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Laura Curino. Un teatro di ispirazione, per e con il pubblico

A Genova è da poco passato lo spettacolo Alfonsina Alfonsina, con la regia di Consuelo Barilari e il testo di Andrea Nicolini. Abbiamo intervistato Laura Curino, attrice regista e drammaturga con  cinquant’anni di teatro alle spalle (qui alcuni cenni).

Sono le dieci di una soleggiata mattina di fine novembre. Sono nella cucina del mio monolocale a Genova, mentre dall’altra parte della cornetta, su un treno diretto a Torino, si trova Laura Curino, che ha appena lasciato la mia città dopo essere andata in scena al Teatro Eleonora Duse per due sere con Alfonsina Alfonsina. Mi risponde dopo pochi squilli, la sua voce profonda, accogliente. Nonostante le varie interruzioni della linea e il brusio di sottofondo, cominciamo. 

Partiamo dallo spettacolo andato in scena al Teatro Nazionale di Genova, Alfonsina Alfonsina. Da dove scaturisce l’intenzione di lavorare su una figura come quella di Alfonsina Strada? E, in particolare, su un personaggio che proviene dal mondo dello sport, come già ha fatto con la regia di Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il Duce?

Io scelgo i personaggi che ispirano. C’è un teatro di denuncia, è giusto, ne ho fatto quando è stato necessario, però credo in un teatro anche di ispirazione, che ti faccia uscire dalla sala con più energia di quanta ne avevi quando sei entrato, perché a me ce n’è voluta tanta per sopportare e superare le difficoltà che avevo.

È abbastanza una coincidenza quella tra Giovinette e Alfonsina, perché non era cercata, non è che mi sono detta che dovevo lavorare sullo sport, ma sono due lavori che sono venuti da me. Il primo ha costituito in qualche modo l’ingresso in questo universo attraverso la forma teatrale. Così, quando Consuelo Barilari mi ha proposto di lavorare su Alfonsina (su un testo di Andrea Nicolini ndr.) mi ha trovata già pronta, un po’ disorientata dal fatto di doverla fare io che non sono esattamente una sportiva. Però il mondo dello sport ti presenta dei personaggi e delle storie che diventano esemplari e amplificano, per quello che riguarda le donne, i percorsi che devono fare per arrivare alla realizzazione di ciò che desiderano e al successo in un mondo popolato da uomini e gestito da uomini, in cui si comportano come lenti di ingrandimento, diventando un paradigma del percorso che hanno dovuto fare per affermarsi. Per questo mi piacciono e anche perché sono figure, è inutile nasconderlo, fortemente spettacolari, vicine in qualche maniera al rapporto tra artista e pubblico, e allora lì c’è un’affinità con il mio lavoro. 

Non posso non notare, anche in lavori precedenti come Artemisia, Caterina, Ipazia…e le altre un interesse spiccato per il mondo femminile e le sue protagoniste, sullo sguardo femminile come chiave interpretativa della contemporaneità. Quali sono state le ragioni che la hanno spinta a farne un emblema del suo teatro?

Prima di tutto il fatto che sono una donna, non posso estraniarmi da questa cosa, non posso ignorarlo. Secondariamente è che, essendo una donna, so come è fatto questo universo e per formazione tendo ad occuparmi di cose che conosco bene; di conseguenza, o le conosco già o le studio tanto. Tre, perché se ne sa di meno, anche quando se ne sa sempre di più.

Alla base c’è anche un senso di giustizia, un rimettere a posto gli equilibri e un desiderio di futuro migliore, perché tanto per la parità pare che ci vogliano un paio di centinaia di anni, però cerco di fare la mia parte.

E poi perché le donne vanno a teatro, i teatri sono pieni di donne e quindi lavoro per loro. Il teatro è a rapporto con un pubblico non solo di donne, vale la pena di dirlo, ma il teatro in generale e questo in particolare hanno un loro pubblico preciso e quindi come attrice non posso ignorare che l’essenza del teatro è il rapporto tra le due parti, artista e pubblico. Senza questo non esiste il teatro, diventa altro.

I suoi spettacoli si concentrano molto su un rilancio del femminile in termini di eccellenza, come la cornice del festival all’interno del quale viene presentato Alfonsina Alfonsina. Quale impatto ritiene possa avere sulle nuove generazioni la riscoperta di figure eccezionali nell’ordinario come quella di Alfonsina? 

Non si pensa a un impatto come prima cosa, si pensa ad avere qualcuno da impattare, perché un teatro vuoto non impatta niente. Allora, prima di tutto, a chi racconto la storia? In teatro non posso esimermi dal cercare un rapporto con il pubblico, perché è quello che fa sì che la nozione di teatro esista. Quindi racconto queste storie perché mi mettono in relazione con un pubblico, perché sono belle e affascinanti, perché danno coraggio soprattutto a me in quanto storie di caparbietà e determinazione che proprio per la loro eccezionalità richiedono di andare a fondo e per quanto piccole riescono a provocare uno zoom dall’alto su un’idea di città, di nazione, di epoca tale da riuscire a comunicare, a rappresentare il nostro paese, ma anche a vedere il mondo.

Che poi, ricollegandomi alla domanda precedente, anche la sua è una storia di straordinarietà, in un mondo prettamente al maschile come lo è l’ambito del teatro. Ne parla in Passione, in La diva della scala. Se dovesse dare un consiglio alle giovani attrici, registe e autrici che si affacciano a questo mondo, quale sarebbe?

Per me è proprio forte questa relazione con il pubblico, con le persone, cioè io so che il mio lavoro lo ha costruito il pubblico, fin dai tempi di Teatro Settimo, quando io e i miei compagni di lavoro avevamo questa forte esigenza di raccontare o di rappresentare, di fare il teatro, ma ne avevamo un’idea ben precisa e l’abbiamo perseguita follemente, di essere dei creatori di spettacoli, ma anche dei creatori di pubblici. Mi sono abituata a pensare alla creazione artistica e al luogo in cui questa creazione poteva diventare incontro. Non essendo una figlia d’arte, ho questa gratitudine col pubblico che mi ha protetta da ragazza, che è venuto con noi e ci ha insegnato che in questo rapporto anche situazioni più svantaggiate in partenza possono creare le condizioni per cui una passione diventi lavoro, che è quello che i ragazzi che vogliono fare un mestiere d’arte sperano, in un universo così competitivo e di nicchia. Consiglio a questi ragazzi, innanzitutto, di farsi un piano B per mantenersi nei momenti bui, insegnando, danzando, lavorando in settori più possibili vicini a quello teatrale; poi, crearsi un pubblico; infine, andare tanto a teatro a vedere tutti, perché questo vuol dire capire bene quale teatro ti interessa fare e conoscere le persone.

È passato da poco il 25 novembre, la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Come pensa sia possibile sensibilizzare il pubblico sull’argomento attraverso questo tipo di narrazione?

Creando nei ragazzi rispetto per le donne, come rispettano la loro madre, rispettano le loro sorelle, le loro figlie, le loro compagnie di classe, le loro compagne di vita. Quindi, l’educazione. Ma anche l’attenzione alla comunicazione: non puoi pensare ad una società che rispetta le donne se comunica cose poco rispettose.

Poi, raccontare storie coraggiose affinché le donne prendano coraggio e si facciano le proprie ragioni, dove i loro colleghi uomini non ne hanno avuto bisogno. Un buon 80% dei ruoli del teatro mondiale è maschile, quindi, dovendo partire con meno ruoli, ho bisogno di buone storie e di grande solidarietà, tra donne per accorciare i tempi, e poi attraverso le persone di volontà buona, trovando dei complici. Io per fortuna l’ho trovato con mio marito, che è fantastico e ha sempre appoggiato la mia passione.

Negli anni Ottanta, la prima maratoneta donna si presentò a una maratona. Gli organizzatori la volevano buttare fuori, ma sono stati colleghi maschi che hanno fatto muro attorno a lei e l’hanno fatta arrivare al traguardo, perché condividevano la stessa passione. Anche Alfonsina è stata sostenuta, perché nello sport può succedere che la solidarietà arrivi attraverso la passione: Alfonsina, durante tutto il Giro d’Italia, è stata aiutata tantissimo, anche schernita, certo, ma moltissimi colleghi sono venuti in suo soccorso. Bisogna avere coraggio e stare con le persone che hanno la tua stessa passione, perché attraverso la passione arriva anche l’uguaglianza.

(E qui Laura si interrompe. Posso percepire che stia sorridendo dall’altro capo del telefono.)

C’erano due ragazzini, e quando ti ho raccontato la storia della prima maratoneta, a lui sono venute le lacrime agli occhi e lei mi ha fatto un sorrisone. Abbiamo bisogno di storie che ispirino, che creino solidarietà e coraggio.

Per concludere, avrei una domanda rivolta alla Laura attrice, ma anche autrice e spettatrice. Quali pensi possano essere gli spettacoli o lo spettacolo in particolare che visti, scritti o interpretati, hanno lasciato un segno su di lei?

Te ne faccio un mazzetto, così ripercorriamo anche la storia del teatro.La nostra rivoluzione americana dei Bread & Puppet: uno spettacolo enorme fatto in un palasport di un gruppo che era una comune, quindi aveva all’interno dai bambini agli adulti, decine di persone in scena. Io lavoro da sola ma ho un amore sconfinato per il teatro fatto insieme agli altri. Poi La tempesta di Strehler e Vita di Galileo per la forza attorale in scena. Poi due registi, uno è Augusto Boal e l’altro è Jerzy Grotowski, e due registe, Judith Malina e Ariane Mnouchkine.

Ringrazio Laura per la conversazione stimolante e la congedo. Sorrido, ispirata dalle sue parole, sentendomi, a mia volta, un po’ più coraggiosa.

Letizia Chiarlone

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