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Pericoli e opportunità del Decreto Ministeriale. Intervista a Franco D’Ippolito

Mentre artiste e artisti, operatrici e operatori, associazioni e compagnie, festival e istituzioni teatrali s’affannano a rispondere in trenta giorni a un Decreto che il Ministero ha scritto in sei mesi, compiamo un’indagine in forma d’intervista, dialogando con Franco D’Ippolito. Cosa c’è nelle pagine del nuovo decreto per lo spettacolo dal vivo, D.M. 23 dicembre 2024? S’avverte l’esistenza di una politica culturale? Di che tipo?

Franco D’Ippolito ha lavorato nell’ETI, al Piccolo di Strehler e Ronconi, diretto il Teatro Pubblico Pugliese e il Metastasio di Prato e svolto consulenze per teatri pubblici e privati. È stato componente del Nucleo di valutazione della Regione Toscana, consulente per lo spettacolo della Regione Puglia, contribuendo alla stagione dei Teatri Abitati, e membro del Comitato Scientifico per lo spettacolo in Emilia Romagna. Docente in master e corsi universitari, insegna Organizzazione del sistema teatrale alla Paolo Grassi di Milano. Questo riporta il curriculum. Ma una nota biografica non può tacere dei mesi che spende per analizzare il sistema, o dei file al pc in cui infila con rigore dati e nomi perché le politiche di un governo o del Ministero della Cultura risultino chiare, o delle estati trascorse a far di conto su ciò che accade al teatro e alla danza in Italia. Un’attenzione rara, che ha trovato recente compimento nella pubblicazione di una Guida ragionata (Amazon Italia, 2025) all’ultimo Decreto Ministeriale. Lo abbiamo intervistato perché ne chiarisca alcuni punti, certe tendenze nascoste o visibili.

Franco D’Ippolito – Foto di Ilaria Costanzo

Da cosa partiamo?

Dal sito del Ministero, sezione Osservatorio, contenuto: Relazioni annuali al Parlamento sull’utilizzo del Fondo Unico per lo Spettacolo dal Vivo (FUS), oggi Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo (FNSV). Anno 1985. Clicchiamo e leggiamo che il Fondo è istituito con la Legge n.136 del 30 giugno per ovviare al cumulo di «norme contingenti», «contraddittorie» e «a carattere settoriale» emanate in precedenza e che l’impiego di tali norme, «di corto respiro», «non hanno risolto alcun vero problema né istituzionale né operativo», anzi: «il contributo statale ha finito per risolversi in un inefficace trasferimento di ricchezza a carattere assistenziale». Esiti? «Un panorama inquieto», «un affanno irreversibile» dell’ordinamento legislativo, un «malessere diffuso» per chi fa spettacolo. Perciò nasce il FUS: per dare risorse certe e tempestive a un settore riconoscendone valore e funzioni. Occhio però: «Questa (detta “legge madre”)» è «costruita quale premessa essenziale a una riforma», insomma: «il Fondo Unico per lo Spettacolo rappresenta la prima tappa di una riforma generale» che, nel 1985, viene ritenuta necessaria e non più rinviabile. Sono passati quarant’anni, siamo ancora privi della «legge organica sul teatro» di cui si diceva allora e da otto, aggiungo, aspettiamo i decreti attuativi del Codice dello Spettacolo, promessi dall’attuale governo entro luglio scorso e ulteriormente rinviati ad agosto 2025.

Conseguenze?

Due. La prima: attribuiamo ai D.M. un’incisività in termini di creazione di sistema che non hanno né possono avere. Regolano e determinano «l’assegnazione e la liquidazione dei contributi», come dice già il titolo. Si tratta d’interventi prettamente finanziari, cui ci aggrappiamo – assente una fonte legislativa primaria – per mancanza di visione politica. La seconda: privi di una legge che regoli il nostro comparto, risultiamo vulnerabili rispetto al pensiero maggioritario del momento e al modo in cui si manifesta. Tant’è, c’è un altro elemento di cui dire.

Quale?

Il ritardo di questo Decreto, datato 23 dicembre 2024, che chi fa teatro, danza, musica, spettacolo viaggiante ha potuto leggere il 13 gennaio. Per intenderci: il D.M. del 2014 fu pubblicato il 1° luglio, quello del 2017 il 17 luglio, quello del 2022 il 25 ottobre, ma in un contesto che risentiva ancora della pandemia. Rispetto al 2014 ci sono voluti 176 giorni in più. Ragioni? Una debolezza duplice. Da una parte l’impreparazione dei politici, che hanno sottovalutato complessità e bisogni del settore. Pensavano di modificare le norme celermente, tra offerta del nuovo testo alla controparte – una sola, l’AGIS, avendo negato a C.Re.S.Co. la possibilità del dialogo – confronto con le Regioni e Corte dei Conti. Una prova: la prima bozza del D.M. è del 22 ottobre ovvero quasi coincide cronologicamente con la pubblicazione del più tardivo tra i D.M. precedenti. Ce la caviamo in fretta, avranno pensato. Invece il 12 novembre il Coordinamento tecnico, Commissione Cultura, Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, approva delle Osservazioni sullo schema di decreto del Ministro della Cultura che impattano sulla bozza.

In redazione siamo riusciti a ottenere e leggere il documento. A tratti disfa il primo disegno ministeriale. Scelte «immotivate», applicazioni «rigida e forzata» di criteri e regole «a discapito delle professionalità artistiche», il rischio di «polverizzare i contributi e creare danni al sistema dello spettacolo» e le «disposizioni che vanno a incidere profondamente sul settore», per le quali «si ritiene non adeguato lo strumento del Decreto ministeriale», la scarsa attenzione per il Sud, «dove il reddito pro-capite è più basso» ed è «accompagnato da una quasi totale assenza delle fondazioni bancarie», la «virata troppo incisiva verso la premialità per i soggetti beneficiari collegata all’impiego dei fondi privati», ad esempio. Una messa in discussione, punto per punto, di quel che era stato immaginato e posto su carta.

Che infatti determina una nuova fase rielaborativa: s’arriva alla Corte dei Conti a dicembre, quand’è presa dalla Legge finanziaria. Ma, dall’altra parte, c’è la seconda debolezza cui accennavo: quella di un settore rimasto quasi per intero muto e in attesa, avendo scarsa possibilità di far sentire il proprio peso, le proprie esigenze. Ci siamo trovati quindi con un D.M. emanato con mesi di ritardo, progetti triennali da ideare e presentare in trenta giorni e una modulistica di cui si continuano quotidianamente a correggere errori e imprecisioni, contraddizioni e refusi. Tutto ciò costituisce uno scandalo.

GUIDA RAGIONATA, Franco D’Ippolito-La copertina

Ti chiedo di mettere a fuoco alcuni aspetti del D.M. Innanzitutto, per i Nazionali è prevista la «distinzione tra gli incarichi di Direttore generale e Direttore artistico» (il primo si occupa della «gestione dell’istituzione», il secondo è responsabile dell’area creativa e culturale), tali figure «devono garantire la presenza all’interno del teatro nel rispetto dell’importanza del ruolo di vertice loro assegnato» – datevi insomma una regolata con le tournée, siete pagati soprattutto per dirigere un grande teatro pubblico – delle loro regie (a decrescere: tre nel 2025, due nel 2026, una nel 2027) va «preventivamente documentato al Consiglio di Amministrazione e dallo stesso autorizzato» l’impegno (ovvero «costi di produzione degli spettacoli» e durata) ed è obbligatoria la nomina di «un Direttore artistico junior, di età inferiore o pari a 35 anni, nominato dal CdA su proposta documentata del Direttore generale e del Direttore artistico» affinché collabori «nello sviluppo di quella parte di programmazione dedicata alla ricerca di nuovi artisti e nuovi spettacoli». Che idea di Direzione pubblica rivela l’insieme di tali norme?

In premessa, le regole sono state quasi tutte blandite con le deroghe. Indicata la strada, è come si dicesse: solo se ti va di percorrerla. Ad esempio, il CdA «con motivata deliberazione adottata all’unanimità» può nominare un Direttore unico «in presenza di rilevanti e prestigiose figure professionali con comprovate e specifiche competenze in ambito manageriale e artistico». Conosci forse CdA che abbiano votato un direttore pur non ritenendolo una figura rilevante? Come non detto, quindi. Quanto al resto, pare più una messa in evidenza di ciò che già avviene che un cambio effettivo. Prendi i costi degli spettacoli: sono chiari al CdA già quando il direttore chiede l’approvazione del bilancio preventivo. L’impressione è che la politica, scrivendo ciò che ha scritto, abbia voluto dire soprattutto: badate, prestiamo attenzione a quel che fate. Ci sono invece due aspetti da sottolineare. Da sempre sono convinto che un teatro pubblico, a maggior ragione se Nazionale, necessiti di una compartecipazione di idee, scelte, responsabilità. Si tratta di organismi complessi che chiedono una cooperazione tra competenze. Sostengo da sempre la doppia direzione, manageriale e artistica, che va però attuata con rigore e alte ambizioni culturali. D’altronde è l’assetto che ha fondato gli Stabili, a partire da quelli di Milano (Grassi/Strehler) e Genova (Chiesa/Squarzina). Ma tale modello dal D.M. è svilito.

E il secondo aspetto?

Sette Nazionali, cui aggiungere il Piccolo di Milano. Otto figure apicali, maschili. Anche se questo non è conseguenza di un D.M. ma dell’(in)cultura di un Paese e delle scelte delle amministrazioni locali (Regioni, Comuni, Province dove previste), per le quali sembra impensabile una direttrice. Disparità di accesso e opportunità di carriera. Impossibilità di presa di parola sul mondo tramite l’arte. E la perdita di letture ulteriori della vita. Per dirla in metafora: continuiamo a non guardare l’altra metà del cielo, così perdendo albe e tramonti meravigliosi.

Altro tema: fino al 2014 la diversità tra Stabili a iniziativa pubblica e Stabili privati era chiara. «Con il D.M. 2015/2017 questa distinzione viene meno», scrivi nella Guida, e aggiungi che reintrodurla «potrebbe favorire l’intero sistema». È un tema «centrale», chiosi, non affrontato neanche stavolta.

Cosa accomuna teatri pubblici e privati finanziati dallo Stato? Devono restituire un’offerta di qualità ai cittadini che con le tasse costituiscono i contributi nazionali e locali di cui questi stessi teatri beneficiano. In cambio del denaro va reso alla collettività un tentativo sincero di aspirazione alla bellezza e all’innovazione. Un teatro d’arte, per quante più persone possibili. Cosa li differenzia invece? Quasi tutto il resto. Dall’esistenza o meno di soci istituzionali alle modalità di impiego dei soldi, dai limiti (o dall’assenza di limiti) del mandato direttivo all’esposizione economica personale: un bilancio pubblico negativo è ripianato da Regioni e Comuni; un privato va in banca ad esporsi a mutui, prestiti, fidi. Col D.M. 2015/2017 è stata prodotta confusione, ne derivano ingiustizie per tutti. Occorre chiarezza affinché lo Stato possa chiedere davvero ai soggetti pubblici di rispondere a funzioni antieconomiche e complesse, che contemplino il continuo rilancio di una proposta artistica che sia libera dalle pressioni commerciali e, di contro, pretenda meno in termini di funzioni dai privati, su cui però effettuare più controlli per comprendere come impiegano il denaro ottenuto. Da dieci anni si opta invece per le coesistenze forzate, l’approssimazione, il disordine. Volutamente.

Tra ciò che invece nel D.M. c’è: la riforma delle coproduzioni. Era «un formale accordo redatto per iscritto e debitamente firmato, con chiara indicazione dei rispettivi apporti finanziari, del periodo di gestione e dell’attribuzione di borderò». Dal 2026 pretende che l’investimento da parte dei soggetti «non sia inferiore al 20% dei costi dell’intera attività (prove, allestimento, realizzazione della prima), ambito teatro, e del 10% per tutti gli altri ambiti». Motivi ed effetti della riscrittura della norma?

Le coproduzioni «garantiscono maggiori risorse economiche e organizzative, cast più importanti, allestimenti più curati e una visibilità iniziale degli spettacoli negli spazi dei coproduttori». Lo scrivo nella Guida, lo confermo a voce. Favoriscono la collaborazione tra realtà differenti per grandezza strutturale e forza economica (uno Stabile in dialogo con un festival, una compagnia assieme a un Teatro delle Città), la maturazione progressiva di una poetica, un pensiero “più ampio” per chi viene dalla gavetta e dall’off. Purché siano coproduzioni vere e non di facciata. Va ammesso: è uno strumento abusato e che ha prodotto abusi. Tra i più frequenti, l’investimento risibile da parte dei grandi soggetti nelle coproduzioni coi piccoli: qualche migliaio d’euro non di rado, talvolta anche meno. Avessimo coraggio e onestà faremmo mea culpa. Tant’è, la norma è stata chiesta e ottenuta per proteggere le realtà fragili e per spingere le istituzioni teatrali maggiori a un impegno economico reale. Vuoi coprodurre? Metti quanto serve. Detto ciò, due aspetti da monitorare. Il primo: occorrerà capire perché l’impegno minimo richiesto è il 20% per il teatro, il 10% per le coproduzioni in altri settori; come se l’ambito della scena fosse ricco il doppio. Il secondo, più delicato: la norma favorisce chi riuscirà a collaborare coi grandi, poiché gli impone di fare quanto dovuto. Ma cos’accade per le compagnie che non possono permettersi il 20% del progetto cui aspirano? Sono a rischio percorsi di crescita già in divenire, tra possibili compressioni progettuali e difficoltà o interruzione del passaggio dalle piccole sale ai palchi principali del paese.

A proposito dei percorsi di crescita. La direzione artistica junior ai Nazionali, gli «almeno quattro spettacoli di autori viventi» per i Nazionali (erano due) e gli «almeno tre spettacoli di autori viventi» per gli ex-TRIC, ora chiamati “Teatri delle Città” (ne bastava uno), i tre spettacoli «di nuova drammaturgia e nuova scrittura di scena» sia per i Nazionali che per i Teatri delle Città e, tra i criteri che fanno punteggio, l’impiego di giovani artisti e tecnici e di autori e autrici under 40, la parità di genere, la «valorizzazione delle compagnie autonome» ovvero non già finanziate dal FNSV. Induzioni a un cambiamento reale o lustrini ingannatori?

Risposta di prospettiva: intendiamoli come incentivi, coerenti tra l’altro con alcune finalità dichiarate del Fondo: «qualità dell’offerta», «pluralità di processi innovativi», «ricambio generazionale», «valorizzazione dei nuovi talenti», «parità di genere», «riequilibrio territoriale», «l’accesso alle arti della scena» con particolare attenzione per i più giovani e chi ha meno opportunità. Cui aggiungo, novità importante, «l’accesso delle persone con disabilità alle attività dello spettacolo e alle carriere professionali». È anche (e soprattutto) per realizzare questo che i soggetti ricevono i nostri soldi. Gli elementi indicati spingono in tale direzione. Risposta con aggiunta di sincerità: si tratta di parametri esistenti da sempre nei D.M., negli allegati, nelle circolari. E negli Statuti. Al netto delle costrizioni normative, stringenti o meno, è questione di volontà. Produrre una compagnia sconosciuta, investire su una giovane drammaturga, variare l’offerta in stagione, proporre un cartellone non soltanto maschile, rinunciare a uno scambio, rischiare con un titolo mai sentito invece che riproporre il classico, da fare com’è stato già fatto decine di volte. È una scelta. Per questo amo ripetere che le norme non mutano il sistema. Ne regolano in parte il funzionamento. Ma è una questione di priorità, e di rispetto dei propri doveri e della propria funzione. Va però detto altro. Anzi va gridato.

Cioè?

Questo D.M. si priva quasi del tutto della parola “innovazione” e strappa dalle sue pagine la locuzione “rischio culturale”. Cercala, non c’è più. Eppure è tra i fondamenti del sostegno pubblico all’arte e al teatro. Si mettono in garanzia i soggetti perché azzardino, s’investe anche perché il pubblico incontri l’inedito, faccia esperienza dell’inatteso. La metto positivamente: essendo principi inderogabili non necessitano più di essere scritti. Dovessi pensare male: è la premessa a una volontà spaventosa.

Quale?

Rendere minoritaria, quasi fino alla cancellazione, quella parte del sistema che opera quotidianamente aspirando al rinnovamento e al rischio nella proposta. Capiremo coi riconoscimenti e le assegnazioni, poco prima dell’estate. E nel caso dovesse avvenire, mi auguro che il settore sappia reagire, che abbia un sussulto.

Capiremo anche dalla riforma dei Centri di Produzione teatrale. Nati per collocare nel sistema gli Stabili di Innovazione e quelli dediti al teatro per infanzia e gioventù, identificati per vocazione, pratiche, pubblico di riferimento. Ora il D.M. gli dice fate quel che volete – «produzione classica, moderna e contemporanea, teatro sociale, per infanzia e gioventù, commedia musicale, operetta, teatro di figura, teatro di strada, teatro di poesia» – e li distingue solo per capienza: 450 posti, 250 posti, 200 posti.

Si tratta di un cambiamento pericoloso. Segna il ritorno a un passato lontano decenni, impiega un criterio legato alla programmazione (le poltrone disponibili) per valutare la produzione, a parità di posti in sala costringe a compresenze tra spazi che hanno storia e slanci creativi diversi, rischia di porre fianco a fianco chi lavora per la ricerca con chi bada al botteghino dando l’idea di voler favorire una concezione soprattutto intrattenitiva e commerciale dello spettacolo dal vivo. Va sospeso il giudizio fino alle assegnazioni: vedremo chi sarà riconosciuto dal Ministero e in che termini. Ma resta l’incomprensibilità dei parametri usati (che differenza c’è tra un Centro da 250 posti e uno da 200?), buoni solo per una valutazione per volume. Prevedibile una “lotta ai lunghi coltelli”, con la possibilità che l’area che sta tra la grande stabilità e le compagnie veda compressa la sua propensione innovativa. E se questa parte del settore dovesse impoverirsi qualitativamente a risentine sarà l’intera filiera. D’altronde è questo l’articolo del D.M. più discutibile. Assieme a quello che muta i criteri con cui si assegnano i punteggi relativi alla Qualità Indicizzata.

La domanda può ottenere un massimo di 100 punti. Fino a 35 per la Qualità Artistica, 35 per la Dimensione delle Attività, 30 per la Qualità Indicizzata. Per la prima volta Qualità e Quantità pure hanno lo stesso peso: 35 punti. La Qualità Indicizzata è stata riformata nei suoi indicatori, diventati 21.  Nella Guida scrivi: «Sembrano indicare un’attenzione particolare a incentivare l’utilizzo delle risorse in funzione di una maggiore economicità delle attività». Ovvero?

La Qualità Indicizzata misura la qualità della quantità. Dall’attività in zone svantaggiate al tasso di utilizzo delle sale, dalla partecipazione ai progetti cofinanziati UE a l’offerta posta nei festival. Ma la maggior parte dei neo-criteri introdotti processa il bilancio del progetto.

Ne cito alcuni: capacità di reperire risorse non pubbliche, relazione tra ricavi di botteghino e costi del progetto, l’efficienza calcolata ponendo in rapporto le spese con la retribuzione data al personale artistico e tecnico e la Congruità gestionale: il «costo medio per spettatore» ovvero «il rapporto tra i costi totali del progetto e il numero di spettatori» e «gli incassi medi per spettatore» ossia «il rapporto tra gli incassi totali del progetto e il numero di spettatori». Sembrano dire: vali quanto sbiglietti, sei capace e meriti di essere finanziato se ottieni consenso.

Ci leggo un bisogno da parte del Ministero di valutare la destrezza economica dei soggetti in termini di abilità nello stare sul mercato e di capacità nell’uso delle risorse. Nessuna opposizione al secondo punto: giusto che lo Stato chieda conto di come il denaro dei cittadini e delle cittadine sia impiegato. Obiezioni sul primo: si premia forse chi produce mainstream? Occorre ribadire che c’è un’area pubblico-privata che ha deciso di svolgere un altro ruolo nel sistema, più delicato e complesso: si impegna, riuscendoci o meno, per rinnovare gusti e conoscenze del pubblico, deve poter percorrere strade impervie, darsi tempi lenti, osare nelle forme e nei contenuti e praticare la ricerca continua di nuove proposte, votate non solo a chi già frequenta un teatro ma anche a chi in una sala, davanti ad attrici ed attori, non c’è stato mai. Per tutte e tutti loro una Qualità Indicizzata “di mercato” – che volutamente parcellizza la valutazione rendendola illeggibile – è penalizzante. Qui c’è l’intervento forte del Ministero, qui c’è un avvertibile indirizzo dato dal governo.

E quanto alla distribuzione degli spettacoli, invece, che interventi si notano?

Mi limito a una costatazione fatta negli incontri sul D.M. tenuti a Bologna, Milano e Napoli nelle scorse settimane: l’articolo che riguarda i Circuiti giace intoccato da un decennio. Come non fosse una questione da affrontare.

Hai citato le assemblee lombarde, emiliane e campane, attorno a te artisti, operatrici, tecnici, studentesse e studenti d’Accademia– spesso giovani. Mi viene da leggerti perciò alcune righe di una lettera: «Penso che il nostro compito, il compito di noi giovani, sia attualmente quello di immagazzinare libri, notizie, dati, cognizioni, conoscenze, documenti; quello che necessita è un lavoro oscuro, durissimo di studio, di preparazione, di affinamento dei nostri mezzi e delle nostre qualità. Il mio personale voto è che si abbia a formare nel nostro Paese un nucleo vasto di giovani colti, documentati, esperti tecnicamente, sensibili e onesti, che sappiano e vogliano lavorare per il teatro, solo per esso, senza dilettantismi, senza l’abituale incoscienza. Mentre i poeti ci danno la parola nuova, noi prepariamo l’apparato entro cui questa parola possa a suo agio vivere». Paolo Grassi, su Eccoci, 1° giugno 1943. Ha 24 anni e fa parte di quel gruppo nuovo d’uomini e donne non del tutto compromesso e dunque insozzato dal fascismo, cui Silvio D’Amico, nel suo taccuino dei giorni a Regina Caeli, assegna «le speranze del nostro domani»: tocca a loro «prendere il posto della generazione fallita» e «ricominciare tutto, assolutamente tutto, daccapo», scrive il critico. A Milano, Bologna, Napoli hai terminato nello stesso modo, dicendo «studiate».

Lo ridico, studiate. Meglio: studiamo. Non c’è altra via. Per poter usare le regole in funzione del nostro progetto artistico e di vita, invece di esserne usati, e perché solo con la piena conoscenza dei meccanismi e delle norme potremo essere una controparte credibile, consapevole e davvero temibile.

Alessandro Toppi

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sul Decreto del 2014: Riforma Fus. Interviene Franco D’Ippolito

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Alessandro Toppi
Alessandro Toppi
Alessandro Toppi è critico e giornalista napoletano. Scrive prima per il Pickwick, di cui è fondatore e direttore fino al 2022. Dal 2014 è redattore per Hystrio, dal 2019 scrive per le pagine napoletane de la Repubblica e dal 2020 è direttore de La Falena, rivista semestrale di cultura e teatro promossa dal MET di Prato. Negli anni suoi interventi, prefazioni, postfazioni e approfondimenti sono comparsi in varie pubblicazioni. Del 2024 la curatela condivisa con Maria Procino del volume Tavola tavola chiodo chiodo… Il teatro di Eduardo nello spettacolo di Lino Musella edito dalla redazione napoletana de la Repubblica.

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