Recensione. Milo Rau alla Biennale Teatro 2024 ha portato in prima nazionale l’ultimo capitolo di un ciclo in cui i fatti di cronaca dialogano con i modelli della tragedia classica. La nuova Medea è una madre ferita, in scena la storia è ricostruita da un gruppo di bambini.
La tragedia classica non mostra mai gli eventi cruenti, assegna alla straordinaria potenza lirica e visionaria del verso la funzione epica che serve a sprigionare un incantesimo retorico e umano che forse non ha eguali: il pubblico si trova diviso da un paradosso decisivo, in cui la lontananza dagli eventi rende questi più vicini ancora perché fatti risuonare nel punto di vista privilegiato dei testimoni oculari. Come dire, ribaltando il detto rassicurante, che quando “occhio non vede” il cuore è ancora più indifeso, esplode, entra in confusione, resta intrappolato in un groviglio di responsabilità che non ha il nervo per scalfire.
Il gioco sulla distanza e sulla prossimità tra eventi, esperienza e rappresentazione è uno dei pilastri che regge la premessa drammatica delle opere di Milo Rau, attualmente tra le più potenti quanto a portato politico. Il metodo è quasi sempre lo stesso, come ricorrenti sono gli strumenti di linguaggio: l’utilizzo sapiente del mezzo videografico (ben lontano da certe forzate applicazioni modaiole); la ricerca antropologica; un saggio di microstoria che ricostruisce e smonta le narrazioni inquinate dal mainstream giornalistico, il re-enactment come severa aula processuale in cui trascinare alla sbarra il concetto di rappresentazione; l’impegno civile che accompagna, nel mondo reale, certe operazioni poetiche; la divisione in quadri e una generale impostazione retorica di stampo didattico à la Brecht; il fatto di cronaca e la violenza come pretesti per scavare verticalmente una voragine di ragionamento intellettuale ed etico; sempre di più un inquietante cinismo che testimonia la frustrazione nei confronti delle possibilità che l’arte non ha più di incidere davvero sulla società.
Dopo Orestes in Mosul, che riscriveva l’epos euripideo nel contesto della lotta all’IS tra Siria e Iraq, e Antigone in the Amazon, dove l’antieroina di Sofocle se la vedeva con la deforestazione, lo sfruttamento delle risorse e il genocidio in Brasile, il ciclo di dialogo con il tragico torna al caro Euripide. Medea’s Children, in prima italiana al Teatro alle Tese di Venezia per la Biennale Teatro 2024, riporta il regista svizzero a confrontarsi con la problematica presenza dell’infanzia in scena, per interrogare un cruento confronto generazionale alla prova delle responsabilità sociali. La vicenda della “barbara” Medea, che uccide i tre figli per amputare la discendenza del traditore Giasone, entra in risonanza con il caso della madre belga Geneviève Lhermitte (nella drammaturgia il nome diventa Amandine Moreau), che nel 2007 uccideva uno dopo l’altro i propri cinque figli e tentava, senza successo, il suicidio, mentre il marito Mounir/Giasone – traditore pure lui – era in viaggio all’estero.
L’intero spettacolo sembra ruotare attorno a una domanda fondamentale, frequentata già da molte voci della creazione teatrale nei secoli: fin dove ci si può spingere nel mostrare qualcosa sul palco? Dietro, ovviamente, c’è un ragionamento più ampio, che piuttosto si chiede “che cosa siamo, in fondo, disposti a sapere e, dunque, a sopportare?”. Un quesito che riguarda – come la convenzione teatrale prescrive – le vite degli altri, che pure fuori dal mondo della finzione noi “fruiamo” come protetti da un velo di Maya, uno schermo che rende lontani anche i drammi più vicini (siano atti efferati di natura privata o genocidi di massa). Tornando a quanto detto in principio, si tratta di quella crudele dinamica di autoprotezione/autodistruzione che ai nostri occhi rende la maggior parte delle cose del mondo colorate in bianco e nero, annullando le sfumature. E non è un caso che l’ultima annualità di direzione Ricci / Forte alla Biennale si intitoli proprio “Niger et Albus”.
Mentre il pubblico ancora prende posto – il proscenio delimitato dal sipario chiuso ospita una fila di sedie – un gioviale presentatore (Peter Seynaeve) si presenta come l’acting coach del gruppo di bambini che – dice – ha appena messo in scena di fronte ai nostri occhi lo spettacolo di cui si legge nel programma di sala. Accolti i giovanissimi colleghi e colleghe (Bernice Van Walleghem, Aiko Benaouisse, Ella Brennan, Helena van de Casteele, Juliette Debackere, Elias Maes), la finta (ma non falsa) post-show discussion prende vita a fatica: si divide tra l’intervistatore che cerca invano di porre domande sul processo creativo e però vuole anche sdrammatizzare e attenuare l’imbarazzo, attrici e attori poco centrati sull’argomento, distratti e ridanciani, oppure già comodi nel ruolo delle star, o ancora serissimi nella capacità di rispondere alle domande con altre domande, molto meno rassicuranti. In questo apparente distacco – reso complesso da tre diversi piani di realtà e meta-discorso – torna il refrain della negoziazione della distanza tra evento e sua rappresentazione e serpeggia fino a prendere il controllo del tutto l’esigenza di far riascoltare e rivedere al pubblico frammenti di quello spettacolo che si è detto appena terminato.
Capiamo che questo ordigno metateatrale funge quasi da prologo in cui non vi è più distinzione tra personaggi e coro; non siamo che nell’anticamera di ciò che davvero vedremo: il sipario che si apre svela i consueti set iperrealistici, le videocamere al servizio di uno sdoppiamento dello sguardo, lo schermo gigante dove verranno proiettate alcune scene preregistrate, rimesse in scena dai giovani attori.
Con impeccabili resa scenica e orchestrazione drammaturgica e tecnica e una complessa ma delicata direzione dei giovani attori, sullo schermo vediamo una selezione di scene ispirate alla tragedia di Euripide, interpretate dagli attori adulti in costumi volutamente approssimativi. In esso si specchia l’azione scenica live, con i bambini impegnati a riprodurre gesti e donare la parola. Attraverso una precisa prospettiva di monologhi che avvicinano le coscienze adolescenti alla morale tragica e che davvero riescono plausibili nell’immaginare che finalmente i figli di Medea possano prendere voce, si giunge a un altro topos ricorrente del teatro di Rau, la messinscena iperrealista degli omicidi, qui ripresa in tempo reale dall’unico adulto in scena con un live video feed sullo schermo di fondo. Il piano sequenza predilige i primissimi piani e i dettagli, non risparmiando nulla del fatto di sangue, indugiando sui fiotti scuri che esplodono dalle giugulari recise a colpi di coltello, sul gorgoglìo degli ultimi spasmodici respiri, sugli occhi sgranati dalla sorpresa. I cadaveri vengono accatastati sul palco coperto di terriccio e si può passare al crudele momento in cui gli attori abbandonano il proprio personaggio, al suono della frase «Mi pare sia andata bene», pronunciata dall’unico adulto in scena. Rapita, amata e ripudiata, schiacciata da una società razzista e patriarcale, una; sprofondata nell’abbandono e nella depressione e incapace di attirare un’attenzione empatica, l’altra: Medea e Amadine incarnano due modi di essere straniere, al mondo che le accoglie e agli affetti che dovrebbero dar senso alla loro vita. Ed è così che storia universale e microstoria si uniscono, in un desolante apologo sulla sconfitta della società.
In questo ritorno al difficile tandem su cui pedalano adulti e bambini si sente un legame forte con il devastante esperimento di Five Easy Pieces, in cui la vicenda dello stupratore pedofilo belga Marc Dutroux era rimessa in scena da coetanei delle vittime. E tuttavia Medea’s Children porta con sé quel solido ponte di dialogo con il mito e la sua resa da parte di una tradizione rappresentativa che di fatto ha forgiato la nostra cultura di osservatori e, sì, di cittadini. Quel che si realizzava in Five Easy Pieces era una disturbante suggestione collettiva in cui, ammutoliti dall’imbarazzo, ci si sentiva a disagio nell’essere spettatori di un atto (pur protetto dall’evidente membrana finzionale) di fronte al quale di fatto si accettava d’essere voyeur. Qui il più ampio progetto sul linguaggio tragico rafforza il discorso e riesce (laddove in parte la precedente Antigone falliva) a evitare ogni retorica. Quel cinismo guadagnato da Rau in anni di lotte e cordate contro i mali del mondo gli permette di non farci sentire il peso di certe soluzioni apparentemente posticce, perché quell’estetica radicale ha accettato di non essere più così radicale, diventando invece funzionale all’impianto sintattico al punto da irrobustire quello semantico.
Nell’alternarsi di freddezza ed empatia, di distacco e carica emotiva, la presenza dei giovani attori e attrici diviene un urlo strozzato dell’infanzia. Nella simbolica uccisione del mostro, che va a schermo come in una colorata recita scolastica, sta forse il punto di questa lotta contro un’età adulta che tenderà a schiacciarla con l’ottusità imposta dai cliché; c’è un chiedere con forza un ascolto e un abbraccio, in una celebrazione di letale innocenza, verso un’interdetta lezione di umanità. Tutta la forza si concentra nel segmento in cui i cadaveri si destano, si passano avambracci di tessuto a togliere il sangue dalla faccia, si spolverano via la terra e riprendono placidamente posto nel proscenio che li aveva generati, per occuparsi di far calare l’ultimo sipario.
Siamo di fronte al “sesto atto” della tragedia, quello descritto dalla poetessa Wislawa Szymborska in un componimento già usato da Milo Rau a chiusura del suo The Repetition – Histoire(s) du Théâtre (I). «L’atto più importante della tragedia è il sesto: / il risorgere dalle battaglie della scena / l’aggiustare le parrucche, le vesti, / l’estrarre il coltello dal petto, / il togliere il cappio dal collo, / l’allinearsi tra i vivi / con la faccia al pubblico».
Sergio Lo Gatto
29 Giugno 2024, Teatro alle Tese, Venezia – Biennale Teatro 2024
MEDEA’S CHILDREN
Con: Peter Seynaeve, Bernice Van Walleghem, Aiko Benaouisse, Ella Brennan, Helena van de Casteele, Juliette Debackere, Elias Maes
Ideazione e regia: Milo Rau
Drammaturgia: Kaatje De Geest
Video design: Moritz von Dungern
Disegno sonoro: Elia Rediger
Disegno luci: Dennis Diels
Scene: ruimtevaarders
Costumi: Jo De Visscher
Attrezzeria: Joris Soenen
Produzione: NTGent
Coproduzione: La Biennale di Venezia, Wiener Festwochen, ITA – Internationaal Theater Amsterdam, Tandem – Scène nationale (Arras Douai)