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Umberto Orsini, l’ultimo Inquisitore

Recensione. Al Teatro Mercadante di Napoli  Umberto Orsini porta in scena e alla vita il suo Ivan ne Le Memorie di Ivan Karamazov.

Foto Fabrizio Sansoni

Non c’è alcuna vergogna nell’affermare che l’unico interesse nell’andare ad assistere le Memorie di Ivan Karamazov a teatro, fosse vedere lui. Come si muoverà lui, quale sarà la sua voce? Il suo volto giovane e bello, con quei capelli chiarissimi e il sorriso crudele, è stato un’icona nell’immaginario italiano. Anziano, ora, ha qualcosa di mostruoso: i suoi ricordi di vita sono per l’uomo comune pura mitologia. I nomi che a lui si associano si pronunciano con adorazione. Quindici milioni di spettatori, lavoratori e lavoratrici, casalinghe e studenti, operai e cosiddetti professionisti, cittadini di diverse estrazioni, nel ’69, immobili davanti al televisore ad ascoltare le terribili verità del Grande Inquisitore: un prodotto straordinario di un’operazione culturale tra le più straordinarie. Umberto Orsini è diventato l’immagine di un tempo; un’immagine non sempre facile da tollerare. L’elogio così sperticato dell’attore, se non improprio, potrebbe sembrare quantomeno curioso; lo sarebbe se in scena non fosse stato presente tutto ciò che è stato scritto finora. Orsini è Ivan Karamazov, ma anche quell’Ivan Karamazov, quello storico del ’69; Orsini è pure quei quindici milioni di italiani seduti in cucina.Ma ogni minimo feticismo divistico si attenua poco per volta, a luci spente.

Foto di Fabrizio Sansoni

Questo Ivan è un uomo molto piccolo, irrequieto, «incompleto», come lui stesso si definisce. Lui è tutto ciò che è venuto fuori dal tempo trascorso, ancora lì, bloccato in uno spazio indefinito della coscienza a cercare sé stesso. Non più un sorriso cinico gli irradia sul viso la luce inquietante che gli era propria in gioventù. Davanti si stagliano imponenti e terribili i monumenti che hanno segnato la sua esistenza, in un’atmosfera di cupa allucinazione e logorio emotivo ottimamente evocata dal lavoro di Giacomo Andrico. Di quell’indimenticabile tribunale non resta che un mostruoso alto banco degli imputati, laccato di scuro e con ricchi fregi; sul pannello frontale è appeso al contrario un crocifisso: da banco degli imputati a pulpito di una cristianità misteriosa. Ai lati di questo simbolo di potere e oppressione, si aprono vecchi spazi aperti e muri in legno in rovina, consumati dal tempo che sono stati della giovinezza e dell’infanzia (di lato, sufficientemente visibile e poi maneggiata con nostalgia e dolore, c’è una slitta con la vernice scrostata. La mente si lascia immediatamente infiammare dal feticismo, e si pensa a un’altra notissima slitta, quella il cui tenero ricordo tormenta Charles Foster Kane in Quarto potere. Chissà, forse a memoria del mitico e fortuito incontro in treno con Orson Welles).

Foto di Fabrizio Sansoni

Luca Micheletti ha lungamente lavorato alle Memorie insieme a Orsini, con cui ha già condiviso la scena nel 2012 ne La resistibile ascesa di Arturo Ui per la regia di Carlo Longhi, e dimostra una profonda comprensione, per ricchezza e varietà di esperienze da attore, regista e baritono, della materia di un palcoscenico. La sua regia si pone l’obiettivo di accompagnare la figura di Orsini, e la sua storia di uomo e attore, e metterla al centro di una macchina immaginativa: è evidente che questo è un momento puramente teatrale con un attore al centro della scena. Viene costruito uno spazio della finzione, che è dichiaratamente tale, sfruttato in tutte le sue potenzialità. Fumi, botole, tendaggi, suoni, marchingegni fantasiosi; l’irrealtà dello spazio, della forma scenografica, non è legata solo a una proiezione emotiva, ma è effettivamente una scenografia, una cosa finta. Il testo del monologo, inoltre, è un vero testo nato, presentato e declamato come testo di letteratura. Pare ci sia la volontà di stabilire profondità a uno spazio, quello del teatro fatto di lavoro e maestranze, che si presenta proprio nell’aspetto che lo definisce, e che è un tempo reale nella vita di chi lo fa e di chi lo fruisce.

Foto di Fabrizio Sansoni

Tutto è la rimanenza malinconica di quello che è stato, di quel momento collettivo vissuto più di cinquant’anni fa, e anche il momento del percorso di vita e di mestiere di un uomo. Tornano, registrate e accompagnate da fasci di luce gialla come tracce drammatiche, le voci del giovane Orsini, più calda allora, ferma rispetto a quella più graffiante del vecchio, e del magnifico Salvo Randone che fu il memorabile Fëdor Pavlovič. È il momento di sottoporre ancora una volta le verità del vecchio inquisitore di Siviglia, il potente che strappò il Cristo dalle braccia del popolo per condannarlo al rogo, colui che spiegò al figlio di Dio la miserevole natura dell’uomo. Orsini è instancabile, il suo corpo è fatto di sola emozione e di solo teatro: corre, gira su sé stesso, si agita e si inginocchia, urla il proprio tormento, e tira lo spettatore nella voragine di parole che appartengo al principio atroce dell’occidente moderno, ma forse della modernità tutta. Parole che si sono dimenticate o forse perdute, semplici ed essenziali, primitive e permanenti, insopportabili eppure fin troppo familiari. Non esiste capo su cui quelle parole non si abbattono. Non esiste vecchio e nuovo, esiste una vitale ramificazione umanistica. Ivan confessa il disperato e animalesco attaccamento alla vita, nonostante tutto. Lo stesso attaccamento che, si vede distintamente, è del suo interprete in uno slancio incontenibile, e forse pieno di vanità. Vederlo commuoversi a fine spettacolo, sul palco del Mercadante, travolto dagli applausi, è stato l’appagamento di un forte desiderio alimentato da ricordi, non tutti personali. Abbiamo assistito agli ultimi respiri di un’epoca, dell’altra epoca, quella dei quindici milioni di spettatori. Oltre, c’è ancora da costruire.

Valentina V. Mancini

Teatro Mercadante, Napoli- Maggio 2024

LE MEMORIE DI IVAN KARAMAZOV

drammaturgia Umberto Orsini e Luca Micheletti
dal romanzo di Fëdor Dostoevskij
regia Luca Micheletti
con Umberto Orsini
scene Giacomo Andrico
costumi Daniele Gelsi
suono Alessandro Saviozzi
luci Carlo Pediani
produzione Compagnia Umberto Orsini

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