Dal 4 marzo al 17 aprile 2025 al Teatro La Comunità va in scena Favole, ultimo spettacolo di Giancarlo Sepe, prodotto dal Teatro della Toscana. In questo articolo esploriamo la scenografia di Carlo De Marino. Articolo in media partnership.

La forma del teatro si esplicita attraverso il conflitto, nel punto esatto dove le dimensioni del bene e del male incontrano il proprio limite prende corpo la messa in discussione di ciò che, fino a poco prima, rappresentava una certezza. Ma tale conflitto, se nella vicenda prende in esame la relazione tra i personaggi, si evidenzia in diverso ma simile modo tramite gli elementi coadiuvanti come per esempio il contrasto tra il buio e la luce, tra il suono e il silenzio, ma forse in modo più netto nella relazione tra pieno e vuoto all’interno della dimensione spaziale. La gestione dello spazio pensata per Favole da Carlo De Marino già per il debutto del 2001 è definita attraverso un ribaltamento completo tra scena e platea: il pubblico viene accolto al centro, là dove solitamente è la scena, su una pedana rialzata girevole, mentre l’opera prende corpo tutto attorno, nei corridoi che circondano la piattaforma, separati da una parete circolare in cui si aprono squarci, finestre di varie misure e forme che lasciano intravedere le scene da un velo scuro; sulla pedana le sedie sono poste in posizione spuria, senza un preciso ordine, perché l’offerta spettacolare – che sia appena dietro il velo o che guadagni attraverso la profondità – raggiunga la percezione senza una predeterminazione da parte del regista, libera e ogni volta frutto di un montaggio dato esclusivamente dal punto di osservazione.

È proprio lo stesso De Marino a dire che «la novità un po’ spiazzante e il fascino di questo spettacolo stanno nel fatto che lo spettatore è nell’impossibilità di vedere tutto, perché talvolta è circondato dagli attori», dunque qui ancor più che in altre opere il teatro manifesta la propria unicità rispetto alle altre arti, perché è impossibile ritornare indietro, riavvolgere il nastro come in un film o in un disco musicale o girare qualche pagina indietro come quando si legge un libro: il teatro è in funzione della propria transitorietà e l’opera è maggiormente riuscita quanto più sa interpretare il fallimento dell’immagine totalizzante. Ancora De Marino spiega che «il pubblico sarà fermo ma ruoterà sul girevole, quindi il senso di straniamento, di perdita dello spazio sarà dovuto al fatto che si gira come su una giostra e c’è questa specie di perdita di coscienza che sembra uno straniamento al contrario, non quindi lucido come per esempio in Brecht, ma labirintico, che ti fa perdere contatto anche con la posizione perché il movimento del girevole non ti fa fermare sempre allo stesso momento, dipende dall’azione, dalla musica, per cui tu ti ritrovi in posizione completamente differente rispetto a quella in cui sei entrato e questo aumento il senso di comunione, di afflato con quello che avviene fuori, dietro il velo».

Raccogliendo dunque tutti questi elementi sembra proprio che questa scelta provocatoria di definire i riquadri dell’immagine e promuovere una fruizione attraverso il montaggio, avvicini le scelte di Giancarlo Sepe più all’arte cinematografica che teatrale, come lo stesso De Marino suggerisce: «c’è un momento in cui i nostri performer utilizzano queste feritoie come un elastico per fare dei movimenti, la luce è talmente fioca che si ha un effetto simile alle fotografie mosse, c’è un alone come se ci fossero delle forme ectoplasmatiche, tu riesci a vedere per qualche secondo la faccia dell’attore che rimane in luce nonostante sia ancora in buio, perché l’occhio non ha la capacità di dividere i vari momenti e quindi si crea una specie di wunderkammer, di cilindro delle magie che restituisce allo spettatore proprio l’incanto delle Favole».

Le scene che si svolgono dietro il riquadro velato sono quasi esclusivamente immagini, di rado si tratta di parole, dette oppure scritte; diversamente quei brevi spazi si riempiono di oggetti, agiti dagli attori, che possono essere in primo piano oppure sullo sfondo di un camminamento di 8 metri, quindi c’è una varietà di prospettive che rende la visione ancor più complessa; dice in proposito De Marino: «Dietro le finestre ci sono piante, rami, carte da parato, passa il vento che muove le cose, c’è un ragazzo che vola su dei tetti fatti proprio di tegole, ce ne sono tre che hanno addirittura la pioggia che cade a cascata a ridosso del tulle, come se fossero finestre vere sull’esterno, tutto quello che rende ancora più cinematografico lo spettacolo, perché a teatro tu puoi vedere tutto, mentre qui come al cinema il taglio dell’immagine è già condizionato e vedi solo quello che il regista ti permette».

È dunque uno spazio in continua trasformazione quello in cui prendono vita le Favole di Oscar Wilde, dove le immagini appaiono quasi sempre contemporaneamente e dunque facendo esplodere l’idea che in teatro tutto debba avvenire di fronte allo sguardo, sviluppando la visione del regista in un prisma che fa esplodere le possibilità di visione dello spettatore, così che il rovesciamento fisico della scena e della platea, oltre a definire il carattere sperimentale dell’opera, suggerisce inoltre un ulteriore spunto di interesse: con questa intenzionale scelta Sepe compie un ribaltamento invece concettuale, antiegoico, dell’artista che, contrariamente alla consuetudine del considerare la regia come un’impronta ideativa indelebile sulla fruizione, fa fiorire l’opera nella libertà quasi anarchica della percezione che raccoglie segnali, stimoli, da e per varie direzioni, ognuna capace di esprimere un preciso, ma allo stesso tempo inafferrabile, teatro.
Redazione