Questa recensione fa parte di Cordelia di luglio 24
Ma perché il teatro, perché la poesia, se il mondo va in pezzi, se la provincia è sempre così provincia, se persino la scienza passa per opinione, se si scappa sempre e sempre si resta? Da dove viene quest’idea assurda, prepotente, che le parole possano davvero cambiare il mondo? Non è una risposta, quella di Filippo Capobianco, ma un viaggio di poesia performativa vivace, puro, con le guance rosse. Mia mamma fa il notaio ma anche il risotto è lo spettacolo con cui Capobianco ha recentemente vinto il FringeMi, un anno dopo il titolo di campione mondiale di Poetry Slam, terzo italiano in pochi anni. Procedendo sul confine tra la slam, il monologo e la stand up, pur con passaggi un po’ forzati tipici dell’aggregazione tra materiali diversi, lo spettacolo disegna un’orbita compiuta, dall’infanzia all’età adulta, quel passaggio che può avvenire solo con l’incontro tra il bambino che siamo stati e il bambino che ci ha generato: il genitore che ha tentato di metterci sulla via giusta (ammesso ce ne sia una) e ha fallito perché ha tradito il bambino che era, ché ognuno la sua strada la deve trovare da sé. E quella strada poi misteriosamente ci riconduce sempre all’origine, al primo sentiero. Bisogna solo riconoscerlo, in mezzo alle angosce di una generazione diversa, appesantita dall’illusione di infinite possibilità, condannata a desiderare l’altrove e la casa, il mondo e il nido. Capobianco tiene il palco con generosità, spirito e freschezza, volentieri invade la platea, non indugia mai sul comico, ma usa la sua verve con naturalezza e una certa dolce amarezza. Forse le parole non basteranno mai a cambiare il mondo, ma sono ancora l’unica vera connessione possibile tra le nostre fragilità, ciò che ci rende umani. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro India – Dominio Pubblico Di e con Filippo Capobianco; Musiche e testi di Filippo Capobianco; Costumi e oggetti di scena di Martina Lauretta; Accompagnamento alla scrittura di Gerardo Innarella