| Cordelia | marzo 2025 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di marzo 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

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#NAPOLI

COME UN ANIMALE SENZA NOME (di Lino Musella)

A sinistra, difronte Luca Canciello ai suoni (fischi, distorsioni, battiti in loop) e alle spalle, in quinta, Igor Esposito, che di Come un animale senza nome cura la drammaturgia. Musella si siede con davanti un microfono. Così perché in un teatro che fa da camera amplificatoria si senta Pasolini, usando la premessa di Poeta delle Ceneri come tronco biografico da cui diramare rime e pagine (da Pietro II a Il pianto della scavatrice, da La ballata delle madri a Gli italiani) a brandelli perché tolte agli artigli dell’oblio. Ne vengono l’eco indistruttibile d’una vita e una chiamata coscienziale dagli inferi perché si ridesti in noi la rabbia, che «se ti guardi intorno ti accorgi della tragedia», che aspetti? Dunque Bologna, il padre-nemico, la madre che fa la serva, Roma, le borgate, il fazzoletto rosso dei contadini, gli ordini delle madri all’origine dei compromessi del presente («Covate nel petto la vostra integrità d’avvoltoi!»), il fascista cui, senza farsi illusioni, chiede di amare i poveri, i nomi di chi mise le bombe o sporca l’Italia ogni giorno (abuso di denaro pubblico, uso illecito degli enti, «distribuzione borbonica di cariche agli adulatori»: intendiamoci, riguarda anche il teatro). Che così fa un’intellettuale: solo, e che non ha nulla da perdere. Ma il valore di Come un animale senza nome oltre che nel testo è nel corpo: Musella sempre di profilo, a rifiutare la frontalità dell’interpretazione mascherale. Mani alle ginocchia, busto ritto, capelli con la fila, occhiali, il volto scarnificato da una luce: Pasolini s’intravede solo come fosse l’orlo o l’ombra della pelle. Il rap di Le ceneri di Gramsci, Siamo tutti in pericolo in crescendo – come per la lettera di Eduardo a Tupini in Tavola tavola, chiodo chiodo… – perché sia uno schiaffo. Già, Eduardo. Morto Pasolini Musella ci guarda: «Non li toccate quei diciotto sassi» messi a difesa di una voce altissima. Li levigherà il vento, la pioggia li farà lucenti, «non li toccate». Così disse il Maestro, ossuto, tremando. (Alessandro Toppi)

Visto a Sala Assoli. Crediti: testi di Pier Paolo Pasolini, un progetto di e con Lino Musella, musiche originali di Luca Canciello eseguite dal vivo, drammaturgia Igor Esposito, produzione La Fabbrica dell’Attore, Teatro Vascello Cadmo

#PRATO

OGNISSANTI (di S. Petyx, regia E. Vetrano e S. Randisi)

Le mani, prima di tutto. Si agitano nello spazio conteso tra la luce e il buio, ossute ma non meno eleganti tagliano l’aria come si vedesse, come fosse tangibile, percorrono sentieri di azioni e li distendono, sembrano liberarli dagli ostacoli, perché ci possano star sopra le parole. Non va via questa immagine dal palco di Ognissanti, le mani sono di Enzo Vetrano, là alle sue spalle sulla parete c’è Stefano Randisi, immobilizzato dall’arte e dalla storia in egual misura, il teatro è il Fabbricone di Prato per l’ennesimo lavoro riuscito nella stagione ideata da Massimiliano Civica. Ci sono due santi, in questo testo di Sabrina Petyx scritto apposta per i due attori, sono raffigurati in due dipinti contigui, appesi alla parete di un possibile museo, tesi in posizioni evocative di una beatitudine da nobiltà religiosa, che lasciano intuire le azioni per cui hanno raggiunto in vita l’imperitura memoria ultraterrena. Eppure, chissà, saranno due santi anonimi? Sono loro stessi a dirlo quando, forse nella solitudine di un museo chiuso, iniziano a muoversi e parlare tra di loro. Vetrano compie il gesto di uscir fuori, sfonda i contorni del proprio riquadro e acquista la terza dimensione, quella della relazione con lo spazio e il tempo, mentre l’altro santo resta dentro, tiene lo scranno del proprio alto grado; ecco che le luci di Max Mugnai, forti e nette a battere tra il buio e il rosso cardinalizio, disegnano due piani in dialogo tra loro, un dentro e fuori non dalla scena ma dal dipinto. Ma sono poi davvero, questi, due santi? O forse solo due modelli di allora che la smemoratezza della finzione ha così dipinto? C’è un’impostazione pirandelliana in questi due personaggi in cerca d’autore, o meglio, in cerca di comprendere se il tempo abbia reso santi questi due inquisitori morti ammazzati o sono ancora due poveracci come allora. La regia di Vetrano e Randisi, sostenuta dalle musiche di Gianluca Misiti che sceglie un percorso classico, evolve con qualche lentezza nell’ascesa del climax, ma governa la commistione tra un comico da marionetta e il tragico con pazienza e maestria. Santi oppure no, “chiunque – dicono – darebbe la vita per una cornice dorata”. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Fabbricone. Crediti: di Sabrina Petyx; interpretazione e regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi; scene e costumi Mela Dell’Erba; luci Max Mugnai; musiche originali Gianluca Misiti; produzione Teatro Metastasio di Prato

#ROMA

L’UOMO DEI SOGNI (di Giampiero Rappa)

I personaggi che appaiono nei nostri sogno sono nostre creature, pezzi sparsi di un subconscio palpitante che si scatena durante la notte. Al povero Giovanni vengono a fare visita strani individui, i quali, subito dopo l’apertura del sipario addirittura invocano diritti sindacali, come in una moderna versione dei personaggi pirandelliani in cui questi sono dei lavoratori che reclamano una vita dignitosa. Ma nel caso de L’uomo dei sogni scritto e diretto da Giampiero Rappa, la causa non è la “servetta fantasia” come per il genio agrigentino (o almeno non solo), qui è la depressione ad aver aperto la porta a uomini neri e fantasmi di altro tipo che appaiono durante la notte scavandosi un buco nella rete del sonno come avviene con le parasonnie. In una scena semplice, ovvero l’interno di una casa pronto ad adattarsi grazie a luci e tende nei luoghi dell’incubo o nel corridoio di un aereo, Nicola Pannelli è generoso e profondo come sempre, il suo Giovanni è un fumettista, accanto a lui Elisabetta Mazzullo, una figlia volitiva, diretta, ma anche amorevole, tornata dall’altra parte dell’oceano per stare vicina al padre. Funambolici Andrea Di Casa ed Elisa Di Eusanio nel dare vita, carattere e voci agli inquilini della mente e a un socio di Giovanni, Guido (che ha buone colpe sulle frustrazioni del protagonista) e a una vicina che allevierà la solitudine dell’uomo. Lo spettacolo riesce a mescolare una piacevole leggerezza con momenti di riflessione, è un gioco per attori e attrici che tiene la platea in una attesa ricettiva, anche grazie alle ottime idee registiche con cui Rappa deve gestire i complessi piani del racconto e le suggestive intersezioni tra il mondo reale e quello onirico. Nel finale si ribalterà la situazione e Giovanni dovrà salire su un aereo per andare in aiuto della figlia: ma ormai sogno e realtà saranno diventati un'unica verità tangibile, quella del teatro, in cui tutto è possibile. (Andrea Pocosgnich).

Visto al Teatro Sala Umberto. Scritto e diretto da Giampiero Rappa Con Andrea Di Casa, Elisa Di Eusanio, Elisabetta Mazzullo, Nicola Pannelli Costumi: Lucia Mariani Musiche: Massimo Cordovani Disegno luci: Gianluca Cappelletti Assistente alla regia: Michela Nicolai Direttore di scena: Davide Zanni Scene: Laura Benzi Organizzazione Rosi Tranfaglia

MADRI (di D. Pleuteri, regia A. Sinigaglia)

A leggerlo il testo del ventisettenne Diego Pleuteri potrebbe trarre in inganno facendo pensare alla necessità di una struttura registica corposa, di un solido immaginario dal punto di vista della costruzione scenica e dunque dell'invenzione teatrale. Alice Sinigaglia, che d’altronde rispetto all’autore ha solo un paio di anni in più, mostra invece una evidente fiducia nel testo e negli attori. Riuscire a far emergere il mondo che si nasconde dietro le parole di Madri, non c’è molto altro in questo allestimento eppure è tantissimo. In una scena che articola lo spazio tra tavoli, microfoni, sedie, leggii e scatoloni Valentina Picello e Vito Vicino (il secondo è straordinario per come tiene il passo di un’attrice fenomenale per ricchezza tecnica e inferiore) cominciano con una sorta di lettura, qui Sinigaglia si diverte a giocare metateatralmente sulle diverse possibilità sceniche: come se la realtà del primo dialogo tra madre e figlio dovesse trovare un corrispettivo nella realtà del teatro, nella relazione tra attrice esperta e giovane interprete. Lo spettatore potrebbe pensare di avere avuto la sfortuna di assistere a una mise en scène, ma poi tutto cambia, i fogli del copione torneranno in seguito, con quel rumore di sottofondo che sarà il corrispettivo sonoro delle blatte tanto presenti nel testo, i brani registrati, e quell’atmosfera onirica che lentamente si prenderà la scena, in maniera sottile e quasi lynchiana. Il testo di Pleuteri (che nonostante la giovane età può vantare anche una collaborazione con Leonardo Lidi) svela con grazia - e tutto nel dialogo - i caratteri e fragilità: i due personaggi «hanno la testa bucata, i loro pensieri fuoriescono senza sosta», spiega Sinigaglia nelle note di regia,  la madre interpretata da Valentina Picello è intelligente e ironica, ma è alle prese con un buco interiore che difficilmente si ricuce, anzi forse nonostante le visite del figlio si allarga lasciando intravedere stati depressivi e problemi di memoria. Si parla di cose apparentemente piccole e futili, di una parola dimenticata in un articolo, di doveri genitoriali disattesi e non c’è bisogno del dramma, ché questo già brulica nel silenzio di una solitudine che riconosciamo nei giorni neri di questa nostra epoca. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo. Di Diego Pleuteri con Valentina Picello e Vito Vicino regia Alice Sinigaglia sound designer Federica Furlani scenografo Alessandro Ratti luci Luca Scotton produzione La Corte Ospitale coproduzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione con il contributo della Regione Emilia-Romagna con il sostegno del MiC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”

TRE GIORNI (di Federico Malvaldi)

Di fronte al pubblico di Fortezza Est una file di sedie, quelle della sala d’accoglienza degli ospedali, o di altri luoghi e uffici pubblici, c’è seduto un uomo, giovane, la testa è coperta da un copricapo, una larga felpa di pile lo avvolge. Dietro di lui un set di luci che ora illuminano di verde l’atmosfera, una melodia orecchiabile accompagna la sofferenza dell’uomo, il volto si contrae e poi le mani vanno lì in basso, a coprire la vergogna. Perché il corpo non controlla più certe sue funzioni durante la malattia, a causa dei tanti farmaci. Rob fra tre giorni dovrà essere operato, gli è stato diagnosticato un tumore alla spina dorsale; non vuole dirlo alla madre e ha un amico che quotidianamente verrà per tentare di convincerlo a mangiare. Quando lo spettacolo scritto e diretto da Federico Malvaldi si apre al pubblico siamo già nel mezzo di relazioni maturate in giorni di ospedalizzazione, Rob se la prende con tutti, compresa un’infermiera premurosa e una tirocinante, Emanuela, futura dottoressa con la quale stabilirà un rapporto speciale. La messinscena è semplicissima - la fila di sedie rappresenta anche il letto, dietro vi è un carrellino per gli effetti personali e un’asta porta flebo - e gioverebbe forse una minore frontalità: è pur vero che le entrate e uscite sempre laterali e dalle quinte degli altri personaggi sono sensate nella visione in soggettiva del paziente ospedalizzato ma sarebbe interessante vagliare alternative registiche. Questo giovane gruppo di attori (Daniele Paloni, Francesca Astrei, Veronica Rivolta e Luca Carbone) punta tutto sulla naturalezza, attraverso un tema che rischierebbe facilmente di prestare il fianco alla retorica o a rassicuranti sdolcinatezze. Eppure il testo resiste pur nella sua immediatezza quotidiana, anzi tocca momenti divertenti e alti, la riflessione sulla morte è prima sottotraccia e poi esplicita, senza peli: poche ore prima dell’operazione Rob vorrebbe fuggire tanta è la paura e una notte aveva tentato anche di trovare conforto - senza riuscirci - nella preghiera; quel 50% di possibilità di salvarsi è una spada di Damocle sui suoi pensieri. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Fortezza Est. Scritto e diretto da Federico Malvaldi Con Daniele Paloni, Francesca Astrei, Veronica Rivolta e Luca Carbone Costumi di Marta Montanelli Suono di Leonardo Raspolli Assistente alla regia Alice Casagrande Una produzione Compagnia Mauri Sturno In collaborazione con Remuda Teatro E.T.S.

ANNA CAPPELLI (di A. Ruccello, regia R. Chiocca)

Al Cometa Off la platea spiovente, che permette un’ottima visuale all’intero pubblico, finisce molto vicina alla scena: siamo lì, pronti a scrutare ogni minimo segnale, ogni espressione attorale, ché tutto si amplifica in quello spazio. La Anna Cappelli di Giada Prandi entra ed esce da uno spazio quadrato reso tridimensionalmente attraverso un semplice telaio bianco, idea esteticamente funzionale ma meno efficace dal punto di vista drammaturgico dato che l’attrice vi rimarrà chiusa chiusa solo nel finale, in una sorta di prigione immaginaria, soluzione tra l’altro un un po’ telefonata rispetto al finale post omicidiario. E qui d’altronde sta il problema dello spettacolo: il testo di Annibale Ruccello è un classico della drammaturgia in grado di scandagliare le profondità dell’animo di una giovane donna durante il boom economico. Siamo nei ‘60, Anna lavora, è indipendente ma deve comunque avere a che fare con i tabù sociali che la vorrebbero sposata e non convivente con il suo Tonino, il percorso drammaturgico però è semplice: Anna si innamora, va a convivere con un ragioniere conosciuto in ufficio e viene poi lasciata dall’uomo, l’azione sanguinaria finale va letta non come una vendetta ma come una volontà di possessione sovrumana sull’uomo con cui condivideva l’amore. Nella visione registica di Renato Chiocca però è già tutto amplificato, Giada Prandi usa una voce poco più alta della sua voce naturale (per poi abbassarla all'improvviso in alcuni momenti), in gran parte monotona, che racconta di una certa ingenuità del personaggio, e poi però gli occhi sbarrati a evidenziare gli eccessi di follia con quel “mio, mio, mio…” a sottolineare le ossessioni di possessione. Da una parte l’interpretazione soffre di una certa esteriorità e dall’altra anticipa da subito la follia rendendo tutto meno interessante, tutto già prestabilito (si guardi al contrario la recente lettura di Tolcachir e Picello) e stereotipato, come nel finale in cui Anna si scaraventa sul corpo di tonino per mangiarlo, ma a terra non c'è nulla.  (Andrea Pocosgnich).

Visto al Teatro Cometa Off. Con Giada Prandi Di Annibale Ruccello Regia di Renato Chiocca Scena : Massimo Palumbo –Costumi : Anna Coluccia Luci : Gianluca Cappelletti – Musiche Originali : Stefano Switala Tecnico luci : Luca Carnevale

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