Recensione. Abbiamo visto le due importati produzioni legate a Il giro di vite di Henry James, lo spettacolo teatrale e quello lirico, prodotti dal Teatro Nazionale di Genova e dal Teatro dell’Opera Carlo Felice, entrambi con la regia di Davide Livermore
Ritratti ammiccanti alle pareti osservano come fantasmi il pubblico che, con uno scroscio di applausi, accoglie il dittico prosa e opera firmato dalla regia di Davide Livermore e basato sul racconto gotico del 1889 di Henry James, Il giro di vite. Così, sabato 12 ottobre, per la prima volta, vengono inaugurate contemporaneamente le stagioni genovesi del Teatro Nazionale e dell’Opera Carlo Felice, nel contesto di un’operazione ambiziosa che fonde due ambiti strettamente intrecciati, eppur separati da una distanza legislativa all’apparenza incolmabile. Ed è proprio operando sui termini di questa distinzione che Livermore cerca di mettere in dialogo le due istituzioni, in nome di «un’idea di fare cultura […] che tiene presente la possibilità di collaborare […], di unire le eccellenze culturali e artistiche di un territorio». Una collaborazione che investe anche l’area gestionale e non solo la condivisione della volontà artistica, tentando di istituire un modello di ripartizione delle risorse in grado di fornire un caso esemplare che possa condizionare l’elaborazione delle future politiche culturali, liguri e non solo.
Nonostante una prima assoluta con qualche intoppo, alla replica del 16 ottobre il meccanismo appare ormai ben oliato. Frutto della penna precisa di Carlo Sciaccaluga, l’adattamento teatrale de Il giro di vite mantiene una connessione profonda con il racconto originale e con il libretto di Myfanwy Piper. Essenziale nella consequenzialità della linea narrativa, la sua componente fantasmatica e perturbante emerge dai non detti e dalle allusioni, impressioni intensificate dalla musica ambientale che permane in sottofondo e che accoglie il pubblico a partire dal suo ingresso in sala. Si impedisce così allo spettatore di sprofondare nella comodità della poltroncina di velluto, angosciato dai suoni che lo circondano e che ne alimentano il crescente disagio. La componente musicale conserva la sua centralità per tutto il dittico, cifra stilistica del teatro di Livermore, facendosi vitale soprattutto nella seconda sezione con l’organico diretto dal maestro Riccardo Minasi.
La scenografia, curata da Manuel Zuriaga, appare scarna, limitandosi a una semplice sediola imbottita e a un televisore privo di segnale che si stagliano contro una spessa parete rivestita da una carta da parati damascata. La reale imponenza della scatola scenica è determinata dalle mastodontiche pareti semoventi che generano architetture labirintiche e claustrofobiche dal sapore escheriano, al limite del surreale e delle leggi della fisica, filo conduttore che percorre e unifica le due sezioni. La scelta di ambientare il dittico negli anni Cinquanta del Novecento, in termini di costumi e oggetti di scena, costituisce un ulteriore collegamento con l’opera primigenia di Benjamin Britten, composta nel 1954 su commissione del Teatro La Fenice di Venezia.
La vicenda parrebbe tratteggiare un’innocente storia di fantasmi con protagonista una giovane istitutrice (Linda Gennari), la quale acconsente di prendersi cura di due bambini, Miles (Luigi Bignone) e Flora (Ludovica Iannetti). Nonostante le apparenze angeliche e i modi cortesi, la loro esistenza è turbata dall’ammorbante presenza dei fantasmi del defunto cameriere, Peter Quint (Aleph Viola), e della precedente istitutrice, Miss Jessel (Virginia Campolucci), morta in circostanze poco chiare. In apparenza, nulla di più.
Ma in filigrana emerge la vera natura inquietante del romanzo, che racconta l’abuso perpetrato a danni di minori da parte dei precettori. Pur scontrandosi con la reticenza di chi la circonda, la nuova istitutrice apprende del rapporto morboso di probabile natura omoerotica intrattenuto da Quint con Miles, che si rifletteva duplice nelle dinamiche tra Miss Jessel e Flora. La fervida immaginazione della donna colma i vuoti di parola creando labili collegamenti tra fatti e azioni, nel tentativo di dare un nome a ciò che sfugge a ogni denominazione: il sesso e il suo potenziale corruttivo per l’infanzia, considerata ancora come un territorio vergine. Il dubbio comincia a insinuarsi nella mente dell’istitutrice che, con i pochi dettagli a sua disposizione, tra cui la lettera di espulsione di Miles dal collegio, tratteggia un quadro dalle tinte fosche, di bambini violati che reiterano gli stessi comportamenti abusanti sui propri coetanei, lasciando lo spettatore con un dubbio: che la perversione e la presunta violenza si celino in realtà negli occhi di chi guarda? L’unico punto di vista che ci è concesso di esplorare è quello inaffidabile dell’istitutrice, che assume su di sé la funzione morale e di commento di un coro assente, tramite a parte tormentati.
Dietro un’apparenza mite e immacolata, i bambini nascondono un segreto che apre una voragine sempre più profonda che li separa dall’istitutrice, la quale, impotente e isolata, assiste alla loro perdizione. La ferita traumatica assume dimensioni tali da spingere a un meccanismo di assuefazione e fascinazione nei confronti di quel “male”, del gioco osceno condotto dai precettori che, come il Re degli Elfi di Goethe e Schubert, li reclamano nel cuore della notte. Si articolano così scene notturne, segnalate dalla presenza di un letto sospeso sopra le teste degli attori da fili invisibili, in cui i bambini vengono colti a vagare nei corridoi della dimora. È in una di queste che Miles, sorpreso dalla sua istitutrice, pronuncia queste parole con un candore spiazzante: «Se voglio, posso essere cattivo. E sono cattivo, sono cattivo, vero?». L’ossessione di Miles per la sua presunta malvagità si presenta anche nell’opera di Britten: e di nuovo «malo, preferirei essere», canticchierà la voce bianca durante la lezione di latino, in un gioco di riprese e spettri che si rincorrono e sussurrano alle orecchie del bambino, che sì, i suoi pensieri e desideri deviano dalla norma, ma forse proprio per questo gli garantiscono una libertà che solo il nido sicuro del segreto può preservare.
L’istitutrice arriva così a convincere la governante, Mrs Grose (Gaia Aprea), a condurre lontano dalla magione di campagna la piccola Flora, per poter rimanere da sola con Miles. Il bambino si abbandona tra le braccia della donna, cercando di trovare conforto, e tenta di rivelare la natura profonda e pulsante del suo trauma, ma un urlo disumano lascia le sue labbra, interrompendo il momento confessorio. Le ultime parole sfuggono dalla bocca del giovane, rivolte alla presenza ai piedi del letto, che si allontana, «Peter Quint…tu, demonio!», per poi accasciarsi su sé stesso, morto. Il Re degli Elfi reclama a sé, con violenza, il suo possesso, e il padre affannato arriva in paese solo per rendersi conto che il figlio febbricitante che stringeva a sé è spirato durante il tragitto.
Muore, insieme a Miles, non solo il suo trauma, sepolto in qualche anfratto della sua mente, ma soprattutto quella parte della sua identità infantile caratterizzata dalla fluidità delle pulsioni sessuali e dalla curiosità verso di esse, soppiantata dal modello socialmente accettato di virilità eteronormata incarnato dal rigido controllo esercitato dall’istitutrice e che sancirebbe l’ingresso nell’età adulta. Modello che è anche rifugio dall’iniziazione traumatica alla sessualità, portando così a soffocare le proprie presunte tendenze omosessuali pur di non far riaprire la cicatrice e riportare alla luce quanto è stato rimosso.
La storia si ripete tale e quale nella seconda parte, secondo quel principio di reiterazione e duplicazione tanto caro a James quanto a Britten, che dallo stesso tema del prologo trae, variate, le melodie delle scene che si susseguono. Agli attori della prima sezione si sostituisce il cast di cantanti che fa loro da doppio; unica costante e anello di congiunzione tra i due gruppi resta la voce di Davide Livermore fuoricampo, a cui è affidato il prologo iniziale.
The Turn of the Screw è un’opera da camera divisa in due atti, ciascuno composto di otto scene, e si articola in quadri conclusi in sé, con un titolo ben preciso che ne riassume il contenuto. Le varie cornici, sciorinate consecutivamente come litanie di preghiere alle veglie dei defunti, si presentano ben distinte l’una dall’altra tramite uno stacco puntuale al termine di ogni movimento. Nel buio più totale, vengono proiettate sopra il tessuto spesso del sipario calato delle didascalie dal taglio cinematografico che introducono il quadro successivo.
Le differenze sono minime e irrilevanti, rispetto a una sostanza che si presenta articolata secondo la stessa narrazione asciutta e lineare: per esempio, vediamo Miles (Oliver Barlow) già presente in scena ad accogliere l’istitutrice (Karen Gardeazabal) al suo arrivo, insieme a Flora (Lucy Barlow), fin dall’inizio, mentre nel racconto e nell’adattamento in prosa entra in scena successivamente, dopo essere rientrato dal collegio per le vacanze estive. Il tessuto musicale della seconda sezione del dittico colpisce per le sue sonorità artificiosamente vivaci e accoglienti, in netto contrasto non solo con la vicenda ma anche con i toni cupi della prima parte, contribuendo con la sua dissonanza a tratteggiare un disegno sinistro, di serpi annidate in stanze familiari.
Con gli stessi meccanismi adottati nella prima sezione, i fantasmi di Peter Quint (Valentino Buzza) e Miss Jessel (Marianna Mappa) appaiono, inizialmente nascosti all’interno delle pareti, figure evanescenti e ovattate, poi sempre più concreti e presenti nel condividere la scena con i bambini e suggerire loro racconti e filastrocche, invisibili agli occhi estranei della governante Mrs Grose (Polly Leech) e dell’istitutrice, la quale, pur riuscendo a vedere la coppia infernale, non riesce mai a coglierla nel momento in cui interagisce con Miles e Flora.
Tutto torna, per due volte, come due sono i bambini, due le relazioni abusive intrecciate, due le espiazioni del peccato con la morte, in un doppio “giro di vite” che stringe intorno ai polsi le manette di una razionalità ricercata nelle profondità di abissi che ne paiono privi.
Letizia Chiarlone
Ottobre 24, Genova, Teatro Ivo Chiesa
IL GIRO DI VITE
Il giro di vite di Henry James
traduzione e adattamento Carlo Sciaccaluga
regia Davide Livermore
personaggi e interpreti
Istitutrice Linda Gennari
Mrs Grose Gaia Aprea
Peter Quint Aleph Viola
Miss Jessel Virginia Campolucci
Miles Luigi Bignone
Flora Ludovica Iannetti
Il Prologo Davide Livermore
scene Manuel Zuriaga
costumi Mariana Fracasso
musiche Giua
disegno sonoro Edoardo Ambrosio
luci Antonio Castro
regista assistente Mercedes Martini
assistente alla regia Milo Prunotto
assistente volontaria alla regia Irena Carera
direttore di scena Fabrizio Montalto
fonico Edoardo Ambrosio
nuova produzione del Teatro Nazionale di Genova in collaborazione con la Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova
THE TURN OF THE SCREW
musica di Benjamin Britten
libretto di Myfanwy Piper dal racconto di Henry James
maestro concertatore e direttore Riccardo Minasi
regia Davide Livermore
personaggi e interpreti
Quint Valentino Buzza
The Governess Karen Gardeazabal
Miles Oliver Barlow
Flora Lucy Barlow
Mrs Grose Polly Leech
Miss Jessel Marianna Mappa
The Prologue Davide Livermore
scene Manuel Zuriaga
costumi Mariana Fracasso
luci Antonio Castro, Nadia García
regista assistente Giancarlo Judica Cordiglia
nuovo allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova in collaborazione con il Teatro Nazionale di Genova, basato sulla produzione originale del Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia
Orchestra e tecnici dell’Opera Carlo Felice Genova