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Gombola, cronache dal silenzio

Abbiamo fatto ritorno nel piccolo borgo di Gombola per Trasparenze, il Festival di Teatro dei Venti tra cittadinanza attiva e natura. Abbiamo visto un’installazione di Elio Germano basata su un romanzo di Folco Terzani, partecipato a percorsi sensoriali e lezioni di yoga. Nel racconto anche gi spettacoli di Claudia Caldarano e Adriano Bolognino.

Tutto passa tutto resta. Foto Chiara Ferrin

Il Festival è, per eccellenza, il momento in cui una comunità teatrale attraversa periodicamente un luogo destinato ad altro scopo; la cittadinanza diventa pubblico, ma non solo, partecipa attivamente al festival accogliendo nel proprio territorio lo straniero, lo spettatore che viene da fuori. Trasparenze Festival, giunto alla sua dodicesima edizione, abita da qualche anno il borgo di Gombola, un paese dell’Appennino modenese dove il tempo sembra scorrere più lentamente. Il passaggio di Trasparenze a Gombola si basa su questo presupposto: senza gli abitanti autoctoni il festival non potrebbe esistere, sono loro, infatti, che tengono in mano le chiavi del borgo – sostanzialmente una strada in salita tra due chiese – e che accolgono gli avventori al primo giorno di festival con la performance Come comincia il mondo (lavoro del Teatro dei Venti con gli abitanti del territorio). Perchè il Teatro dei Venti abbia scelto questo luogo è evidente: il borgo è sospeso nel tempo e isolato, e si rianima grazie a questo progetto chiamato Abitare Utopie di cui fa parte anche Trasparenze appunto insieme ad altri percorsi della compagnia. E di utopia racconta l’intero programma di questa edizione che pare avere diversi fil rouge calcolati, quanti richiami inconsapevoli tra gli spettacoli e la vita del borgo.

Elio Germano durante un incontro al festival. Foto Chiara Ferrin

Temi principali l’introspezione e l’ascolto nel contatto con la natura come nella performance Tutto passa, tutto resta di Gabriella Salvaterra, un percorso sensoriale a tappe che invita ad alternare camminate solitarie nel bosco a momenti di stasi e pieno abbandono allo spirito del luogo. Ritorna questo tema, suggestivo e particolarmente apprezzato dal pubblico, nel lavoro di Elio Germano, A piedi nudi sulla terra, installazione immersiva ambientata a valle, accanto al fiume che scorre in notturna. Dall’omonimo romanzo di Folco Terzani, racconta la vita di baba Cesare, un uomo in cerca della verità, attraverso la via ascetica, e il suo viaggio dall’Italia all’India, passando per l’Himalaya e incredibili esperienze spirituali e fisiche: la vita in grotta, nella giungla, in piazza Cavour a Torino, in un carcere indiano. Ogni cosa nella storia di Cesare è un’evidenza. Il bene e il male che gli accadono sono tracce di quell’evidenza: tutto ritorna per una ragione, in una visione karmatica dell’esistenza. Elio Germano accoglie, potremmo dire “in se” questo personaggio, realmente vissuto, e ne fa una voce che ci accompagna per molte ore, o per pochi minuti, – la durata di cinque ore può essere fruita per intero o meno, in base alla volontà di ogni spettatore – nel silenzio circostante, offrendoci una visione del reale completamente ribaltata rispetto al modo consueto di vivere occidentale.

Foto Chiara Ferrin

Grandi teli impermeabili, cuscini e plaid ci accolgono superato il sentiero che costeggia il fiume e il mulino di Gombola, ci sediamo e di fronte a noi un falò e un Sadhu con turbante e barba folta armeggia con il fuoco sacro chiamato Dunhi. Quelli che sembrano i suoi adepti stanno dentro a una specie di capanna ricavata con tende colorate e preparano macedonia e latte speziato che ci vengono offerti di tanto in tanto. Il buio, interrotto solo da qualche candela e dal fuoco, è denso di suono. La voce di Germano che interpreta Cesare penetra, volente o nolente, nella nostra testa, e nello stomaco. Per trovare il proprio posto nel mondo è necessario lavorare per sottrazione, ci dice: togliersi le scarpe e toccare coi piedi nudi la terra su cui si cammina, entrare in contatto con il dolore anche, e avere la vera esperienza di stare,di essere presente. Elio Germano non fa una reinterpretazione dell’opera di Terzani o della vita di Cesare, sembra completamente affascinato da lui, e lascia esclusivamente spazio alla sua parola trasformandoci tutti in adepti, pronti a superare il nostro scetticismo per risvegliarci dal torpore.

Come comincia il mondo. Foto Chiara Ferrin

La situazione sorprendente in cui ci siamo ritrovati, avvolti nei nostri plaid fino a notte fonda coi capelli umidi e storditi dalle implicazioni che ha comportato ascoltare la voce del Sadhu, è replicata la mattina seguente quando Marco, un maestro yoga residente a Gombola, ci propone una lezione nel suo spazio. Si tratta di una struttura in legno sospesa come una palafitta in mezzo al bosco, a qualche minuto dal centro del paese, un po’ più su verso l’alto Appennino. I pannelli che chiudono la stanza e la isolano dal vento e dalla pioggia sono removibili e quindi, varcata la piccola porta di legno, ci si ritrova su una zattera tra gli alberi, li puoi toccare, puoi sentirne l’odore e stare in silenzio per ore.

Questa esperienza è solo una tra quelle proposte dagli abitanti del luogo, c’è nel borgo in cui si tengono gli spettacoli una cucina che offre a tutti due pasti al giorno e la colazione. Tutto è preparato e servito dai residenti. In questa atmosfera di convivialità è il silenzio (ancora lui) che unisce di più ogni volta che ci si accomoda tra il pubblico per assistere agli spettacoli.

Amleto, applausi. Foto Chiara Ferrin

Il programma è variegato e sembra concepito per accogliere diversi target. C’è la prosa del Teatro dei Venti che mette in scena Amleto con gli attori della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia in un’operazione coraggiosa e riuscita, e quella di Vittorio Continelli che con il suo monologo Stracci. Contro l’uomo medio omaggia Pier Paolo Pasolini. Anche Babilonia Teatri compare in questo programma ricchissimo: Pinocchio è uno spettacolo che ha molto commosso il pubblico, e che associa il racconto del burattino di legno diventato ragazzo a tre storie di disabilità. E poi c’è la danza, presente a Gombola nelle performance Come Neve di Adriano Bolognino e Piano solo corpo solo di Claudia Caladarano.

Come neve. Foto Chiara Ferrin

Nel primo caso siamo nella piazza del paese, un tappeto bianco anticipa visivamente l’ingresso di due figurine abbigliate in maniera eccentrica: un completo realizzato all’uncinetto con una gonna a campana e un top senza maniche, un copricapo nello stesso stile che nasconde i capelli delle due danzatrici lasciando scoperto il volto. Per gran parte della performance le vediamo di spalle: quello che ci arriva è l’immagine di due aliene ricamate, come due marionette, dal gesto rigido e meccanico. Il confronto tra loro è speculare, sono l’una lo specchio dell’altra e questo rende ancora più rarefatto e alieno il movimento. L’impressione è spezzata solo quando si alzano e il ritmo cambia, si fa più frenetico mantenendoci tuttavia in uno stato di trance; sembrano dervisci rotanti con le loro gonne che accarezzano il suolo e si alzano scoprendo le punte dei piedi.

Piano solo corpo solo. Foto Chiara Ferrin

Spettacolo di grande rilievo Piano solo corpo solo si svolge nella chiesa di Gombola, un ambiente spoglio e ricco di storia che sembra fatto per questo scopo: ospitarci nei caldissimi pomeriggi estivi per partecipare a un rito. In fondo alla scena un grande pianoforte a coda, al centro un parallelepipedo nero, lucido, immobile. Due megaliti sulla scena vuota pronti a essere animati dai loro artefici. Il corpo di Claudia Caldarano giace sulla sommità del rettangolo, come su una piattaforma in mezzo al mare, sotto di lei la musica e quella che pare una tempesta invisibile che la trattiene ancorata magneticamente all’ogetto, salvo poi risucchiarla ancora più in basso, sul pavimento, nel fondale estremo dell’esistenza. Quello a cui assistiamo sembra una lotta della danzatrice contro le regole della gravità: cosparsa di un olio la sua tuta intera color ruggine la fa scivolare come una calamita sulla superfice piana, e proprio come un magnete la sua forza di attrazione è tale da incantare. Un assolo alla ricerca disperata della stabilità. Caldarano si alza e ricade su se stessa o sparisce dietro all’oggetto un’infinità di volte. Il suo sguardo angosciato e smarrito si fa sempre più combattivo e a questo cadere e rialzarsi di un corpo debole ma fortissimo allo stesso stesso tempo, fa eco la musica di Simone Graziano che riempie lo spazio vuoto entrandoci dentro. Si tratta di una performance di rara bellezza che trasmette il senso di sospensione di cui prima, rientrando perfettamente nel topos dell’introspezione rendendola però concreta, con questi due corpi metafisici (il piano e il parallelepipedo) e fisici (quelli dei due performer) che entrano i simbiosi tra loro.

Il programma del festival è molto ampio e qui non verrà espresso e raccontato per intero – si arricchisce anche di concerti serali che tengono vivo il borgo fino a tarda sera – ma ancora è importante ribadire quanto speciale possa essere un’esperienza di questo tipo. Per raggiungere Gombola si deve percorrere in auto una statale che da Modena arriva fin sulle montagne e poi ancora usufruire delle navette del Festival per fare l’ultimo tratto dal paese al borgo che è un po’ più alto, superato un bosco. Non c’è spettacolo, performance, concerto che potrebbe deluderci in questo luogo dove tutto sembra fermo eppure in continuo mutamento.

Silvia Maiuri

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