Preziosa (e rara vista la prossimità con il debutto scenico) questa pubblicazione di Einaudi su “Lettere a Bernini” di Marco Martinelli, drammaturgia che ha mosso i primi passi proprio nella casa delle Albe a Ravenna, con l’interpretazione di Marco Cacciola e la regia dello stesso Martinelli. In un giorno d’estate del 1667 il maestro dell’arte barocca romana ha una giornata nera: possiamo chiudere gli occhi e vederlo, seduto nel suo studio, dietro a una scrivania o in piedi, nei suoi sessantanove anni, con in mano una lettera, la causa della sua visibile acrimonia. Un’abile intagliatrice di pietre dure, Francesca Bresciani, si lamenta di non ricevere quanto pattuito e per questo scrive alle autorità ecclesiastiche. Martinelli affida la vita di Gian Lorenzo Bernini al gesto teatrale – tipico nel monologo – del ricordo, attraverso il filtro epico di un narratore che si alterna alla prima persona del protagonista, in un dentro-fuori dal personaggio che è tutto un ambiguo gioco teatrale. D’altronde che sia un testo scritto da qualcuno che è anche un esperto regista risulta evidente dalla prima didascalia: «[…] Una figura sola in scena / È un narratore, che raccontando di Gian Lorenzo Bernini, ne assume l’eloquio e la figura ghiacciata, o è lo stesso Bernini che si sdoppia, come in un sogno, e arriva a parlare di sé in terza persona?» Non può esserci umiltà nelle parole di chi già sa di essere passato alla storia. Eppure quel rancore nero, il classico schema dell’acerrimo nemico (intelligentemente sfumato e dosato con cura), per il ticinese Francesco Borromini: «bravo a disegnare / […] Ma capriccioso / Con quella smania di uscire dalle regole». In un italiano sporcato dalle origini napoletane dell’artista e dal romanesco, il testo si lascia leggere con curiosità e ritmo, conducendoci verso un finale segnato dalla pietà, quando Bernini apprenderà la notizia del violento suicidio del rivale. (Lettere a Bernini, di Marco Martinelli, Giulio Einaudi Editore, 2024).