Recensione. Al Piccolo Teatro Strehler di Milano è andato in scena settimana scorsa Tragùdia. Il canto di Edipo nella regia di Alessandro Serra. Un mito ancestrale, rivisitato tra luci e tenebre di quella che è una langue antica quasi del tutto perduta.
“Macerie.
In un’epoca di macerie non c’è altra possibilità che lavorare su ciò che resta, soffiare sulle ceneri per riattivare il fuoco. Ciò che resta della tragedia: parole senza suono. Ciò che resta della polis: una società di estranei. Ciò che resta del rito: una drammaturgia spenta. Ciò che resta di un mito: una storiella venuta a noia. Ciò che resta di un eroe: un personaggio fuori fuoco”. Così, nella visione dell’autore e regista Alessandro Serra, “Tragùdia. Il canto di Edipo si edifica sulle macerie”, polvere finissima, su cui Serra sembra sprofondare per poi sostare su quel fondo, forse senza mai riuscire a riemergere del tutto, come un osservatore che guarda le cose dal basso, lavorando per ricerca ed estrazione su tutto quel che non c’è e non potrà esserci più, su tutto quello che dovrebbe essere ancora, almeno una volta, possibile. Riportare in vita Edipo, la liturgia del rito attraverso la propulsione secolare del mito, rievocare una lingua antica nel suo farsi ancora oggi presente.
Il lavoro complesso condotto sul linguaggio parte proprio da qui e si inserisce in quel tentativo del regista di ripristinare la dimensione sonora della tragedia attingendo alla specificità di una lingua, il grecanico, ad oggi parlato ancora da una popolazione esigua della Calabria. In particolare, dalle ricerche condotte dalla professoressa Marianna Katsoyannou, docente di linguistica generale presso la Facoltà di Studi Bizantini e Neogreci dell’Università di Cipro, emerge come gli ellenofoni calabresi sarebbero oggi oramai meno di 500, la maggior parte distribuita tra i paesi di Gallicianò, Bova e Roghudi. Una sopravvivenza linguistica tramandata e operata anche da una parte rilevante di persone appartenenti alle nuove generazioni, nate a Reggio Calabria e di età inferiore ai trent’anni, secondo quanto riportato da uno studio estratto dal manuale Archivio Storico della Calabria e della Lucania del 1992. Il fenomeno viene spiegato dalle funzioni che il greco ha assunto ormai da diversi anni nella regione non solo come simbolo di identità linguistica e culturale delle persone appartenenti a piccole comunità, ma soprattutto perché viene adoperato come codice segreto tra gli abitanti del luogo. Un fatto davvero interessante che ci fa ragionare sul valore sociale e culturale di questa antica langue.
Quello che ci si aspetterebbe, dunque, dalla nuova opera di Serra è proprio il recupero di questa dimensione antropologica della langue, assaporata per esempio nel lavoro che gli valse il premio Ubu come Spettacolo dell’anno nel 2017, Macbettu. Eppure, nonostante la grandiosa liricità dei canti che connotano la resa drammaturgica dell’Edipo, curati da Bruno de Franceschi, – sono canti limpidi e ascensionali che raggiungono dall’alto l’udito e scivolano poi bassi nel ventre, riempiendolo – il testo, rielaborato a partire dagli scritti di Sofocle Edipo Re ed Edipo a Colono con la traduzione del professore Salvino Nucera, manca di quella coloritura umana caratterizzante che avrebbe dovuto fornire la lingua di una specifica area culturale; nella resa finale, l’utilizzo del grecanico appare quasi più un aulico lezio teatrale e fa fatica ad arrivare con immediatezza al pubblico: esso rimane nelle melodie del coro, lontana risonanza liturgica imbevuta nel distillato d’incenso che permea l’atmosfera tra palco e platea. Impossibilitata a imprimersi nella mente del fruitore senza il sostrato visivo, la partitura scritta appare quasi superflua rispetto al ruolo preponderante assunto dalla narrazione per immagini, precisissima e di un indiscutibile afflato immaginifico, che ci riporta da Caravaggio a Rembrandt all’uso tutto emotivo e psicologico di luci e tenebre (nella collaborazione alle luci con Stefano Bardelli). Le scene, costruite per quadri ricchi di chiaroscuri e fagocitate poi da un buio senza tempo – quello della cecità del protagonista che investe la scena in maniera ineluttabile – si compongono di alti pannelli che cambiano sfumatura al passo con il mito: prima, scuri e vertiginosi, chiudono Edipo in una morsa che lo porta a riscoprire la verità su se stesso, a perdere tutto dopo averlo ottenuto, poi si fanno sabbiosi e desertici accogliendolo da straniero in una nuova città, Tebe.
Nella messinscena il coro si fa portavoce preponderante delle sue peripezie, un coro che non soltanto agisce reiterando formule di ieraticità greche ma che ingloba e sputa dal proprio ventre i personaggi, attraverso un particolare atto genitore e di cura che affonda le proprie radici nei miti delle origini, evocando il rapporto sempre complesso tra madri, padri, figli, fratelli e la loro relazione con il potere. Un’azione, questa, che ci porta a scivolare sempre più a fondo nelle radici espressive della storia, nel passato spesso lacunoso che ci ha lasciato la tradizione orale. Un passato sopravvissuto all’oblivium proprio nella reiterazione di questi simboli e gesti condivisi collettivamente, come formule di pathos warburghiane (nella storia della rappresentazione non solo occidentale, Aby Warburg rinvenne a inizio Novecento proprio degli schémata “ritornanti” nell’immagine della ninfa, figura che trasmigrava quasi invariata nel tempo e nelle geografie spaziali).
Nella densissima contrapposizione tra luce e tenebra, sospesa tra disvelamento e oscuramento, la tragedia giunge al suo compimento; Alessandro Serra la risolleva dall’abisso attraverso l’eloquenza delle sue immagini, inquadrature metamorfiche che colpiscono per caratura e che si insinuano nella mente dello spettatore come unico, vero, racconto possibile.
Andrea Gardenghi
Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano
Tragùdia
Il canto di Edipo
liberamente ispirato alle opere di Sofocle e ai racconti del mito
regia, scene, luci, suoni, costumi Alessandro Serra
traduzione in lingua grecanica Salvino Nucera
con Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino
voci e canti Bruno de Franceschi
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
collaborazione al suono Gup Alcaro
collaborazione alle luci Stefano Bardelli
collaborazione ai costumi Serena Trevisi Marceddu
direzione tecnica Giorgia Mascia
tecnico del suono Alessandro Orrù
direzione di scena Luca Berettoni
costruzione scena Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu, Loic Francois Hamelin
produzione Sardegna Teatro, Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due
in collaborazione con Compagnia Teatropersona, I Teatri di Reggio Emilia
distribuzione Sardegna Teatro – Danilo Soddu