A giugno 2024 un progetto europeo, Performing Landscape, è approdato in Italia grazie al Piccolo Teatro di Milano e a Zona K, ideato da Caroline Barneaud e Stefan Kaegi (Rimini Protokoll).
“Se il paesaggio fosse un teatro? Se l’arte non imitasse la “natura”, ma ci permettesse di viverla collettivamente? Cosa è in gioco nel nostro rapporto con la “natura” e le sue rappresentazioni, nel momento in cui clima e risorse ci hanno portato alla consapevolezza della nostra fragilità e interdipendenza?”
Capita sempre più raramente di visitare una mostra in cui il curatore ha una chiara visione, un chiaro impegno, conoscenza, professionalità, coscienza, passione, amore, energie tali da “creare” un’opera a sé che supera il valore della somma dei valori di tutte le opere presenti.
È il caso di Paesaggi Condivisi, in cui Caroline Barneaud, curatrice artistica, e Stefan Kaegi, del collettivo Rimini Protokoll, hanno invitato dieci artisti internazionali a condividere le loro visioni sul nostro rapporto con il territorio. “Un viaggio teatrale fuori dalla città e dai teatri, per immergersi nel paesaggio, perdersi e ritrovarsi. Sette piece artistiche che compongono paesaggi senza cornice, risvegliano i sensi, prendono la misura dello spazio e del tempo, mappano il sensibile e l’invisibile del qui e ora, si interrogano sul rapporto tra uomo e ambiente e cercano, attraverso un fugace momento collettivo, di coniugare natura e cultura in modo inatteso e di fondersi nella polifonia della vita.”
A distanza di qualche settimana dalla mia partecipazione il ricordo è quello di avere visitato una collettiva con sette tele giganti, materiche, astratte, tutte di un verde dirompente; di essere stato preso per mano dai suoi curatori per attraversarle una ad una senza soluzione di continuità. Un viaggio di sette ore in cui il vero protagonista è stata la natura.
L’appuntamento è fissato per Sabato 15 Giugno alla Stazione Garbagnate Parco delle Groane, poco fuori Milano. L’organizzazione, ma userei ancora la parola “cura”, è impeccabile: a partire dalle mail ricevute, dall’accoglienza, dal materiale informativo (da cui è tratto l’incipit di questa recensione), la mappa, le cuffie audio e la mantellina antipioggia ricevuta. Tutto predispone alla piena fruizione dell’esperienza. Si parte, sono le 14, siamo circa 150 persone divise in tre gruppi. Ogni gruppo ha un accompagnatore e segue un suo itinerario, a volte ci si incontra; tutti faremo le stesse tappe ma con ordini diversi.
La prima tappa è con Stefan Kaegi del collettivo Rimini Protokoll, coadiuvato per la versione Italiana da Riccardo Tabilio e con il contributo di Camilla Grandi, psicanalista, Rania Khazour, cantante e autrice, Pamela Turchiarulo, meteorologa, e Costanza Alessandri, bambina curiosa. Invitati a vestire le audio cuffie e a scegliere un posto per sdraiarci sotto gli alberi di una piccola foresta, realizziamo il primo cambiamento di ritmo e prospettiva. Lo sguardo è verso l’alto, verso le chiome degli alberi e il cielo, a contatto con il terreno e le radici. La conversazione che ascoltiamo in cuffia, in cui i professionisti di sopra dialogano con la bambina sulla natura, le insegnano la storia del luogo, le pongono domande, stimolano risposte e riflessioni, predispone lo spettatore a un’apertura alla conoscenza, e alla coscienza, quasi puerile e per questo più libera. Una musica in cuffia sancisce la fine della prima performance. Sono strumenti a fiato. La registrazione di altissimo livello tecnico riproduce la spazialità della fonte del suono, i differenti strumenti suonano da posizioni diverse e questo è chiaro nell’ascolto in cuffia. È un ambiente audio tridimensionale. Mi alzo, mi muovo nella foresta ascoltando i suoni, osservo gli altri spettatori, qualcuno si è tolto le cuffie. Le tolgo anche io e sorprendentemente continuo a sentire la musica. Dopo un primo disorientamento scorgo un musicista nascosto nella foresta, poi un altro… stanno suonando dal vivo la musica che ascoltavo in cuffia. L’effetto è forte e nella poetica scorgo una matrice iperrealista, una realtà aumentata, che nella forma artistica più onesta è un invito al dubbio in una società in cui la differenza fra reale e fittizio è sempre più difficile da cogliere.
Ripartiamo. Attraversiamo in silenzio campi e sentieri del parco per giungere alla postazione realizzata da Begüm Erciyas, artista turco-belga e Daniel Kötter, regista tedesco. Troviamo un casco visore VR per ognuno e una volta indossatolo scompariamo l’un l’altro alla vista del gruppo. Siamo nello stesso luogo in cui abbiamo indossato il visore, o almeno credo che sia così. Mi chiedo se, come nella performance precedente, quello che vedo stia accadendo in tempo reale ma non vedo gli altri spettatori che so essere accanto a me. Non c’è nessun umano in effetti, c’è solo la natura del luogo. C’è invece un’altra sorpresa: la registrazione per occhiali VR a 360 gradi è fatta da un drone: cominciamo lentamente a salire e anche questa volta cambiamo prospettiva. Superiamo le chiome più alte e osserviamo il territorio, la sua organizzazione dall’alto verso il basso. L’intervento dell’uomo nei sentieri, nella disposizione delle piante. L’altezza raggiunta è notevole ma nonostante io soffra di vertigini riesco a controllare il panico che potrebbe seguire. Il volo è emozionante, ben realizzato, la vestizione del casco VR semplice ed efficace e non incontro problemi tecnici che purtroppo spesso inficiano questo tipo di esperienze. Tolto il visore il duo di artisti ci invita verso sedute più tradizionali per dedicarci alla lettura personale di un opuscolo che descrive le azioni dell’uomo in un’area al confine tra Armenia e Azerbaijan. Il testo e le fotografie dall’alto, realizzate con tecniche di imaging militare, permettono di capire trame militari, politiche, economiche e di sfruttamento del territorio altrimenti invisibili.
Queste due prime performance ci propongono almeno due elementi della poetica e della politica del progetto che ritroviamo in quasi tutte le performance: l’invito a cambiare il punto di visione per uno sguardo differente sul territorio, verticale in questo caso. Dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, vediamo cose e percepiamo concetti che la posizione eretta e legata al suolo non ci permette. E poi l’invito ad aguzzare i sensi laddove finzione e realtà sono sempre più difficili da distinguere.
Ripartiamo. Sono in compagnia di un caro amico ma, come in una visita ad un museo, ognuno segue il proprio viaggio personale per ritrovarci saltuariamente. Parlo con il nostro accompagnatore, non mi sorprende scoprire che sia un attore: ha sensibilità per la scena, sa muoversi senza disturbare, contribuisce a rendere l’esperienza un viaggio ininterrotto di molte ore.
La performance successiva è opera di Ari Benjamin Meyers, compositore e artista americano con base a Berlino, che ha composto per Paesaggi Condivisi, Unless, “quattro opere musicali e scultoree per gli alberi, per la terra, gli uccelli e l’aria che si dispiegano man mano che il paesaggio e il giorno passano” e le affida a Alessandro Luppi, direttore musicale, Michael Costanza, tromba, Iris Soledad Galibariggi, sassofono, Pierfausto Dall’Era, tuba, Simone Capitaneo, trombone, Gabriela Clelia Cuna, flauto, Maria Andreana Pinna, sax tenore. Assistiamo a e ascoltiamo la seconda di quattro partiture (la prima si era fusa perfettamente in coda alla performance di Stefan Kaegi) affidate a strumenti a fiato e al vento di quel giorno. Minimaliste, non alla ricerca di una melodia a sé, ma in ascolto e in dialogo con la natura e gli eventi atmosferici del momento in cui vengono eseguite. Un paesaggio sonoro. Come nelle altre performance, il grande rispetto e ascolto per l’elemento più invadente e immanente, la natura, permette una suggestione, un pensiero, un’emozione, la creazione di un mondo altro. Altissimo.
La performance successiva, creata dai portoghesi Sofia Dias e Vitor Roriz, coadiuvati nella versione italiana da Antonio Tagliarini, ci vuole invece attori in un piccolo bosco. Adesso siamo invitati ad agire. Prendere coscienza del luogo, decidere da che parte stare. Relazionarci con terra, piante, con i nostri compagni di viaggio, scegliere un sottogruppo e opporci all’altro. Trovare nuove geometrie di relazione con la natura. Sono sempre indicazioni in cuffia a guidarci in queste azioni, siamo noi che decidiamo se coglierle oppure no.
Una coscienza del luogo e degli altri ci viene suggerita anche nella performance successiva, firmata da Chiara Bersani e Marco D’Agostin, con Marco Bricchi e Luca Bricchi. La natura non sempre ci è amica, noi non sappiamo sempre rispettarla. Non sappiamo rispettare i nostri e gli altrui corpi. L’elemento centrale della performance è proprio l’invito, in cuffia, a posizionarsi per non disturbare gli altri e il paesaggio. Non sapendo cosa e dove avverrà, dobbiamo aguzzare sensi e intelletto nel rispetto di tutti e in relazione con la natura. La scelta del posto diventa un rituale e un’azione politica. Marco Bricchi nel frattempo prepara per il pubblico un piccolo rinfresco.
Riprendiamo il cammino all’interno del Parco delle Groane. Di questo Parco ci è stato detto qualcosa all’inizio della performance, e il materiale informativo, come già apprezzato, è ricco e realizzato con cura assoluta. 7.700 ettari all’interno della grande metropoli nord milanese di grandi querce e pini silvestri, vaste lande di brughiera, vecchie rovine di fornaci, antiche ville patrizie.
Ed è proprio dal quasi nulla di una brughiera che emerge la terza composizione di Ari Benjamin Meyers. Una sorpresa che lascia tutti a bocca aperta quando il campo che misteriosamente suona davanti ai nostri occhi svela i musicisti, sdraiati e invisibili nell’erba dapprima, sbocciare e rivelarsi alla vista alzandosi poi. È uno dei momenti più emozionanti della giornata. Ci lascia la fiducia che le belle sorprese possano presentarsi ovunque.
Riprendiamo il cammino. Un campo agricolo lasciato a riposo, ricco di meravigliosi fiori di campo, è la scena scelta dalla regista francese Émilie Rousset insieme al collaboratore per la versione italiana, Magali Tosato.
Possiamo sederci e guardarlo. In cuffia l’arringa di un avvocato ambientalista sembra presagire e chiedere al pubblico una presa di posizione a priori. Niente di tutto questo. La performance è una delle più intelligenti, aperte, rivelatrici, non dogmatiche, di tutto il percorso. Alle parole dell’avvocato ambientalista, seguono quelle di un tecnico bio-acustico che studia il linguaggio delle specie (sapevate che le stesse specie di animali parlano “lingue” diverse a seconda della zona geografica di appartenenza?!) e di un agricoltore. Raccolte dalla regista e consegnate in dialogo ai due performer e a un vero agricoltore, queste parole ci arrivano chiaramente in cuffia mentre osserviamo il campo. Solo dopo qualche minuto vediamo apparire lontanissimi e avvicinarsi verso di noi i performer.
Se nelle prime due performance il cambio di sguardo dall’asse orizzontale, tipico della specie umana, a quello verticale ci apriva la strada a nuove scoperte, qui è la messa a fuoco su orizzonti lontani ad aprire la mente a riflessioni altre. Lo scarto fra voce vicina e campo profondissimo è un altro momento di alto teatro che può realizzarsi solo fuori da un teatro e con tecnologie di ultima generazione. Di ultima generazione è anche il trattore che si avvicina insieme ai performer. Aria condizionata e musica ad alto volume. Una piccola scatola teatrale si muove all’interno di una messa in scena più grande. L’agricoltore che lo guida ne spiega ed esalta le caratteristiche, ci racconta la sua vita, imprenditore agricolo da generazioni. Alla domanda se da bambino gli piacessero le mucche risponde: “A me da bambino piaceva il trattore!”.
La tecnologia ci affascina, non possiamo negarlo, non sarebbe onesto interrogarsi sulle questioni del cambiamento climatico, sul rapporto uomo-natura, abbandonandoci esclusivamente a crepuscolari, nostalgiche, post-romantiche considerazioni su un “ritorno alla natura” negando questa fascinazione tutta umana.
A ricordarcelo arriva anche la settima performance firmata dal collettivo spagnolo El Conde de Torrefiel. Tanya Beyeler e Pablo Gisbert hanno abituato il pubblico italiano e internazionale a messe in scena violente e di forte impatto e anche questa volta lo confermano. La drammaturgia e la presenza in scena sono affidate esclusivamente ad una gigantesca barra a led al centro di un campo e a computer e sintetizzatori che riproducono una “colonna sonora tecnologica”. Siamo di fronte a un paesaggio sottotitolato. La rappresentazione umana della natura viene decostruita e reinterpretata. Il discorso sull’ambiente allarga finalmente lo sguardo ad una dimensione sovrumana, post apocalittica, in cui trovo riferimenti al VHMT, il Il Movimento per l’estinzione umana volontaria (dall’inglese Voluntary Human Extinction MovemenT, da cui l’acronimo VHEMT pronunciato vehement, ovvero veemente) che supera la problematica dell’impatto dell’azione umana sull’ambiente sostenendo attivamente l’estinzione volontaria della specie umana.
Il nostro viaggio si chiude con l’ultimo intervento musicale di Ari Benjamin Meyers. Sono passate sette ore. I musicisti sono di fronte a noi a semicerchio con i loro fiati. I suoni e la musica che ne escono sono inclassificabili. Il vento è cresciuto di intensità e nervosismo. Sullo sfondo muove le foglie e le chiome degli alberi che sembrano danzare. Comincia a piovere. Il cielo si trasforma in un gigantesco acquerello di Turner. La natura ha deciso di prendere completamente la scena proprio alla fine. È il sublime.
Il mio applauso a tutti gli straordinari artisti, tecnici, assistenti, creatori di queste performance e uno particolare a Zona K e al Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, dicitura completa che mi sembra appropriato usare, partner italiani del progetto europeo Performing Landscape che insieme a Théâtre Vidy-Lausanne, Festival d’Avignon, Mladi Levi Festival, Culturgest, Tangente – St. Pölten Festival, Temporada Alta – Girona, Berliner Festspiele, hanno avuto la visione, la capacità, la caparbietà di chiamare a sé alcuni fra i migliori interpreti del teatro contemporaneo internazionale, capaci di misurarsi sul tema dell’ambiente proprio all’interno di esso. Il Piccolo e Zona K hanno curato la versione Italiana di questa proposta, abbandonando la propria casa nel centro di Milano per seguire pratiche di fusione col territorio che in Italia solo alcuni festival d’avanguardia estivi hanno saputo fare.
Giulio Stasi
Giugno 2024
Con pièce di Chiara Bersani e Marco D’Agostin (Italia), El Conde de Torrefiel (Spagna), Sofia Dias e Vítor Roriz (Portogallo) / Antonio Tagliarini (Italia), Begüm Erciyas e Daniel Kötter (Turchia, Belgio, Germania), Stefan Kaegi (Germania, Svizzera) / Riccardo Tabilio (Italia), Ari Benjamin Meyers (Stati Uniti, Germania), Émilie Rousset (Francia) / Magali Tosato (Svizzera) | In italiano