Recensione e approfondimento. L’Hamlet di Thomas Ostermeier, a sedici anni dal debutto, a tredici dalla sua apparizione alla Biennale di Venezia, è tornato in Italia, per quattro sere (dal 12 al 15 dicembre scorsi), al Teatro Bellini di Napoli. Con la sua spianata di terreno, le sue luci fosche e la sua tensione a un riscatto impossibile. D’altronde Shakespeare, sostiene il regista, «nonostante creda nel potere del teatro è sufficientemente realistico per raccontare la storia di Amleto in modo che Amleto alla fine fallisca». La corruzione del mondo è più forte della scena. Ebbene, a distanza di un mese, cosa resta della battaglia perduta? Certe immagini forse, il rumore delle parole che furono dette e una quantità di dettagli non dimenticabili.
Nel quinto atto, scena prima, Amleto guarda i becchini; scavano per Ofelia ma non lo sa. Li osserva – pala in mano cantano, parlottano, uno chiede la birra – e ne rimane disgustato, «questo tizio non ha il senso del mestiere» dice a Orazio. Le ossa prese per birilli, un cranio gettato come fosse «la mascella di Caino». Scopre che è il teschio di Yorick, buffone di corte e suo padre putativo: Yorick che gli mostra un lazzo, gli insegna una battuta, se lo prende sulle spalle. Giace adesso «picchiato dalla vanga», senza onore né rispetto. L’Hamlet di Ostermeier s’apre col funerale del Re assassinato col veleno nell’orecchio: palco buio, un raggio freddo da sinistra, zolle ovunque – è la terra «dissestata e putrida» di cui Amleto dice a Orazio, è lo «sterile promontorio» ridotto a una latrina di cui parla a Guildenstern –, la fossa con la bara al centro e un uomo di corte che, pompa in mano, simula la pioggia perché, sappiamo dai becchini, «l’acqua è corruttrice di quel gran figlio di puttana del cadavere», elimina cioè presto corpo e tracce. Amleto si ripara col bavero della giacca, sguardo fisso in basso, «smettila di cercare tuo padre nella polvere» d’altronde gli ha detto Claudio, zio e assassino, che guarda dritto e non ha il coraggio dell’ultimo saluto (è il becchino, con un calcio, a gettare per lui terra sul feretro) mentre Geltrude recita: torce il viso e col fazzoletto asciuga due lacrime che nessuno ha visto scendere. Quindi la bara va giù storta, tra inciampi ridicoli, in un buco che diventa una discarica: ci finiscono anche del legno, la pala, della plastica, la corda e un ombrello.
Insomma, Ostermeier ha preso gli scava-fosse e li ha messi a lavorare in premessa, non col putativo ma col vero padre del principe, esaltandone il disgusto: così si tratta un uomo? Certo, erano i tempi – Elisabetta muore di notte, all’alba i cannoni annunciano Giacomo – ma qui c’è di più. Il regista ottiene quattro effetti con una scelta sola: ci dice che la morte nell’Amleto sta all’origine dei fatti; ci fa ridere (ruzzoli, inciampi, capitomboli) mentre invece inizia il dramma; desta in noi un sentimento noto, ovvero la disparità terribile tra ciò che proviamo e il modo in cui va il mondo (quel corpo che interrate è di mio padre e voi ne fate una scartina) e soprattutto spazializza la «vicinanza affrettata» tra funerale e matrimonio: davanti spianano lo scavo e dal fondo avanza il tavolo di nozze, c’è musica e Geltrude – stesse scarpe, dal cimitero è andata diritta in chiesa, nota il figlio – dal nero è passata al bianco. «È seguita subito dopo» dice Orazio della festa, «le carni arrostite per il funerale hanno rifornito, fredde, la tavola matrimoniale» commenta Amleto tant’è, guarda Claudio, viene da scrivere: mangia la carne con le mani. «Economia» e difatti: posate e bicchieri di plastica, birra da discount, vino rosso in brik. Una canzone stonata al microfono, la corona tra piatti di carta. A un punto uno spara col mitra in aria, sono i botti o «le stordite usanze» che ci espongono alla maldicenza pure se non vi partecipiamo: loro bevono e chiamano ubriaconi noi anche se stiamo per i fatti nostri, come Amleto adesso, seduto nell’angolo sinistro della pedana a masticare cibo che sputerà nel piatto.
In quest’Hamlet c’è un gran sipario di fili che avanza o retrocede alla bisogna: fa da schermo per i volti ripresi in diretta, amplia e accorcia gli ambienti, separa visibile e invisibile, permette l’atto più frequente dell’opera – osservare gli altri di nascosto: Polonio e Claudio a un punto spiano Ofelia che fissa Amleto che scruta noi – e ci ricorda di continuo che siamo dinnanzi a uno spettacolo elevato al cubo: davanti abbiamo donne e uomini che interpretano figure che fingono tra loro per ingannarsi. Assente il metafisico, se alziamo gli occhi non c’è cielo con Ostermeier ma palchi e tetto del Bellini, la forza attrattiva porta in basso, la tomba insomma è una calamita: nel punto in cui è sepolto l’ex Re Claudio scivola e s’insozza, Ofelia è offesa, abbandonata e seppellita, Geltrude finisce distesa. Quanto ad Amleto: si tuffa nella terra, di terra si ricopre, la terra la ingoia e per un istante ne è ingoiato: infila la mano tra le zolle, la fa uscire davanti al viso e si tira giù per la cravatta, quasi faccia a faccia con il padre. Dimmi, sono qui. Oppure: non ti ho mai dimenticato. O è scritto il mio destino, finirò anch’io per essere pasto per i vermi.
In quest’Hamlet Geltrude si lecca il dito come fosse un pene, facendoci capire quant’è attratta dal cognato, Ofelia accarezza i petali posti al vecchio Amleto (la passione che ha per le piante, l’anticipo dei fiori che le decorano la morte) e Claudio ci interroga sulla colpa e sulla grazia – «ditemi, a che serve la pietà se non a perdonare il crimine?», «la preghiera può servire nel mio caso?», «uno può essere perdonato e tenersi i frutti del misfatto?» – bevendo vino denso come sangue, che gli sporca denti, labbra, mento e camicia. In quest’Hamlet Polonio dissotterra dalla tomba la corona, se la gira tra le mani, la intesta e si guarda in uno specchio da borsetta: la fame di chi sfiora la maestà senza mai afferrarla, la voglia del secondo di farsi primo per una volta, l’anticipo di ciò che accade: creduto Re, è ucciso dai colpi che bucano l’arazzo. Morto, viene messo («è pesante», atto quarto scena terza) a tavola da Amleto, che gli versa la birra e gli parla perché «va completato con lui il discorso» e perché – «dov’è mio padre?» chiede Laerte – non vedi, «è a cena», anche se ha smesso di mangiare e inizia a essere mangiato. Geltrude mani alle orecchie perché il figlio dice parole che sono pugnalate, Geltrude stretta da Amleto al polso proprio come Ofelia, Ofelia che si versa una bottiglia d’acqua in testa iniziando a inabissarsi, Ofelia che muore in video ossia esiste in via indiretta poiché nel testo a dire del suicidio è Geltrude. Dimenticavo: Geltrude e Ofelia sono la stessa attrice, Jenny König, con e senza parrucca. Vent’anni in più o in meno con un gesto. Impressionante, v’assicuro. D’altronde: in quest’Hamlet Robert Beyer fa Osric e Polonio (i due volti del servilismo), Damir Avdic (Orazio e Guildenstern) e Konrad Singer (Laerte e Rosencrantz) alternano amicizia vera e falsa, mentre Urs Junker è Claudio e lo spettro: che assassino e assassinato stanno assieme in ognuno di noi quanto bene e male, vita e morte, colpi dati e ricevuti. E l’Amleto di Lars Eidinger? Salta, corre, va all’indietro («come un gambero», atto secondo, scena seconda), s’annuncia urlando, scende in platea, interroga gli astanti – d’altronde l’Amleto è o non è un dramma dialettico? –, usa un brik come cuffia da dj, rappa e fa scratch col piatto, balla la breakdance, sfiata come un piffero con gli amici («vorreste suonarmi?») e strepita, sputa, fa boccacce, si lava la mano prima di stringerla a chi ha di fronte, s’aggrappa al sipario e penzola, lecca la spada («le parlerò pugnali»), indossa al contrario la corona («il mondo è sottosopra») e una grossa pancia finta (è «la pinguedine di questi tempi obesi»), torna da Londra con una camicia estiva (avrebbero dovuto uccidermi, guarda Claudio: è stata una vacanza) e indica il tetto con gesti ampollosi, usa il libro come un cuscino, sfida Laerte con una forchetta presentandosi al duello con occhi finti sugli occhi veri («mi batterò con lui finché le mie palpebre non basteranno più», atto quinto, scena prima). Prorompe, divampa, esagera – e il pubblico è con lui: danza nei palchetti, scatta sulla sedia, sollecitato risponde, palpita, si emoziona e alla fine fa un tripudio –, ma tutto questo non è che la forma esteriore con cui maschera un dolore interno, smisurato anch’esso. Più faccio il matto, insomma, più (spero abbiate capito) la mia anima è straziata.
Per quattro giorni di repliche il Teatro Bellini ha lavorato due anni: viaggi in Germania, accordi e disaccordi, cifre che non tornano, spazi che non bastano, tre tir da svuotare in un vicolo, risistemazione del budget con tagli da fare qui e là. A un punto, mi dice Gabriele Russo, direttore artistico, «ho abbozzato coi miei sui costi, arrivando quasi a mentire»: forse risparmiamo sull’hotel, ridurremo un cachet rivelatosi irriducibile. Lo sforzo dice il desiderio e conferma una funzione: un TRIC, sostenuto anche da fondi istituzionali (Ministero, Regione) ha una responsabilità pubblica che contempla l’attenzione ai dati economici ma non si ferma al botteghino. I cittadini investono tramite le tasse per ricevere in cambio qualcosa che li segni. Tra i compiti che il MiC dà ai TRIC c’è «la qualità degli spettacoli ospitati, di respiro nazionale e internazionale»; tra le finalità del Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo c’è il rischio costituito dalla «offerta di lavori a carattere innovativo», che producano «ricambio nella proposta» per far crescere «una domanda qualificata» generando «opportunità di sviluppo culturale». Se crediamo che il teatro possa renderci più consapevoli dei fatti della vita e dei tempi che viviamo le frasi scritte prima non sono parole vuote ma un dovere, cui il Bellini ha risposto permettendo il confronto con una visione per molti inimmaginabile. C’è un modo migliore di usare il denaro dello Stato?
Ancora: Hamlet ha debuttato nel 2008. Paragonare sistema italiano e tedesco è inutile: la nostra stabilità nega il repertorio, bada al ricambio dei titoli e uccide in sede gli spettacoli non contemplando repliche, crescita e tournée. Più utile domandarsi: cosa accade a uno spettacolo che ha sedici anni? In un’intervista di Georges Banu a Ostermeier contenuta ne Il teatro e la paura (Sossella, 2020) il critico avverte due pericoli: la ricerca della perfezione e la sclerosi; il regista risponde citando la libertà assunta nel tempo dagli attori. La definisce «un patto», l’unico che permette talvolta «l’arte dell’istante». Sia chiaro, «ci vuole una struttura» – rivedo vecchi spezzoni video, la messinscena pare identica – ma è all’interno della griglia che l’interprete sera per sera sente e cambia il modo in cui prova a rendere più vero l’incontro con la platea. Insomma, più il tempo passa, più diventa una questione tra attori e spettatori, che si gioca sui dettagli. Un tono, un fiato, la durata di uno sguardo. Stavolta Pupella «s’è spenta come un bengala» nota De Monticelli una domenica; vi assicuro, scrive Brook, che in centinaia di repliche di Re Lear Paul Scofield non ha mai detto i suoi cinque «never» con lo stesso ritmo: «sperimentava in quel momento» ciò che «serviva per rendere la vibrazione che colorava il modo di pronunciare le parole». Un sistema che nega le repliche nega l’arte dell’attore e smorza la capacità d’impatto che quest’arte ha nella relazione con il pubblico che, per citare Taviani, non «è fatta della sostanza delle opere ma di quella delle storie»: la rende così dimenticabile. Se è vero invece ciò che scrive Chiaromonte, che la domanda che dovremmo farci è «cosa rimane?»; se è vero, come sostiene Strehler, che gli spettacoli vanno valutati non nel lasso breve della cronaca ma nel tempo lungo del ricordo; se è vero quel che afferma ancora Banu – che tocca agli spettacoli la sorte delle persone amate e perse: non ne serbiamo l’interezza ma i particolari, sono questi che le rendono ancora vive accanto a noi –, allora a più di un mese dall’Hamlet cosa mi resta infine, mi chiedo, sapendo che «la risposta non può che essere imperfetta e soggettiva» per dirla ancora con Banu.
Restano le macchie di sangue sul bianco della camicia, a sancire fin dall’inizio un assassinio che ha tracce incancellabili, e il terriccio nero attaccato alla pelle bianca degli attori, che è il modo in cui la morte già chiama a sé chi vive; resta il peccato della bocca di Geltrude (le sue parole vane, i suoi baci infami) che produce la schiuma che l’affoga; resta lo squallore lussurioso con cui Claudio infila l’indice nel solco anteriore del gomito destro della sposa penetrandola; restano le labbra di Ofelia, che porta ad Amleto le parole d’amore che lui le ha scritto, gliele poggia sul petto e – mentre lui le butta via dicendole come fossero la lista della spesa – lei le mormora in silenzio, avendole imparate a memoria a forza di ripetersele, come noi ripetevamo da ragazzi le frasi che ci hanno dedicato. E resta infine il volto del principe: i capelli attaccati alla fronte dal sudore, la bocca semiaperta, gli occhi chiari quanto un lago ghiacciato ed invernale. Avete visto, ho combattuto e perso. Il degrado anche stavolta è stato più potente. Adesso non resta che il silenzio ma, nel silenzio, almeno provate a ricordarmi.
Alessandro Toppi
Teatro Bellini, Napoli – dicembre 2024
HAMLET
da William Shakespeare
direzione Thomas Ostermeier
con Jenny König, Konrad Singer, Lars Eidinger, Urs Juncker, Robert Beyer, Damir Avdic
scenografia Jan Pappalbaum
costumi Nina Wetzel
musica Nils Ostendorf
drammaturgia Mario von Mayenburg
video Sebastien Dupouey
light designer Erich Schneider
combattimento scenico René Lay
produzione Schubűhne am Lehniner Platz
in coproduzione con Festival Athen e Festival d’Avignon