Recensione. Al Festival dei Due Mondi di Spoleto abbiamo assistito al debutto de Il giardino dei ciliegi di Leonardo Lidi, ultimo e atteso capitolo di Progetto Čechov, una trilogia prodotta dal Teatro Stabile dell’Umbria.
«Poi si arriva al Giardino, dove al centro poniamo un luogo – una casa, un giardino – che deve essere venduto, abbattuto perché non è più utile. Raccontiamo di un percorso verso la privatizzazione, ed è un percorso preciso, che richiede sincerità d’animo, il coraggio di non nascondersi e di ridiscutere in profondità i nostri ruoli. In questo inizio secolo, che è anche inizio millennio, è necessario, dopo aver guardato al secolo scorso con nostalgia, porci domande su come andare avanti tutti insieme».
Così, a febbraio scorso e su queste pagine, Leonardo Lidi introduceva Il giardino dei ciliegi, ultimo capitolo di una trilogia consacrata a Čechov (prima sono venuti Il gabbiano e Zio Vanja), prodotta dal Teatro Stabile dell’Umbria.
Al debutto spoletino, la scena si presenta simile a una balera dismessa: la plastica bianca delle sedie rovesciate si staglia contro quella nera e lucida del fondale e delle pareti. Alessandro Iachino coglie un rinvio all’impianto scenico progettato da Alberto Burri per il Tristano e Isotta di Maria Francesca Siciliani, nel 1976 al Teatro Regio di Torino. Approfondendo la suggestione, si potrebbe rilevare come la plastica, in quell’allestimento, possedesse una connotazione di minaccia notturna, quasi sepolcrale, mentre qui viene impiegata come ambiguo contraltare di una variopinta estetica di desolazione kitsch che, fin dai primi quadri, definisce la qualità asfittica e “oggettuale” dell’ambiente. Il sentimento di oppressione e provvisorietà di mezz’estate dell’originale viene tradotto da Lidi attraverso le atmosfere balneari, una summertime sadness, ma ripulita del languore, a bordo piscina: il secondo atto è ambientato sul piano inclinato di un solarium che ricorda il fondale di assi di betulla di Zio Vanja, a sua volta debitore dell’habitat ligneo del The Seagull firmato dal National Theatre nel 2022. Anche i costumi, opera di Aurora Damanti, enfatizzano i caratteri (lo smoking di Firs, la t-shirt con Snoopy di Trofimov, i prendisole sgargianti e i pantaloni di acetato), utilizzando un tratto vintage che si ben si accorda al sentore di nostalgia e decadenza che avvolge la scena.
L’ingresso della bizzarra corazzata – un’umanità sguaiata e irrisolta – sulle note di Ritornerai di Bruno Lauzi compone già, in poche mosse, il sentimento di usura che pervade una vecchia casa delle vacanze, un luogo che ha significato molto, che custodisce ancora le memorie, ma anche ora sta cedendo, collassando su se stessa. I toni della farsa sono favoriti dalla non corresponsione dei corpi ai personaggi: le incongruenze anagrafiche e di genere, ma anche il reimpiego dell’ensemble nei diversi ruoli della trilogia (concepita anche per la visione in sequenza), suggeriscono l’idea – in qualche modo affine alla tradizione antica delle compagnie di capocomicato – della magnificazione spericolata delle virtù degli interpreti, trascendendo, in nome di essa, la perizia e il metodo con i quali Čechov selezionava gli attori e le attrici. Il gioco a tradire l’originale (nel senso di distorcere ma anche di lasciar trasparire) sembra, nei tre capitoli, disporsi secondo un gradiente di progressione: dalla compostezza ragionata e filologica de Il gabbiano, si passa, in Zio Vanja, a una sorta di introiezione dello spazio in un «tutto verbale», per giungere, ne Il giardino, a una resa – incondizionata, innamorata – al proprio espediente.
Il riconoscimento della caratura degli interpreti costituisce, fin dalle intenzioni, il vero cuore della regia di Lidi («organizzare il “movimento” su diversi ruoli di questa compagnia è stato anche un modo per studiare l’articolata progettualità che la governa») e anche una sua “tesi” politica, esito della sua attività di pedagogo: una denuncia della fatica, in Italia, a inscrivere in modo sistematico il lavoro attorale nei luoghi che lo ospitano e nel sistema produttivo, a proteggerlo e a garantirne la continuità. È dentro il perimetro di questa trasfigurazione metaforica che il giardino pretende di farsi immagine del teatro: parcellizzato, degradato, messo sotto scacco dalla minaccia della privatizzazione, pronto a essere svenduto. Sull’impegno etico di questa posizione – che necessita comunque di una didascalia, di uno spazio ulteriore rispetto a quello della scena, per essere discussa in termini compiuti – sembrano disfarsi lo spessore, l’ambivalenza e la molteplicità delle ragioni e dei moventi dei personaggi di Čechov e così la loro dolente ineffabilità, deformata e assorbita dalla destrezza generosa delle interpretazioni.
Ilaria Rossini
Teatro Caio Melisso, Spoleto – luglio 2024
IL GIARDINO DEI CILIEGI
diAnton Čechov
regiaLeonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vignogna.
scene e luciNicolas Bovey
costumiAurora Damanti
suonoFranco Visioli
assistente allaregiaAlba Porto
produzioneTeatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione conTeatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi