Recensione. Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi con la regia di Emma Dante. Vista al Teatro Regio di Parma
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Giovanna d’Arco è un’opera giovanile (1845) di Giuseppe Verdi con il libretto di Temistocle Solera tratto parzialmente dal dramma Die Jungfrau von Orleans di Friedrich Schiller (1800). Considerata per diverso tempo un’opera minore e poco riuscita, musicalmente lontana dallo sfarzo delle opere verdiane successive, Giovanna d’Arco è stata raramente rappresentata fino al Novecento quando fu riscoperta e affidata a diverse regie nonostante ancora oggi continui a suscitare dubbi e critiche.
Il Teatro Regio di Parma le dà una posizione d’onore ponendola ad apertura della nuova stagione lirica e affidando la regia a Emma Dante. In scena dal 24 gennaio al 1 febbraio quest’opera ha preso vita grazie alla collaborazione simbiotica della regista con il direttore d’orchestra Michele Gamba che nelle note di direzione esprime entusiasmo per la coesione volta a riscoprire la bellezza di questa che lui definisce “opera da camera”. La cifra stilistica scelta pare quella della sobrietà: la partitura frastagliata di Verdi e la discontinuità narrativa del libretto qui si risolvono in un grande interesse scenico per i duetti (in particolare quelli tra Giovanna e il re di Francia Carlo VII di cui la pulzella d’Orleans finisce per innamorarsi, e tra lei e il padre Giacomo). E proprio nei duetti fanno la loro comparsa sentimenti repressi e contrastanti che delineano la natura dei personaggi e ci fanno già pregustare quello che solo due anni dopo apprezzeremo nel Macbeth quando la musica invece esploderà e i personaggi saranno totalmente governati dalla passione.
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L’opera di Verdi e Solera si distacca dalla tradizione ancor più di quanto già non accada in Schiller. Giovanna (affidata al soprano Nino Machaidze) non è più una ragazza ma una donna combattuta tra il misticismo e l’amore carnale, tra la santità e la passione terrena. Emma Dante la veste di rosso per l’intera rappresentazione e la colloca in un contesto visivo fortemente femminile che traduce il suo lirismo nella presenza di innumerevoli fiori colorati: sparisce il sangue, sostituito da un colonnato ad archi di fiori prima e da un manto mortale fiorito in cui viene avvolto il suo corpo caduto nel finale. Probabilmente questa scelta potrebbe anche derivare da un ragionamento sulle sue origini. Importante infatti è sottolineare l’interesse di Verdi per il mondo magico e il soprannaturale di cui già in quest’opera inizia a esplorare le possibilità. Come potrebbe non coincidere questo con la ricerca di Emma Dante, offrendole un’opportunità di rappresentazione già colta qualche anno fa nel meraviglioso Macbeth prodotto dal Teatro Massimo di Palermo (2017)? Come allora oggi Dante fa propria l’intuizione verdiana e fa intervenire in scena dei personaggi demoniaci e/o favolistici con cui la pulzella sembra accompagnarsi da sempre. Se infatti Giovanna è storicamente tormentata da voci ultraterrene che le indicano le gesta da compiere per condurre la Francia alla vittoria sugli inglesi, il potere superiore che l’assiste qui sembra tutt’altro che divino, ma ha invece a che fare con gli spiriti della foresta di Domrémy. Dante intende indagare una certa “inquietudine interiore” (ndr) che rende il personaggio al contempo una santa ma anche una pazza o peggio una strega.
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L’unico momento di grande impatto scenico nella rappresentazione di Parma è la scena terza del prologo: l’apparizione della foresta con imponenti alberi che invadono tutto lo spazio del boccascena in cui Giovanna non è ancora una battagliera ma quasi una strega con lunghissimi capelli rossi e circondata da fauni dal manto fiorito e donne striscianti semi vestite di rosso come lei che con lingue nere la seguiranno in tutti i momenti salienti dell’opera a influenzare i suoi stati d’animo. Impossibile non pensare immediatamente al coro delle streghe del Macbeth. Pur dichiarandosi devota alla Vergine, Giovanna è una figura ibrida che si affida da un lato alla fede e dall’altro agli spiritelli della foresta come ben rappresentato da Dante nell’apparizione della spada e dell’elmo che l’aiuteranno in battaglia:
“Sempre a me, che indegna sono, apri allora il cor pietoso… oh se un dì m’avessi il dono d’una spada e d’un cimier!”
Mentre lei invoca Maria sono i fauni a portarle i doni richiesti, ed è nella foresta incantata che avviene la sua trasformazione da “pulzella” a eroina pronta a guidare l’esercito francese.
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E non è un caso che a tradire la vera fonte del potere di Giovanna di fronte al popolo che la osanna sia il padre di lei, figura messa in luce per la prima volta nel libretto di Temistocle Solera. Il pastore di Domrémy Giacomo (Ariunbaatar Ganbaatar) incarna il mondo magico da cui lei e le sue visioni provengono. Il baritono vendicatore qui è un padre che si sente abbandonato e tradito, che muove l’accusa di stregoneria offrendola prigioniera agli inglesi, salvo poi sostituirsi a lei nell’atto finale in un moto di compassione e pentimento. Per il padre l’amore di Giovanna non può che essere destinato a un’entità superiore e soprannaturale perché lei mantenga la castità dimenticando l’amore per il re. In questo rapporto che diremmo manipolatorio c’è già la visione del destino mortale di Giovanna.
La più grande rivoluzione della Giovanna d’Arco di Verdi infatti è nella morte della pulzella D’Orleans. Come Schiller, Verdi e Solera rinunciano alla verità storica e così il rogo di Rouen non avviene. Muore invece in battaglia, martire sacrificale, per salvare la Francia dall’oppressore assecondando il proprio destino/delirio. Nella follia lirica di Giovanna, nella sua irruenza e irrazionalità c’è già il sintomo dei protagonisti verdiani: la tracotanza di Macbeth, la gelosia di Otello. L’iconografia della sua morte e dell’estasi finale è perfettamente resa dalla regia: un cavallo enorme dalle costole scoperte e l’aspetto fragile di un feticcio entra in scena mosso, come un pupo, dai figuranti che gli danno vita. Il trionfo della morte è compiuto. Lo scheletro che s’intuisce da quella finestra di pelle nell’imponente cavallo rimanda direttamente all’affresco quattrocentesco “Trionfo della Morte” conservato a Palermo nella Galleria di Palazzo Abatellis.
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Eppure, a parte questa intuizione, nel resto dell’opera andata in scena al Regio trasuda un conflitto tra l’intenzione di Dante di attualizzare la figura di Giovanna che lei interpreta come “una donna eccezionale che sfida con coraggio le convenzioni sociali fino al sacrificio della vita” (ndr) e l’adesione a un canone estetizzante che rende il tutto goffo, timido, lontanissimo dalla bellezza delle altre regie delle opere verdiane della stessa Dante. Dai costumi alle scene, pur firmati dai brillanti Vanessa Sannino e Carmine Maringola, alle luci di Luigi Biondi, fino ai movimenti di scena curati da Manuela Lo Sicco e qui ridotti all’essenziale, tutto sembra voler tradurre la sobrietà della partitura musicale con qualche scossone non riuscito e qualche riferimento iconografico debole (la processione della statua di Maria nel prologo, il muro dei caduti puntellato di buchi da proiettile che apre il primo atto). La regia contemporanea di ogni opera lirica è sempre fatta di scelte estetiche mirate a ridefinirne il contesto e il messaggio. Eppure qui Dante sembra aver sprecato l’occasione di affrontare un personaggio veramente complesso e sfaccettato riducendo Giovanna d’Arco a una dichiarazione d’intenti incompiuta.
Molto applauditi dal pubblico parmense gli interpreti: la soprano Nino Machaidze e il tenore Luciano Ganci nel ruolo di Carlo VII, ma soprattutto il baritono di origine mongola Ariunbaatar Ganbaatar nel ruolo di Giacomo citato positivamente in tutte le critiche. Apprezzatissima la Filarmonica Arturo Toscanini applaudita già dalla Sinfonia che precede il prologo.
Silvia Maiuri
Febbraio 2025, Teatro Regio, Parma
GIOVANNA D’ARCO
di Giuseppe Verdi
Dramma lirico in tre atti su libretto di Temistocle Solera dal dramma Die Jungfrau von Orléans di Friedrich Schiller.
Edizione critica a cura di Alberto Rizzuti Casa Ricordi, Milano.
Prima rappresentazione il 15 febbraio 1845 al Teatro alla Scala di Milano.
Cast
Carlo VII LUCIANO GANCI
Giovanna NINO MACHAIDZE
Giacomo ARIUNBAATAR GANBAATAR
Delil FRANCESCO CONGIU*
Talbot KRZYSZTOF BACZYK
*Già allievo dell’Accademia Verdiana
Direttore
MICHELE GAMBA
Regia
EMMA DANTE
Scene
CARMINE MARINGOLA
Costumi
VANESSA SANNINO
Luci
LUIGI BIONDI
Coreografie
MANUELA LO SICCO
FILARMONICA ARTURO TOSCANINI
CORO DEL TEATRO REGIO DI PARMA
Maestro del Coro
MARTINO FAGGIANI
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
Spettacolo con sopratitoli
Scene e attrezzeria Teatro Regio di Parma, Teknostage (Parma), Media Scenica (Ariccia) Lorenzo Paoli (Massarosa – LU)
Costumi Teatro Regio di Parma
Calzature C.T.C.
Parrucche Audello Teatro
Trucco e parrucco a cura di Backstage srl cr
Sopratitoli a cura di Enrica Apparuti
Assistente alla regia Federico Gagliardi
Assistente alle scene Roberto Tusa
Assistente ai costumi Chicca Ruocco
Direzione musicale di palcoscenico Gianfranco Stortoni
Direzione di scena Ermelinda Suella
Assistenti alla direzione di scena Roberta Petraccone, Giulia Recchia
Maestro di sala, palcoscenico e all’harmonium Gianluca Ascheri
Altro maestro di sala e palcoscenico Claudio Cirelli
Maestro di palcoscenico Michele Pannitto
Maestro alle luci Melissa Mastrolorenzi
Maestri ai sopratitoli Enrica Apparuti, Micaela Bozzato Bilikova
Direttore di produzione Ilaria Pucci
Direttore allestimenti scenici Andrea Borelli
Direttore di palcoscenico Giacomo Benamati
Scenografo realizzatore e consulente agli allestimenti scenici Franco Daniele Venturi
Capo costruttore Massimiliano Peyrone
Responsabile macchinisti Massimo Gregori
Responsabile elettricisti Simone Bovis
Responsabile attrezzeria Monica Bocchi
Responsabile sartoria Lorena Marin
Personale tecnico, amministrativo e di palcoscenico del Teatro Regio di Parma