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Scrivere il teatro oggi. Riflessioni dal convegno internazionale Giornate d’Autore

Un attraversamento di alcuni degli incontri che si sono tenuti al Teatro Due di Parma per un convegno internazionale dedicato alla drammaturgia contemporanea. Hanno partecipato numerosi relatori e relatrici (qui la lista completa), in questo articolo cerchiamo di restituire le riflessioni protagoniste in alcuni dei talk a cui abbiamo avuto modo di assistere.   Un secondo articolo sulle giornate di Parma si focalizzerà invece sugli spettacoli presentati da Rafael Spregelburd.

Foto Andrea Morgillo

Qualche giorno fa abbiamo pubblicato un’intervista a Fabrizio Sinisi, drammaturgo tra i più attivi del nostro panorama, il quale, rispondendo a una sollecitazione di Simone Nebbia sul significato del mestiere, affermava: «Il teatro è rimasto, o dovrebbe rimanere un luogo dove ogni epoca elabora le sue parole, i suoi temi e il modo di trattarli. La drammaturgia è dunque proprio l’elaborazione dei processi del linguaggio nel contesto teatrale, la ricerca di parole adeguate a processare i problemi». E d’altronde la centralità della parola come strumento di indagine del presente è emersa senza dubbio nelle Giornate d’Autore di Gradus, il progetto di Reggio Parma Festival in cui in cinque giorni a fine novembre la scrittura teatrale è stata protagonista attraverso un focus sulle creazioni di Rafael Spregelburd (qui la recensione) e grazie a un serie di incontri tra protagoniste e protagonisti della scena teatrale internazionale. Tanti i momenti importanti negli incontri moderati da Florian Borchmeyer, come sono state numerose le prospettive esplorate da artiste e artisti, programmatori e programmatrici intervenuti, proveremo dunque a tornare su alcuni spunti emersi tra gli incontri a cui abbiamo potuto assistere.

Foto Andrea Morgillo

Innanzitutto va detto quanto siano importanti giornate di studio come queste e davvero si spera che altre istituzioni teatrali prendano spunto da quello che è successo al Teatro Due per rilanciare uno sguardo verso le pratiche europee e mondiali; troppo spesso ci chiudiamo nei nostri discorsi, nelle nostre battaglie, senza riuscire a mettere la testa fuori dalla penisola. La prima indicazione che emerge da queste giornate è la conferma plastica di qualcosa che purtroppo già sapevamo, ovvero la lateralità e la lentezza del nostro paese rispetto al dinamismo con il quale la nuova drammaturgia si è affermata in Europa negli ultimi decenni; Fefa Noia, direttrice aggiunta del Centro Dramatico Nacional di Madrid, ha evidenziato come il teatro commerciale si sia aperto anche alla nuove scritture. In Italia, d’altronde, non sono solo autori e autrici a lamentare la ridottissima presenza di nuovi testi nei programmi dei grandi teatri pubblici e la distanza con le altri capitali europee (bisogna ammettere che alcuni privati nelle grandi città hanno cominciato a investire nella nuova scrittura di qualità), la carenza è sotto gli occhi di tutti, operatori e pubblico appassionato. E però non è così semplice cercare la responsabilità di questa situazione solo nei direttori dei teatri, qualcosa va ricercato anche nel profilo storico e culturale della scena teatrale del nostro paese.

D’altronde, come rileva Claudio Longhi nel proprio intervento, l’innovazione teatrale in Italia nel secondo Novecento è stata segnata da una parte dall’interventismo a tutto campo della grande regia, in cui il piano d’azione si rivolgeva all’interpretazione anche radicale, fino alla riscrittura, dei classici, oppure all’utilizzo di fonti letterarie non drammaturgiche, si pensi alle possibilità aperte dall’adattamento dei romanzi. Dall’altra parte, più legati al territorio della ricerca situato fuori dalle istituzioni teatrali, sono stati gruppi e artisti singoli a segnare l’innovazione secondo processi collettivi, di scrittura scenica, oppure legati al teatro immagine, alla direzione collettiva, nei quali perciò il dato legato alla drammaturgia di parola spesso non era autorialmente primario. Questi due ambiti avrebbero dunque assorbito le energie (finanziarie, curatoriali, culturali) del teatro d’arte nel nostro paese lasciando poco spazio alla drammaturgia contemporanea. Claudio Longhi nel proprio intervento parla di rapporto episodico della regia con la nuova drammaturgia proprio in funzione dell’investimento drammaturgico dei grandi registi e sottolinea la mancanza di istituzioni dedicate alla scrittura teatrale (citando i felici e rari esempi del lavoro dedicato dalla Ubulibri, del laboratorio di Sesto Fiorentino o del Premio Riccione). È insomma, secondo il direttore del Piccolo, anche un problema di politiche culturali, perché le autrici e gli autori ci sarebbero eccome.

Foto Andrea Morgillo

La dialettica difficilissima con il ruolo del regista si prenderà più volte il proprio spazio negli incontri di Gradus, specialmente negli attacchi ironici, ma per questo non meno duri, di Ivan Vyrypaev. L’autore russo esule in Polonia, che ha ricevuto una condanna di sette anni in patria e che ora vede i suoi testi proibiti, spiega quanto la situazione in Russia sia tragica ma anche quanto sia difficile per lui lavorare in Polonia, paese in cui il sistema teatrale è soprattutto statalista. Vyrypaev mette al centro della questione, più volte, l’importanza del fattore commerciale – «non penso alla vendita dello spettacolo quando scrivo, ma è pur vero che vivo di questo». Per l’autore – che in Italia ha trovato in Teodoro Bonci del Bene un interprete appassionato oltre che un tramite delle sue opere – la relazione con la platea è primaria – «lo spettacolo è un’organizzazione di emozioni nel pubblico» -,  come è primaria una concezione legata all’artigianato: «io non scrivo pièce, io scrivo spettacoli». Vyrypaev se la prende con la figura del regista moderno che si permette di modificare i classici. Scherza dimostrando anche un evidente bisogno di spettacolarizzare la propria performance: «un regista può essere una brava persona, succede, a volte»; ma sul filo dell’ironia lascia intendere un modello teatrale basato sulla centralità dell’autore, che vede l’intervento registico come sperpero di denari, citando la recente visione del Don Giovanni di Romeo Castellucci e il suo costoso impianto scenico, confrontando questa ricchezza registica (in maniera pretestuosa e provocatoria) con la povertà degli artisti profughi e di chi ha patito la guerra, «una regia come come queste vale un anno di lavoro della mia fondazione (un ente fondato da Vyrypaev per aiutare gli artisti profughi, ndr)». Il regista secondo l’autore russo deve mettersi nei panni dello spettatore, perché «lo spettacolo è l’organizzazione dell’attenzione del pubblico» e la drammaturgia è la formula attraverso la quale gli attori terranno alta l’attenzione del pubblico.

Senza il colore di Vyrypaev, su posizioni simili è stato anche l’intervento del tedesco Marius von Mayenburg, per anni braccio destro di Thomas Ostermeier alla Schaubuhne (al Bellini di Napoli tra qualche giorno andrà in scena il loro storico Hamlet) e che ora ammette il dilagare del potere dei registi. Anche Mayenburg mette al centro l’esperienza spettatoriale e stigmatizza l’esperienza del teatro post drammatico come qualcosa di negativo: «il rischio talvolta è di sentirsi stupidi».

Sembra dunque essere insanabile, anche in un contesto così avanzato e internazionale, la solita frattura tra chi intende il teatro come il momento in cui il testo e le sue idee incontrano il pubblico tramite il lavoro degli attori, e chi vede nel fare teatro anche un’espressione pur radicale dei linguaggi artistici.

Mayenburg
Foto Andrea Morgillo

Nei panel dedicati ai curatori e alle curatrici (sempre ridotta la presenza femminile purtroppo anche in questi contesti) spicca la vivacità della situazione austriaca, raccontata da Mari Blus, direttrice artistica del Schauspielhaus Wien insieme a Martina Grohmann, Mazlum Nergiz e Tobias Herzberg. Qui Blus spiega quanto in Austria negli ultimi anni la nuova drammaturgia si sia affermata anche nei grandi teatri. L’istituzione teatrale austriaca è votata stoicamente al contemporaneo e l’idea di puntare su un gruppo di curatori e curatrici più che sul solito uomo solo al comando racconta molto di questa identità teatrale in movimento.

Foto Andrea Morgillo

Un’altra esperienza peculiare è quella relativa alla riscoperta della nuova drammaturgia in Catalogna legata alla necessità di salvare la lingua catalana, movimento che ha prodotto almeno 15 o 20 drammaturghi importanti nei recenti decenni. Lo ha spiegato Toni Casares, direttore di Sala Beckett (il celebre spazio di Barcellona dedicato alla drammaturgia contemporanea) rilevando come dopo i quarant’anni di dittatura franchista ci fu, negli anni ‘80, un’esplosione della teatralità, dell’occupazione degli spazi pubblici ma la scrittura all’inizio era marginale rispetto a questo fenomeno. Sala Beckett nacque proprio dalla spinta di una compagnia (diretta dall’autore, pedagogo e teorico José Sanchis Sinisterra) che rivendicava il ruolo della drammaturgia. Casares ammette che oggi sarebbe impossibile – a causa della situazione immobiliare di Barcellona – per una giovane compagnia aprire uno spazio nel centro della città.

Foto Andrea Morgillo

La situazione catalana è interessante perché nasce da un’urgenza storica. Come d’altronde è legato alla tradizione cittadina il teatro in Argentina e specialmente a Buenos Aires e che ora deve vedersela con il paese reale di Javier Milei. Il giorno dopo la presentazione dei suoi spettacoli (Diciassette cavallini, Inferno, Pundonor) Rafael Spregelburd in una lectio ha affermato: «nel teatro la scrittura riproduce l’oralità, ciò che è passeggero, l’irripetibile, l’oggi, ciò che dicono i suoi esseri ma non esattamente ciò che sono, ciò che è destinato a perdersi nell’aria condizionata della sala». L’inferno del linguaggio, quello dello spirito e quello della quotidianità, la crisi della rappresentazione, il tempo e la sua circolarità («oggi stiamo vivendo politicamente un plagio di qualcosa che abbiamo già vissuto negli anni ‘90 e che ci ha portato alla crisi economica»), sono alcuni dei temi della scrittura dell’autore argentino che oggi devono confrontarsi con l’attuale situazione politica scaturita dall’affermarsi di Javier Milei. Qualcuno dal pubblico chiede al drammaturgo di approfondire la connessione tra l’ironia dello spettacolo Inferno e il tema dolorosissimo dei desaparecidos. «In Argentina non si può parlare di questi temi tramite una commedia. Io l’ho sempre sofferto.» Spregelburd racconta quanto l’unico teatro possibile per raccontare un tema del genere fosse quello della solennità, cosa che lentamente ha fatto sparire il tema stesso dai racconti teatrali. Da qui la scelta di rivitalizzarlo in un linguaggio teatrale, affinché non diventi – come vorrebbe scrivere «la destra più svergognata» – un’illusione. Non ha sentenze o soluzioni Spregelburd, come quando racconta del tentativo di portare proprio Inferno nella programmazione di un grande teatro commerciale di Buenos Aires: un fallimento, la sua compagnia si ritrovò con lo stesso numero di spettatori a cui era abituata nei teatri indipendenti. È in questa vivacissima e folta rete che Spregelburd racconta di essersi affermato, sono 400 le cosiddette sale indipendenti a Buenos Aires, qui si lavora con scenografie e impianti poverissimi, ricorda l’autore, ma con un pubblico numerosissimo sempre pronto a premiare gli sforzi delle compagnie. Dalla platea gli chiedono quale sia la funzione del drammaturgo in Argentina in un momento storico come questo: Spregelburd racconta della censura subita da alcune scrittrici e alcuni scrittori, della paura che comincia a penetrare in patria, si commuove e non ha risposte, se non evidenziare la posizione degli artisti, delle letture pubbliche di quei libri messi all’indice, «il teatro e la scrittura quando devono denunciare qualcosa di ovvio è un problema. Quando l’arte assume questa funziona qualcosa nella nostra società non sta funzionando».

Foto Andrea Morgillo

Al di là del ruolo politico e sociale del drammaturgo, cosa cercano autrici e autori sulla scena oggi? Fausto Paravidino, durante il focus a lui dedicato, rispondendo alle domande di Florian Borchmeyer, definisce la propria scrittura come una ricerca della verità in scena. «Io cerco di parlare di quello che siamo: gli autori viventi hanno solo un vantaggio rispetto ai classici, quello di essere presenti al proprio tempo. Shakespeare è più bravo, io ho un vantaggio però, sono presente al mio tempo e dunque lo posso guardare, Shakespeare non può. Quindi uno dei miei compiti e delle mie responsabilità sta nel restituire al mio tempo un’interpretazione nella maniera più onesta possibile. Devo portare qui (indicando il palco ndr.) la realtà che c’è fuori, allo stesso tempo però ho il compito di far accadere qui una realtà, che non sia quindi una rappresentazione della realtà fuori, ma che sia una verità di tipo teatrale.»

Spesso durante le giornate parmensi sono emerse riflessioni circa il ruolo dello spettatore, Paravidino ha citato un’immagine proveniente dall’incontro con Mayenburg, ovvero l’idea, durante la pandemia, di scrivere dei drammi da camera da poter mettere in scena attorno a un tavolo, nelle case degli spettatori: «ogni tanto il patto di negoziazione con lo spettatore va ripensato» afferma Paravidino. È d’altronde una necessità di molti artisti oggi quella di attivare un solido legame con il pubblico, allo stesso tempo però la sfida deve essere anche quella di saldare tale attitudine con il lavoro creativo del regista o comunque accettare la possibilità che il teatro sia anche il luogo dello stupore, dello straniamento, dell’incomprensibile. E forse serve a poco prendersela con chi interpreta il ruolo del regista cercando di utilizzare il maggior numero di possibilità linguistiche e scenografiche. Mi sembra che sempre di più ci sia bisogno di un dialogo funzionale tra la regia e la drammaturgia, si vedano infatti le felici collaborazioni degli ultimi anni di importanti registi con una serie di autori e autrici: Antonio Latella – e di recente anche Fabiana Iacozzilli – con Linda Dalisi, Andrea De Rosa e Fabrizio Arcuri con Fabrizio Sinisi, Carmelo Rifici con Angela De Mattè, per citarne solo alcuni, di certo i teatri e le produzioni devono poter rischiare e sancire queste relazioni anche attraverso testi originali e non solo attraverso la manipolazione originale di classici. Parafrasando un altro concetto espresso da Claudio Longhi in uno dei suoi interventi, è nel dialogo che va ricercato l’antidoto al privatismo, e alla sola ricerca identitaria.

Andrea Pocosgnich

Leggi anche: Rafael Spregelburd. Disintegrare il teatro. Di Lucia Medri

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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