Foto Impresa sociale Nuovi Scenari (Agostino D'Antonio)
VANITAS (di G. Giannini, F. Novembrini, R. Racis)
Giovanfrancesco Giannini, Fabio Novembrini e Roberta Racis firmano Vanitas, che definiremmo un’“installazione figurativa”, la cui scrittura coreografica è assolutizzata in una successione di pose lentissime, nette, a tratti pornografiche - per l’esibizione sfrontata di bocca, lingua e fondoschiena – che tendono all’immobilismo, per bloccarne la bellezza giovanile in un’eterna immanenza. Per questo è attraente l’inserimento, quasi fosse un quarto interprete, di una mini videocamera che come uno specchio passa di mano in mano imprimendo la gestualità filmata su di un dispositivo che rende quella stessa immagine riproducibile tecnicamente. Bellezza e Piacere, Disinganno e Tempo, sono gli altri protagonisti, assenti in scena ma la cui essenza è proiettata sullo sfondo nei quadri di nature morte e nei telegrafici estratti da Il trionfo del tempo e del disinganno, libretto del cardinale Benedetto Pamphilj, poi musicato nel primo oratorio di Händel. Le pose scelte, la nudità, e i costumi – una sorta di specchio riflettente che copre il corpo seminudo di Racis, una gorgiera a circoscrivere il volto di Novembrini e una tuta e sneakers a svelare la figura di Giannini – completano, profanandola però, la sacralità dei quadri Santa Maria Maddalena di Mattia Preti e Vanitas, Putto con teschio, specchio e civetta del Guercino. Il lavoro si fruisce con lo stesso atteggiamento con cui si visiterebbe una mostra, e in alcuni momenti non nascondiamo un vago senso di noia, ciononostante Vanitas crea una conturbante e voyeuristica fascinazione, stimolando la sensorialità: inebriante il quadro scenico con l’altare di fiori recisi che investono di profumo le prime file. Progressivo è invece il disegno luci che illumina in tagli obliqui, orizzontali e laterali l’ultima scena, a indicare lo scorrere del tempo in un’indefinita infinitezza, tanto da lasciare il pubblico indeciso su quando iniziare a applaudire. Non avere certezza della fine dello spettacolo, ma viverla, è un tranello formale e contenutistico curioso, funzionale a scardinare con ironia la seriosità del progetto. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo per la stagione danza di Orbita Spellbound: un progetto di Giovanfrancesco Giannini, Fabio Novembrini, Roberta Racis, direzione tecnica e light design Valeria Foti, progetto sonoro Samuele Cestola, foto e video Luca Del Pia, produzione Körper-Centro Nazionale di Produzione della Danza, coproduzione Santarcangelo Festival, Théâtre L’Aire Libre, St Jacques de Lande, Le Joli Collectif con il sostegno di Primavera dei Teatri Castrovillari, Centro di Rilevante Interesse per la Danza Virgilio Sieni, Fattoria Vittadini, Istituto Italiano di Cultura di Parigi nell’ambito di R.O.M -Residencies On the Move di Théâtre l’Aire Libre -le Joli collectif in collaborazione con La Balsamine (Belgio), Santarcangelo Festival (Italia), Le Grütli (Svizzera), Théâtre Prospero e Teatro Periscopio (Canada) rete finanziata dall’Unione Europea
#NAPOLI
TEKKEN DRAMA (di e con Francesca Becchetti, regia di Alice Conti)
Il mese scorso ha ceduto una mensola. Mi sono chiesto quand’ha iniziato a rompersi davvero. Il perno che si piega, la calce che si sgretola senza farsi vedere. Il fatto mi torna in mente guardando Eveline (Francesca Becchetti) non se dice d’essersi lasciata col «bastardo», che non è qui il punto, ma quando racconta il fastidio che prova per la fine d’un rapporto offensivo quanto un insulto. Eveline soffre per lo schifo perduto, com’è possibile? O, per dirlo altrimenti, quando ha interiorizzato la mano sul culo, le cosce chiuse, il bisogno di coprirsi, la disparità di valore, l’uso subìto della parola «puttana»? Quand’è cominciato? Quando la mensola ha iniziato a cadere? Con la scomparsa del padre? Quando ha notato la mamma fissa, sempre lì? Nei giorni di Mtv? O quando ha considerato più figo il fratello? Le corse fino al muro, Lara Croft, Geri Halliwell, le mosse di wrestling, l’idea che stare coi maschi sarebbe stato più facile. L’idea di somigliare alla madre, l’attesa d’una telefonata. E ora? Sta davanti a un pannello di legno ferito (la cicatrice da cui viene la luce) con le voci nella testa che mischiano spunti pop che fanno ridere il pubblico, frasi misogine da convegno, citazioni femministe e le facili rassicurazioni di un’amica mentre lei avverte una voragine invece, che riguarda anche me (io quando sono diventato l’uomo che sono?), e di cui vuol capire l’origine. Questo mi pare Tekken Drama, tra soluzioni consuete oramai (testo in frammenti, frontalità, microfono in pugno) e un lavoro pluriennale di ricerca (“Sister”, lab triennale per sole adolescenti su affettività e sessualità; “Le disgraziate”, corso di Anomalia Teatro per donne e persone trans) da cui viene il bisogno di parlarne. Un appunto: perché sia anche un atto politico, come sento uscendo da Sala Assoli, dove si svolge il Napoli Queer Festival, occorre una platea che non sia già d’accordo. Dobbiamo porre specchio al Re direbbe Shakespeare, perché avvenga il conflitto. Che altrimenti resteremo ad annuire tra noi. (Alessandro Toppi)
Visto a Sala Assoli. Di e con Francesca Becchetti. Regia di Alice Conti. Scenografia Prisma. Luci Ilaria Bertozzi. Costumi di Simona Randazzo. Produzione Anomalia Teatro, con il sostegno di Montagne Racconta.
THE BARNARD LOOP (di DispensaBarzotti)
The Barnard Loop è il sogno sognato da un altro. Inizia prima che ci s’accomodi in sala, nega ciò che sta compiendo (dormire) e per reiterazione comica, rilanci immaginari e smentita delle attese, distorce il plausibile (un uomo che ha difficoltà a chiudere gli occhi) rendendolo assurdo quanto un incubo. Comincia col sorso di camomilla, la sveglia puntata, la posizione da dare alle mani, le ossa incriccate, il lenzuolo steso o arrotolato a una gamba, il cuscino sulla faccia, il ronzio d’una zanzara, la luce da spegnere, lo squillo al telefono, i tuoni e i fulmini, il letto che cigola – oddio, ho sentito uno squittio simile a quello dei topi – e termina con la scena d’un crimine e un tuffo in valigia dopo aver mostrato libri che bruciano, frame di Frankenstein junior e cupecake divorati in un pugno. Visione intensa ed effimera, che dura quanto dura lo spettacolo, per chi crede che un uomo stia sia in piedi che nel letto, che una moka serva litri di caffè o che una pianta prepari la colazione sa di magia (gli «ooohhh» del pubblico e le bambine e i bambini che al termine vorrebbero smontare il giocattolo per sapere com’è che funziona); chi ha la fantasia atrofizzata, per dirla con Benjamin, è curioso invece dei numeri che seguono ai numeri e applaude gli interpreti (Jacomo Maria Bianchini e Rocco Manfredi) – tra mimo, clownerie e acrobatica: «bravi, no?» mi chiede una signora all’uscita – mentr’io ho amato i residui, i difetti: il lampadario che cala prima d’un millesimo svelando che verrà colpito tra un attimo, la botola del materasso intravista due volte, il buio tardivo che mostra l’attore che s’affretta a prendere posto; il terriccio caduto dalla pianta, le piume volate dal cuscino, un fiammifero scappato alla scatola e che resta per tutto lo spettacolo ai bordi del letto. Sono come il trucco slabbrato che Ripellino nota ai lati della bocca d’un pagliaccio romano prima di una capriola, e mi ricordano che il teatro, questa cosa fatta dagli uomini per gli uomini, infine non conosce la perfezione. Per fortuna. (Alessandro Toppi)
Visto al Teatro Area Nord. Ideazione e scrittura di Rocco Manfredi e Alessandra Ventrella, regia di Alessandra Ventrella, con Jacopo Maria Bianchini e Rocco Manfredi, luci di Alessandra Ventrella, sostegno logistico Cie Les Karnavires, produzione DispensaBarzotti
#MILANO
LA FURIA DELLE SIRENETTE (regia Maria Vittoria Bellingeri)
Barbara e Lydia Giordano ci accolgono in piedi al nostro arrivo nella Sala Bausch del Teatro Elfo Puccini: sotto una coppia di slanciate luci al LED che le circoscrivono, si muovono a ritmo lento, producendo misteriosi e ovattati mugolii modulati assieme a suoni elettronici a bassa intensità. Gli abissi del mare non sono esposti attraverso maestosi oggetti di scena, ma suggeriti per via sonora e gestuale, mentre la soffusa luce bianca dei LED ci restituisce un ambiente allo stesso tempo rassicurante e sospeso. A popolarlo, infatti, non ci sono mostri leviatanici, ma due buffe sirene, Olga e Olivia, sorelle protagoniste del testo di Thomas Quillardet, La furia delle sirenette, tradotto da Maria Vittoria Bellingeri, autrice anche della regia, dei costumi e delle scene. La storia inizia con una delle due, Olga, che convince l’altra a lasciare la loro casa natia e avventurarsi per il mondo, senza sapere dove andare e quando, eventualmente, tornare. Il cammino delle due prosegue in maniera piuttosto piana tra abbacinanti scoperte, nostalgie di casa e incontri con inquietanti personaggi – tutti inscenati da Graziano Siressi, capace di essere ora guardingo come una patella, ora dinoccolato come un’anguilla. Nonostante la brillantezza degli interpreti, tuttavia, il testo appare un poco ingenuo, con personaggi monolitici nelle loro volontà, pulsioni e paure, non intenzionato a confrontarsi con le origini radicali della “furia” e, quindi, con un pubblico effettivamente uscito dall’età infantile. A questo fa da contraltare la scena che, invece, emoziona per intero, soprattutto quando si abbandona a se stessa, diventando una camera delle meraviglie di suoni, di corpi e di luci slegata da ogni supporto testuale. La storia sorprende nel finale quando, di fronte a un’insolubile differenza di orizzonti, non avviene una riconciliazione disneyana, ma una separazione lucida e pacata, in cui le sorelle scelgono di seguire ognuna la propria strada. Ci dicono, come canterebbe Dimartino, che sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile. (Matteo Valentini)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Thomas Quillardet regia, scene, costumi, traduzione Maria Vittoria Bellingeri con Barbara Giordano, Lydia Giordano, Graziano Sirressi composizione sonora originale di FILOQ disegno del suono e direzione di scena Emanuele Pontecorvo luci Maria Vittoria Bellingeri collaborazione al light design Marco Giusti assistente alla regia Margherita Fabbriregia, scene, costumi Maria Vittoria Bellingeri produzione Rosamiranda e Nutrimenti Terrestri con il sostegno di Progetti Carpe Diem (Sardegna), Di Terre e di Acque – Luoghi da custodire, Arti e spettacolo (Aquila, Abruz- zo), Sementerie artistiche (Crevalcore, Bo) foto di Serena Serrani
STORIA DI UN CINGHIALE. Qualcosa su Riccardo III (di Gabriel Calderón)
Un attore. Un attore nei panni di un attore, un uomo che finge di essere un attore nei panni di un attore. Francesco Montanari è il principio e la fine di questo complesso gioco metateatrale riscritto e diretto da Gabriel Calderón. Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III, è difatti un monologo, un flusso inesauribile e affabulatorio di parole, gesti, azioni in cui il protagonista indugia tra finzione e realtà autobiografica confondendone i confini, attraverso un ritmo concitato, vorticoso e un linguaggio che ripercorre e fugge al tempo stesso quei pentametri giambici shakespeariani. Montanari è quindi un attore, che è se stesso ma che è prima di tutto personaggio, capace di trasformare la propria pelle, pronto a “fare la muta” servendosi dei costumi finemente elaborati da Gianluca Sbicca, ora vesti reali ora vesti “mostruose”. Nel mezzo di una carriera costruita su ruoli marginali, ecco che l’attore ora riceve l’incarico della vita: interpretare Riccardo III. Ma le difficoltà dell’impiego, tra maestranze e la relazione con la compagnia di attori, alimentano un rancore sempre esistito, fatto di disillusioni e sconfitte, sedimentato lì, al di sotto dello sterno, pronto ad esplodere in qualsiasi momento, a trasformarlo davvero nel duca di York. Sullo sfondo di un palchetto teatrale composto da ingegnosi ingranaggi, nella scenografia ideata di Paolo Di Benedetto, la narrazione di Calderón procede dinamica, entra ed esce furiosamente dal personaggio, entra esce e mette in discussione i versi del Bardo, dimenticandosi però di dover arrivare alla fruizione immediata del pubblico, in un virtuosismo autoriale e registico che mina di continuo quel contatto con la platea, caratterizzata prevalentemente da giovani studenti che invece a Shakespeare cercano di avvicinarsi. L’invettiva alle problematicità teatrali si perde nell’ingegno, e noi tutti ci perdiamo alla ricerca di Riccardo III. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro di Milano. Crediti: liberamente ispirato a Riccardo III di William Shakespeare , scritto e diretto da Gabriel Calderón, traduzione Teresa Vila, scene Paolo Di Benedetto, costumi Gianluca Sbicca, luci Manuel Frenda, con Francesco Montanari, produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Carnezzeria
#BOLOGNA
MARIO E MARIA (di Natalia Vallebona e Faustino Blanchut)
L’intuizione che avevamo da piccoli che un nome potesse influenzare la personalità pare confermata da alcune ricerche scientifiche. Avere un nome comune favorirebbe l’adattività psicologica e sociale, aumenterebbe persino le possibilità di essere assunti. Mario e Maria partono dunque avvantagiat* nel gioco dell’esistenza, che in fondo è tutta una grandiosa questione di adattamento. Come in Italia, anche in Belgio nascono molte Marie: 1,05 al giorno, secondo una ricerca dell’Istituto di statistica intercettata dai Poetic Punkers, collettivo internazionale nato a Bruxelles nel 2014 e diretto da Natalia Vallebona e Faustino Blanchut – chissà se il gruppo conosceva la commedia protofemminista omonima di Lopez Sabatino, drammaturgo e critico teatrale italiano, del 1916. Mario (Blanchut) è un autore, un regista, un coreografo, un mini-dittatore della scena e della vita domestica. II suo autoritarismo fatto di romantici diktat produce una sequenza di indicazioni sceniche rivolte a un altro Mario (Florian Vuille) e a due Marie (Julia Färber Data, Marianna Moccia), che allo schioccare delle dita animano la scena con una gestualità circense sospesa tra danza e dramma. Muoiono, sputano, si baciano. Corrono, risorgono, dilagano in platea battezzandoci Mari e Marie. Si regalano e ci regalano rose finte, senza odore – a rose is a rose is a rose: l’evidenza simbolica dell’amore che cancella l’amore scimmiottandolo. Mario è pieno di spunti, ma lontano da ogni forma di verità: il suo autoritarismo, che ricorda il sadismo à la Rezza-Mastrella, è obbedienza cieca alle convenzioni del dire e del fare (teatro). È possente nella gestualità da domatore, ma incapace di consequenzialità. Quando infine pare rivolgerci parole franche, chiedendoci se da piccoli avessimo anche noi un giardino e un albero del cuore su cui arrampicare, ci irride smascherando la vezzosità borghese del possedere l’albero e il giardino. La sclerosi di ogni possibile significato, magnificamente veicolata dai due Mario e dalle due Marie in un ipnotico crescendo di idiomi e linguaggi performativi, sposa causticamente commedia e tragedia, regalandoci abbondanti risate e una profonda amarezza nel riflesso della nostra incapacità congenita a gestire il potere. Un lavoro magistralmente prepolitico. (Andrea Zangari)
Visto all’Arena del Sole – Sala Thierry Salmon, scrittura testo Natalia Vallebona e Faustino Blanchut, coreografia e regia Natalia Vallebon, drammaturgia Faustino Blanchut, con Faustino Blanchut, Julia Färber Data, Marianna Moccia, Florian Vuille, drammaturgia sonora Patrick Belmont, disegno luci Christophe Depr, scenografia e costumi Natalia Vallebona, fotografia e video Bartolomeo Lapunzina, produzione Poetic Punkers ASBL, coproduzione Théâtre Les Riches-Claires, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, con il sostegno di La Maison des cultures de Saint-Gilles, ADLIB’S Attic, Centre Culturel de Chénéé, nell’ambito di CARNE focus di drammaturgia fisica
#PALERMO
TERRA MATTA (regia di Vincenzo Pirrotta)
Terra Matta è il titolo dell'autobiografia di Vincenzo Rabito, bracciante originario di Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa. Dal 1968 al 1975, questi ha battuto a macchina la storia della propria esistenza, avvalendosi di un proprio linguaggio originale: un groviglio di parole e glifi per mezzo dei quali l'autore, non alfabetizzato, ha descritto la propria «maletratata e molto travagliata e molto desprezata» vita. Vincenzo Pirrotta la porta in scena in un omonimo spettacolo, prodotto dal Biondo di Palermo e dallo Stabile di Catania. Nelle intenzioni l'obiettivo era quello di valorizzare gli aspetti più grotteschi del "romanzo", sciorinando una teoria di personaggi farseschi e richiamandosi al teatro dadaista. Ora, Vincenzo Pirrotta è senz'altro un interprete di significative capacità attoriali, sia nell'eloquio che nel gesto: ritmo ed espressione conservano intatta la lezione di Cuticchio. Ma questo non è stato sufficiente a garantire l'efficacia del suo Terra Matta, dove l'esperienza linguistica di Rabito si risolve nel susseguirsi di episodi in cui prevalgono la caricatura e, talvolta, i facili sentimentalismi. Certamente Pirrotta riesce a rendere teatrale un linguaggio davvero impronunciabile, tormentato da scelte grammaticali non convenzionali anche dal punto di vista grafico; ma mel macchiettismo non sempre convincente dei protagonisti, l'asprezza agreste di Rabito si perde in un sorriso troppo ammiccante e sornione. La farsa ha trovato espressione in una comicità di situazione non sempre adeguata alla cruda asperità del testo; la fedeltà ad esso non ha saputo reggere a eccessi didascalici, nonostante le soluzioni sceniche volessero forse scongiurare proprio questo rischio. Dove ci aspettavamo la rottura, abbiamo trovato un racconto più lineare e rassicurante del dovuto.
Visto al Teatro Biondo, Crediti: Dall’omonima autobiografia di Vincenzo Rabito (Einaudi editore) adattamento teatrale, scene e regia di Vincenzo Pirrotta musiche originali Luca Mauceri costumi Francesca Tunno luci Antonio Sposito con Vincenzo Pirrotta, Lucia Portale, Alessandro Romano, Marcello Montalto e con Luca Mauceri (percussioni, elettronica, chitarra classica), Mario Spolidoro (organetto, chalumeau, chitarra), Osvaldo Costabile (violino, violoncello) aiuto regia Nancy Lombardo direttrice di scena Valentina Enea coordinatore dei servizi tecnici Giuseppe Baiamonte fonico Mauro Fontana macchinista Alberto Mangiapane capo sarta Erina Agnello produzione Teatro Biondo Palermo / Teatro Stabile di Catania. Foto di Rosellina Garbo.
MOLLY BLOOM. ANATOMIA DI UNA (ANTI) EROINA (di Serena Ganci e Daniela Macaluso)
«E sì dissi sì voglio sì». La Molly Bloom di Daniela Macaluso ha una voce di velluto ruvido, rotonda, ma con vaghi accenni di spigoli. Una voce che è corpo, o forse un corpo talmente presente da essere dotato di una voce propria. In Molly Bloom. Anatomia di una (anti) eroina, la protagonista è un grumo inestricabile di carne e spirito, così come l'autore dublinese l'ha offerta al lettore. Ma qui non abbiamo parole scritte. Il flusso di coscienza si insinua in Macaluso, o forse è lei a imporsi su di esso, in un legame carnale indissolubile. Macaluso non è nuda, in scena; ma è come se lo fosse: impone con assoluto coraggio lo spessore della propria persona, plasmandosi una dimensione palpabile, fisicamente compresa tra la sua Molly e il pubblico. Davvero, a una delle donne più "corporee" di sempre, viene fornito un corpo; coraggio, si diceva. Spesso questa parola è usata a sproposito. Ma qui davvero sentiamo di doverla scomodare. È coraggioso il modo in cui Macaluso offre al pubblico una forza che è anzitutto esposizione della fragilità; è coraggioso il suo ritratto di una donna che si vive nel suo vivere il sesso, ma nell'incertezza sbigottita di cosa questo davvero significhi. D'altronde, non si cerca senso, né soluzioni: Molly descrive incontri ai quali partecipa con adesione e distacco, afferrando di questi quanto le viene consentito dall'incontro epidermico tra i corpi. Tutto le scorre addosso: relazioni, matrimonio, maternità, sempre in quell'unico atto che è carne e parola; parola enfatizzata da un'eco sintetica, quella di Serena Ganci, i cui interventi smorzano l'assoluta solitudine della protagonista in sonorità rarefatte. Ne accompagnano la bella misura dei gesti, che scivolano l'uno sull'altro in un flusso di corpo e coscienza. Sfida importante, quella di avanzare un femminile privo dei facili schematismi a cui spesso oggi si ricorre, sostituendovi piuttosto un'elegia malinconica e dura, fatta di membra, ferite e voce. Se la sfida era questa, è stata pienamente vinta.
Visto a Spazio Franco. Crediti: Liberamente ispirato all’Ulisse di Joyce, Di e con Serena Ganci e Daniela Macaluso, Musiche originali Serena Ganci, Luci Gabriele Gugliara, Consulenza costumi Mariangela Di Domenico, Produzione Babel e Sardegna Te