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Il bambino e il mostro in riva al mare: Mare di ruggine, la favola dell’Ilva

Recensione. Al Piccolo Bellini di Napoli è andato in scena Mare di ruggine. La favola dell’Ilva di Antimo Casertano. L’autore di Bagnoli racconta la storia della sua famiglia, che è storia di molti, che è Storia.

Foto Nina Borrelli

“Carissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono fra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio. Antonio”. Il nostro è un paese che dimentica, quando non si concede il lusso di ignorare. La Storia, studiata male, è proprio ciò che descriveva Gramsci al primogenito: è un movimento di uomini, una gigantesca corrente, mai lineare, fatta di conflitti e crisi, fatta di profonde trasformazioni. Non è pensabile, nel nostro contemporaneo, immaginarsi e raccontarsi al di fuori di quella corrente. La narrazione della Storia richiede degli sforzi immaginativi di non poco conto: quanto si conosce di quell’evento e che parte restituirne, è più giusto un approccio documentaristico, la poesia potenzia il reale o lo maschera irrimediabilmente? Raccontare, inoltre, il conflitto vuol dire tenere in debita considerazione i presupposti, le parti, l’abuso del potere, vuol dire guardare con onestà chi subisce l’abuso.

Foto Nina Borrelli

Quando Antimo Casertano ha preso la decisione col suo Mare di Ruggine. La favola dell’Ilva di raccontare l’Ilva, poi Italsider, di Bagnoli, ha dovuto confrontarsi con i registri della Storia attraverso lo strumento poetico letterario, che lo ha poi condotto, come era naturale che fosse, all’atto politico. L’attendibilità di ciò che viene raccontato non è data dalla componente personale, visto che Casertano narra la storia della sua famiglia: l’attendibilità è data dalla scelta di una semplicità di forma, dove il personale trova spazio col suo potenziale immaginativo. Chi si prepara a guardare lo spettacolo deve fare prima di tutto i conti col grosso altoforno che si erge al centro del palco; Flaviano Barbarisi fa un lavoro eccelso di ricerca, con l’obiettivo di ricostruire in modo attendibile delle forme che siano sempre riconducibili alla realtà: la struttura incrostata è compatta, massiccia. È effettivamente reale e molto più che reale perché sembra vivere da solo, e sarà così: è il mostro fermo in riva al mare della favola che Antimo racconta al figlio per farlo addormentare. La storia comincia molti anni addietro, agli inizi del secolo scorso, insieme a Nunzio Brandi (Luigi Credendino). Nunzio è un lavoratore, ha le mani indurite dai calli e questo è un valore; lavorare è un valore, e al colloquio per essere assunto in acciaieria fa un’ottima impressione: gli viene chiesto se crede in qualcosa, se segue uno schieramento politico, ma Nunzio crede solo di dover lavorare e che il resto non sia affare suo. Il lavoro è il contesto naturale di Nunzio, e così entra subito a far parte con profitto nel corpo degli operai dell’Ilva. Più che uomini, sono figure diaboliche, prepotentemente maschili, spiriti maligni pronti ad alimentare la famelica bestia che pare non dormire mai: il buio è stracciato da luci gialle e rosse, i fumi che esalano dal forno rendono l’aria pesante, gli uomini urlano, i rumori dei metalli scandiscono gli estenuanti tempi di lavoro.

Foto Nina Borrelli

Ciò a cui può ambire Nunzio per rendere vivibile la sua esistenza è trovare una compagna; incontra Claudia (Francesca De Nicolais), sarta di Taranto, una donna premurosa. Claudia e Nunzio sono l’origine della famiglia che percorre unita la Storia e in essa si dissemina, mutando di generazione in generazione. Dall’unione dei capostipiti nasce Teresa (Daniela Ioia), che sposerà Antimo Di Mauro (Ciro Esposito); da loro, Maddalena (Lucienne Perreca) che avrà per marito Rosario Casertano (Gianluca Vesce). Ognuno di loro è un pezzo dell’acciaieria, che li marchia profondamente nel corpo e nel pensiero; in qualche modo l’acciaieria li ha messi al mondo e ne portano il segno nel rosso vivo delle polveri che dai piedi sale sui lembi degli abiti, radicandoli a una terra e a un destino. Il lavoro, come principio essenziale della vita, si insinua nei rami genealogici e ne devia i percorsi: non ci si sposa senza avere un lavoro, l’unico lavoro sicuro è quello in fabbrica per cui è necessario abbandonare altri mestieri, se il lavoro è l’unica sicurezza della vita, non è necessario studiare, il lavoratore è solo nel proprio percorso perché ciò che ha è il suo lavoro. Ogni passaggio generazionale sottostà alle evoluzioni di produzione, che vengono precisamente spiegate; a ogni progresso tecnologico corrisponde il progredire degli eventi, con date, nomi, fatti, leggi: gli anni del fascismo, il Dopoguerra e il Boom, gli anni ’80 e ‘90. Casertano sceglie un doppio registro: in ciò che è personale ha la libertà di adoperare il tono della favola, mentre ciò che “riguarda gli uomini viventi” non può estraniarsi dalla semplicità inflessibile del linguaggio storico. L’autore entra in scena come narratore sui generis poiché, in quanto padre che anima l’immaginazione del figlio a cui racconta la storia, è anche spettatore, attore, e preveggente; muove gli altri corpi, veri nella Storia, attribuendogli i simboli della favola. Questo aspetto coinvolge maggiormente le figure femminili poiché loro vivono in funzione dell’acciaieria, ma non vi entrano: Claudia e Teresa, bisnonna e nonna di Antimo, sono come fate che raccontano la verità ai loro uomini, ognuna col proprio carattere e con la propria verità, che è un prodotto storico. Sarà Teresa a spingere il marito affinché convinca gli operai a unirsi e lottare, perché ha visto e vissuto su di sé la storia del padre Nunzio e perché lavorerà all’impianto Eternit.

Foto Nina Borrelli

Il forno, il mostro, però è lì, sempre reale, e quindi per gli uomini è più difficile essere coinvolti nella favola: loro sono in fabbrica, e la paura, la fatica, l’abbandono da parte delle istituzioni, la rabbia, il dolore, sono fuori dalla metafora. I corpi, ancora, sono fondamentali: i sette splendidi, sinceri, emotivi interpreti riescono perfettamente ad accogliere su di loro il personale (e quindi da favola) attraversamento della storia, che si imprime nel modo di essere e nel loro aspetto. Anche lì c’è un lavoro di ricerca meticoloso: l’utilizzo di intercalari che si tramandano, i diversi registri adottati dagli uomini in ogni passaggio d’epoca, legati ai mestieri pregressi o al grado d’istruzione, gli accessori indossati dalle fate, come veli bianchi e guanti rossi che ne richiamano anche la prossimità effettiva ed etica al lavoro di fabbrica, l’abbigliamento da lavoro che è un progresso della lotta, ma anche la condizione dei lavoratori spesso isolati tra loro. È la distanza temporale rispetto alla vita dei parenti a produrre la favola, e infatti quanto più ci si avvicina al contemporaneo, tanto più questa diluisce: le fate diventano sempre più terrene, il lavoratore da che si appellava teneramente “cavaliere”, diventa “spazzacamino”. L’occasione persa di Rosario di terminare gli studi per poter sposare Maddalena, le mancanze che hanno generato altre mancanze, la consapevolezza storica delle mancanze, la lotta per riempire le mancanze generano un processo di trasformazione sociale e culturale che è proprio della classe operaia. Tutti coloro che erano sul palco a raccontare quella storia hanno potuto in virtù di quel clamoroso processo trasformativo, rivitalizzando un fondamentale atto politico: raccontare e insegnare la Storia. Esattamente così com’è.

Valentina V. Mancini

Piccolo Bellini, Napoli- Ottobre 2024

MARE DI RUGGINE. LA FAVOLA DELL’ILVA

testo e regia Antimo Casertano
con Daniela Ioia, Ciro Esposito, Francesca De Nicolais, Luigi Credendino, Gianluca Vesce, Lucienne Perreca, Antimo Casertano
musiche originali Paky Di Maio
costumi Pina Sorrentino
scene Flaviano Barbarisi
laboratorio scene Giovanni Sanniola
direttore di scena Antonio Chirivino
disegno luci Paco Summonte
movimento scenico Carlotta Bruni
assistente alla regia Alfonso D’Auria
un progetto Compagnia Teatro Insania
produzione Ente Teatro Cronaca, Solares Fondazione delle Arti
Testo vincitore del Premio Nuove Sensbilità 2.0 2022, Premio Fersen, Premio Antonio Conti di Pesaro, Premio Speciale Felicetta Confessore – ritratti di territorio Progetto finalista al Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche Dante Cappellettii

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