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Disinganni critici e apologie della vanità a Santarcangelo

Nella prima intensa settimana di Santarcangelo Festival, la più vera discussione delle idee viene da un lavoro sull’iconografia della vanità, ed è composto in condivisione e a più mani da Giannini, Novembrini e Racis.

Foto Pietro Rebora

While We Are Here è stato il titolo di quest’anno di Santarcangelo Festival. Un monito un po’ facile-facile (come tutti i moralismi) e di voluto effetto (mentre siamo qui, altrove si muore), che però affida al programma una debole agenda, deformata dal ricatto ingiuntivo del memento mori: inclusiva coesistenza, fare comunità, animare scambi, mentre siamo qui (perché altrove si muore). Nessuno spazio al disordine, alla furia, al problematico, il toro non lo si prende per le corna. Ma è quello che la più parte di noi già fa, nelle scuole, nelle università, nei modi e nei tempi e nelle consapevolezze diverse di ognun*. Questa agenda infligge alla performance l’idea (per la verità oggi assai in voga) che una prassi teorica si traduca immediatamente in una agency capace di cambiamento. Non è così. La performance è un sapere, che va appreso e messo all’opera dentro ai processi, e attraverso l’amore (sì, hai letto bene) per il fare e il rifare e il disfare continuo: non basta assumere lacerti di Barad o Vergès come parole d’ordine (compromettendone la complessità), e poi magari trovarsi in un workshop di composizione, di Johnathan Burrows a Iuav (dove insegno e dove è accaduto), rifiutando gli esercizi proposti (perché da maschio bianco…), credendo di impare magari per omeopatia. Già fuori dalla storia, ci si ferma allora alla sola lettura del menù.

Tra le performance più belle del primo fine settimana del festival, ho visto Pas de deux di Anna-Marija Adomaityte (Cie AMA). Un duo costruito come un fatale avvinghio, col perno tra la schiena di lei e il petto di lui (che la sovrasta in altezza), come se fossero figure in tensione verso una fuga bloccata. È il partnering come una norma che li tiene bloccati. Al centro di un ristretto spazio, pavimento blu illuminato da regolari plafon, con il pubblico sui quattro lati, Romane Peytavin e Victor Poltier non si staccano mai. In un loop musicale che evolve, la coppia alterna stop e ripartenze da stasi improvvise, mega torsioni per forze e direzioni contrapposte, comunque sempre in trazione. Tra forza centripeta e poi centrifuga, l’asse ascendente del movimento si fa poi circolare: sembrano dei lift abortiti, delle spinte trattenute; la condanna di un ballo di coppia (più propriamente dovrebbe così intitolarsi questo lavoro) come una fuga sempre impedita (dai ruoli? dal genere? da ciò che è socialmente atteso?). Anche quando si staccano, restano sur place come senza futuro, in termini di spazio (dunque anche simbolico), forse è il calore che emana dopo tanto sforzo a tenerli ancora così prossimi, in un tempo fermato ma non liberato, perché l’oppressiva relazione continua: danzano così il rovescio di un partnering coreografico incapace di trasgredire la norma che lo informa.

Foto Pietro Rebora

Di poca efficacia è invece il diseguale immaginario convocato da Michelle Moura in Lessons for cadavers, fra iperboliche (ma lente, lentissime) apparizioni in un grottesco incompiuto, e tentativi maldestri di un comico macabro, sempre inesploso (a proscenio qui le luci illuminano altre luci, posizionate avanti poco più in basso, e Silvia mi dice che, per accontentarsi, la felicità va pure ricercata nei dettagli). Ogni tentativo di connettere questo cimitero del quotidiano, però, con i disastri delle politiche di destra in Brasile, resta poco più che un’inintelligibile allegoria.

Foto Pietro Rebora

Ci si sposta allora veloci per assistere alla performance che intesta proprio il tema del festival, While we are here di Lisa Vereertbrugghen, suo primo lavoro realizzato per il gruppo CAMPO. Sono 5 performer che dànno vita a un rave techno-folk, nel caldo tropicale di una palestra: la club culture qui proposta è però vista e rivista e rifritta (compresi i rimandi aristocratici alla «danza popolare», immancabili, e il bisogno scontato di «perdita di controllo»); un virtuosismo di resistenza che sarebbe preferibile direttamente fare (magari all’Imbosco) che non guardare. Anche Alvise e Vittorio sono delusi, sembra proprio già tutto vecchio, ai loro vent’anni… (Infatti è un po’ come programmare Schiaccianoci a natale, o un titolo acchiappacitrulli di tango in una stagione teatrale di provincia, per accontentare le famiglie, e non mandare via scontent* nessuno).

Foto Filippo Zambon

Ma le aporie più irrisolte si osservano nella pretenziosa performance, dai «contenuti sensibili», di Samuli Laine dal titolo Nurture, che in nome di una mal compresa decostruzione, si appropria dell’atto dell’allattamento al seno per ampliare l’ennesima parola d’ordine in voga: caregiving. La seduta dimostrativa a cui accediamo è un gran pulire di mani, e sistemare comodi cuscini, fare massaggi per letteralmente poi mimare l’allattamento al seno, alla senziente malcapitata, con cannula al silicone attaccata a una ventosa su un capezzolo dell’ossuto performer, per farle succhiare chissà forse acqua e zucchero (col caldo che fa…). In tanta rivendicazione ossessiva di purezza, di restituzione al naturale, di «focusing on the sensation», e tanta rinnovata dipendenza (sempre molto post-new age ma già pre-scientology), non sembra esserci spazio alcuno per un contrappunto di singulto, per un sincopato convulso o un rigurgito capace di rigetto, di vomito di libertà.

Nemmeno l’atteso Il Mio Filippino: The Tribe di Liryc Dela Cruz, tutto incentrato sulla denuncia della costruzione dello stereotipo razziale, ha risvegliato il pubblico dalla condanna al torpore. Dopo la proiezione di un docufilm in bianco e nero, ripetute sequenze numeriche ossessivamente agite in un minimo di azione allagano di sonno la platea, come la più soporifera conferenza sulla decolonizzazione, come uno scherzo maligno di tutte le varie illusioni storiche, aggiornate agli ultimi disinganni critici.

Foto Pietro Rebora

La più vera discussione delle idee, allora, passa invece per la straordinaria creazione condivisa di Giovanfrancesco Giannini, Fabio Novembrini e Roberta Racis, dal titolo Vanitas, vista nell’appropriata cornice del Teatro Petrella a Longiano. Con il geniale progetto sonoro di Samuele Cestola. Questa rivendicazione di pluralità compositiva non è cursoria, ma ha alle spalle una concezione dell’opera come stratificazioni congiuntive di ciò che nasce indistinto ed escluso. Il patto d’avvio è chiaro: «È uno specchio questo vetro | anzi un lucido ferètro» (dal Disinganno del Tempo e della Morte di Benedetto Pamfili per Händel). La brevità della vita può essere scrutata attraverso la lente di uno specchio (o di una telecamera in tempo reale) che ne svela l’estensione temporale proprio nell’inesorabile vanità della sua finitudine. Una misteriosa figura si sposta nello spazio, per ricomparire solo più tardi, figura perturbante nel quadro di una ripresa video. Ma prima si intravede a terra una Venere ignuda di spalle, mentre nature morte d’area caravaggiesca ingigantite si proiettano sul fondale.

Foto Luca Del Pia

È tutto un proficuo saccheggio barocco tra il pittorico e il poetico, tra corpi-oggetti (in improbabili perizomi) e fiori recisi, melograni tagliati e clessidre svuotate, candele mozzate e madonne piangenti, e non mancano teschi e tenebre improvvise. Dal ventre fatto di luce della Venere all’eros calmo à la Sofia Coppola (è il lettering su una maglietta), fino alla magnifica gorgiera attorno a un volto, in un irreparabile pianto pieno di echi che si trasformano in un memorabile canto già al crocevia tra affetti e opera in musica: qui tutto è utilmente riflessivo. La mortificazione dei sensi è una silenziosa abbuffata. E, alla fine, nel silenzio più cupo, basta un’umile quarzina per illuminare quel poco che resta. È la performance al bivio: accettare supini e con mestizia la caduta del tempo (e del corpo), nella morte, o celebrare la vita attraverso le forze generative delle sue pur illusorie chimere? Nessun Dio risponderà. Per questo l’ultimo corpo morto, steso nudo sulle assi di proscenio, non si rialzerà.

Stefano Tomassini

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Stefano Tomassini
Stefano Tomassini
Insegna studi di danza e coreografici presso l’Università Iuav di Venezia. Nel 2008-2009 è stato Fulbright-Schuman Research Scholar (NYC); nel 2010 Scholar-in-Residence presso l’Archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (Lee, Mass.) e nel 2011, Associate Research Scholar presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University (NYC). Dal 2021 è membro onorario dell’Associazione Danzare Cecchetti ANCEC Italia. Nel 2018 ha pubblicato la monografia Tempo fermo. Danza e performance alla prova dell’impossibile (Scalpendi) e, più di recente, con lo stesso editore, Tempo perso. Danza e coreografia dello stare fermi.

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