Re Lear è morto a Mosca è lo spettacolo che César Brie porta in scena insieme a otto giovani attori della Scuola Galante Garrone di Bologna e che prende le mosse dalle vicende legate alla storia del Teatro Goset di Mosca e dei suoi protagonisti, per la cui ricostruzione il regista argentino si è appoggiato al lavoro di Antonio Attisani. Dopo il Palladium di Roma è arrivato a Manfredonia e continuerà la sua tournée nei mesi a venire per arrivare nel prossimo giugno all’Elfo Puccini di Milano, da cui è coprodotto insieme a Campo Teatrale e Isola del Teatro. Recensione
Spesso, si sa, ciò che resta alla storia è caso, coincidenze che assurgono a una connotazione che si acclara fatale. «Noi dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire. I più vecchi hanno sopportato di più: noi che siamo giovani non vedremo tanto né tanto a lungo vivremo», dice Edgar nella conclusione del Re Lear di William Shakespeare. Ci torna alla mente più volte questa frase mentre la visione di Re Lear è morto a Mosca si deposita, nella memoria, negli occhi, nella riflessione sulla cronaca. Ci pare una di quelle coincidenze. Ci viene da pensare che abbia ancora ragione e che, come forse abbiamo già detto altrove, la storia non sia che l’eterno ritorno dell’uguale.
Così dovette sembrare forse anche a Solomon Michoels e Veniamin Zuskin, quando nel 1935 adattarono in yiddish il testo del Bardo per un allestimento che folgorerà persino il profeta della Über Marionette Edward Gordon Craig al Teatro Goset, lo stesso in cui si erano formati ed erano cresciuti come artisti, il medesimo che chiuderà i battenti e da cui saranno allontanati entrambi nel 1948, il primo ammazzato in un investimento organizzato dal MVD a gennaio, l’altro arrestato a distanza di poco, interrogato e torturato per essere fucilato quattro anni dopo. Se volessimo portare avanti il parallelo dovremmo notare come l’innovazione del canone introdotta da Shakespeare nella tragedia di cui sopra – che pure generò clamore e malcontento – sia la doppia morte alla fine di Lear e di Cordelia, figlia prediletta cui avrebbe voluto lasciare il proprio regno; parimenti Solomon avrebbe visto Veniamin succedergli alla guida di una dimensione fatta di personaggi e fondali, danza, canti, cantinelle e tralicci se entrambi non fossero divenuti vittime delle logiche di controllo del regime sovietico, cellule passibili di un’autonomia disfunzionale al Governo retto dal segretario generale del PCUS Iosif Stalin.
Il Goset era il Teatro Ebraico Statale di Mosca, l’unico teatro ebraico in lingua yiddish, appunto, fondato nel 1919 da Marc Chagall e dal regista Alexander Granovskij. Questi ne hanno abbandonato l’avventura negli anni Venti, quando già il luogo e l’ensemble che lo abitava erano divenuti conosciuti per l’accoglimento delle istanze delle avanguardie europee, per la formazione degli attori e dei ballerini basata sulla biomeccanica di Mejerchol’d, per la rielaborazione degli elementi e degli stilemi del patrimonio folklorico ebraico e dell’Ebraismo sovietico, per l’utilizzo della lingua yiddish come fattore identitario organico alla composizione di un concetto d’arte che la travalicasse parlando a tutti. Tutto quanto accennato finora è al centro del lavoro diretto, interpretato e scritto da César Brie, che per la drammaturgia ha collaborato con Lorenzo Ceccanti, anche in scena con altri sette coscientissimi attrici e attori della Scuola Alessandra Galante Garrone di Bologna. Dopo il Palladium di Roma Re Lear è morto a Mosca è arrivato lo scorso dicembre in una delle cattedrali nel deserto del foggiano, il Teatro Comunale Lucio Dalla di Manfredonia, unica data a sud, accolta da Teatro Bottega degli Apocrifi con armonia concettuale all’interno di Eretica, una stagione che si vuole «Non un elenco di titoli ma briciole eretiche accomunate dallo slancio del furore, il sale in un mare calmo, la bussola per viandanti inquieti sul margine, indecisi se abituarsi ad attendere un rincuorato quieto vivere, o alimentare l’irresponsabile desiderio di non temere la vita, sempre pronta a essere sleale».
Il palcoscenico ci si schiude agli occhi all’ingresso in sala, un piccolo sipario rosso al fondo centrale è sormontato da un ritratto di Stalin prospetticamente incorniciato da tre sedute sulla sinistra e due sulla destra, mentre più avanzato sullo stesso lato un fascio di luce chiara naturale evidenzia il gesso impresso sul grigio della bachelite di una lavagnetta recante la scritta «Funerali di Stato. Apriamo alle 12:00», con il disegno di una stella di David e di falce e martello; opportunamente girata la lavagna riporta invece la dicitura “sponsor” ad accompagnare una ulteriore immagine del dittatore. Quando gli attori entrano in scena il siparietto si apre e rivela il coperchio ligneo di una bara – anch’esso graficamente cifrato dalla stella ebraica – che presto scopriremo essere quella di Michoels e che nello svolgersi della e delle azioni del personaggio servirà tanto come supporto – per modellarle sia il livello dello spazio motorio che quello visivo di costruzione dell’immagine – , quanto come elemento in grado di convertire il segno materico tangibile in simbolo dal valore interpretabile, attraverso un processo di acquisizione di ambiguità semantica provvidenziale per la scena. La stessa cosa, in una paritetica relazione di modellamento e connotazione, avverrà per lo Zuskin interpretato da Davide De Togni con una scala di legno che diventerà all’occorrenza un piano di scrittoio, un giaciglio, una parete divisoria o una cancellata di reclusione, un patibolo o un ballatoio da cui lanciarsi e farsi lanciare.
Perché a differenza dei due personaggi shakespeariani, questi non aspettano la fine per trapassare, anzi in scena sono vivissimi anche da morti: raccontano di sé, ricostruiscono l’attività dell’ensemble insieme ai propri compagni, usano la voce definendo uno spazio acustico che alterna a tratti canto e contro-canto e si impasta alla voce del detto e al contrappunto delle sottolineature della musica fuori campo, si muovono e si riuniscono in schiere ricomponendo quadri di coreografie e colori dalla trasognata ispirazione estetica espressionista, scrivono così che il ticchettio dei tasti sulla macchina solfeggi drammaturgie di adattamenti e testi originali, fanno sarcasmo e si trasformano persino nei propri carnefici, siano essi guardie, spie o burattini di governanti (Stalin, Molotov e Beria), si spogliano e si vestono cambiando i costumi ma anche sfilandosi e infilandosi i cappotti scuri su cui rimangono i segni chiari dei pneumatici che li hanno investiti o della polvere delle celle in cui sono stati buttati, pestati, zittiti, loro insieme ad altri che citeranno prima di congedarsi, ci raccontano in accenni più o meno poetici come si siano innamorati o come si siano incontrati e abbiano iniziato a lavorare ma anche come abbiano avuto paura e siano morti, come si siano nascoste e conservate le fonti a riferire le loro gesta… Senza mai smettere di essere, anzi continuando a resistere ed esistere in scena per la scena, i personaggi e con essi gli attori vivono di un equilibrio calibrato per cui la qualità della presenza sembra non sbilanciarsi né sull’interpretazione né sulla performance cosicché lo spettacolo di Brie si consegni come un tributo implacabile e delicatissimo alla messinscena, una crasi in cui i tempi si dilatano all’infinito per poi comprimersi e divenire Tempo teatrale. «E non devi recedere d’un solo briciolo dalla tua persona umana, ma essere vivo, nient’altro che vivo, vivo e nient’altro sino alla fine», si legge non a caso nell’ultima battuta del testo.
In un tempo in cui la magniloquenza politica, l’irraggiungibile lessico dell’economia comune e la compartimentazione socio-culturale hanno lasciato il posto alla sibillina infiltrazione dell’incoscienza reazionaria, alle connivenze della e con la Finanza, a un’accessibilità dell’informazione che a volte è algoritmicamente ideata per non allearsi con l’insorgere dello spirito critico, per non dissipare il disorientamento o peggio ancora per celare fino in fondo come pure oggi si assedi e si faccia guerra alle voci libere o come si releghino e si bombardino i principi fondamentali di sopravvivenza di popoli e minoranze, come si radano al suolo i diritti di stato e gli stati di diritto, tutto pare lontanissimo e tutto si conferma identico. Il palcoscenico è perciò ancora un luogo in cui raccontare contingenze fatali a più livelli, territorio franco, eppure sin troppo umano, di congiunzione tra il prima e il poi. Un adesso che finisce e si rinnova tutte le sere.
Marianna Masselli
Manfredonia, Teatro Comunale Lucio Dalla, dicembre 2024
RE LEAR È MORTO A MOSCA
Regia César Brie
Drammaturgia César Brie e Leonardo Ceccanti, con la collaborazione di tutto l’ensemble
Attori creatori Laura Taddeo, César Brie, Leonardo Ceccanti, Eugeniu Cornitel, Davide De Togni, Anna Vittoria Ferri, Tommaso Pioli, Annalesi Secco e Alessandro Treccani
Lavoro corporale Vera Dalla Pasqua
Scenografia l’ensemble
Costumi Matteo Corsi
Luci César Brie e l’ensemble
Musica Pablo Brie e musiche tradizionali Yiddish
Una coproduzione Isola del Teatro, Campo Teatrale e Teatro Dell’Elfo
Vincitore Premio “Theatrical Mass 2023”
Consulenza storica Antonio Attisani
Si ringrazia Altea Bonatesta