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Il contemporaneo è ancora il futuro

Un viaggio nel festival dedicato alle nuove generazioni diretto da Fabrizio Pallara e programmato dal Teatro di Roma negli spazi di Torlonia e India.

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IL FESTIVAL VETRINA

Esperire un festival nella propria città è una dimensione straniante. Di solito si va per festival in giro per l’Italia, è sempre un moto a luogo, un viaggio, in borghi e/o capoluoghi di provincia. Quando invece il festival è già a Roma, nella Capitale e in una metropoli, cambia la percezione con la quale si fruisce la rassegna, la sua routine e, cosa più interessante, quei luoghi abituati a essere frequentati solitamente da gente conosciuta si innervano di altre facce, professionalità, colleghi e colleghe, compagnie. È accaduto nei cinque giorni di Contemporaneo Futuro, “vetrina” dedicata ai nuovi autori e ai nuovi pubblici a cura di Fabrizio Pallara, e allestita tra il Teatro India e Teatro Torlonia, due luoghi geograficamente agli antipodi e per i quali, quindi, lo sforzo di collegamento è maggiore. Nonostante la distanza tra questi due poli, ridotta coi bus che hanno accompagnato gli e le ospiti della rassegna ai vari appuntamenti facendosi largo nel traffico, in questa quarta edizione inserita nel cartellone del Teatro di Roma (nonostante i problemi cronici del teatro e quelli recentemente legati alle nomine delle nuove direzioni) si è notato subito un cambiamento, proprio della modalità abitativa e fruitiva della dimensione festivaliera: partecipate le giornate di dibattito, piene le sale degli spettacoli, anche di bambini e bambine, energiche e calorose le matinée. Quello della direzione e organizzazione di Contemporaneo Futuro è stato uno sforzo graduale e diluito, finalizzato a uno scopo che sin dall’inizio, improntato proprio nei mesi della pandemia da Covid-19, è stato subito molto chiaro nelle sue finalità, costruito anno dopo anno, sintetizzato e dunque spinto sempre un poco più in là a ogni edizione. Ad oggi Contemporaneo Futuro è l’unica vetrina nazionale di teatro per le nuove generazioni ospitata da un teatro nazionale che speriamo possa essere riconfermata anche nella prossima stagione, la prima firmata dalla nuova direzione del Teatro di Roma. Sarebbe infatti auspicabile che l’impegno profuso finora possa, anzi debba, essere sostenuto per continuare a nutrire uno spazio che – per le tematiche che si prefigge di sondare e per il pubblico a cui è rivolto – è in costante crescita; un nido di idee, un vivo laboratorio in cui i progressi sono impercettibili ma determinanti, e grazie al quale si diventa grandi a piccoli passi.

Foto Il robot e la luce / Kanterstrasse https://www.facebook.com/fabrizio.pallara.1/posts/pfbid02HaBASVyb2URqzan3PXgX8shQHhfCZocJ42Wzqf1oyHoXM7FEEYQqE6VgeJJM1orHl

COSA ABBIAMO VISTO

Di certo, gli spettacoli programmati – e soprattutto i tentativi di sperimentazione e di “messa alla prova” di poetiche non canoniche che possono essere guardate da ragazzi e ragazze senza la cautela di una protezione a priori rispetto determinate tematiche, come il caso di Con la carabina della Compagnia Licia Lanera – rispondono alle domande poste dal festival attraverso la trascendenza della creazione, che travalica il rigore e la prudenza del lògos e giunge laddove la vulnerabilità è sinonimo di apertura e quindi di conoscenza. Ispirato all’immaginario fantascientifico di Asimov, Il robot e la luce di Kanterstrasse si divide in due parti: nella prima, l’allestimento scenico dedicato al ciclo de I robot, manovrato da Monia Baldini e Alessio Martinoli e ripreso in video attraverso piccole telecamere nascoste sul tavolo tra uno scenario e l’altro, meriterebbe maggiore pulizia e precisione: dando le spalle alla platea l’attore e l’attrice spesso coprono la scena nell’organizzare i movimenti di ripresa, e le immagini proiettate includono il simbolo della carica della batteria e/o la data in cui è stato girato il video che risale al 2020, ma spesso cambia creando confusione nel pubblico. Sono riferimenti drammaturgicamente voluti o accidentali? Ed è un peccato non ci sia questa chiarezza visto che la storia dell’amicizia tra la bambina e il robot è narrativamente coinvolgente e ricca di dettagli nella sua rappresentazione scenica: il giardino di fronte la casa della famiglia, le stanze, la cameretta, le ambientazioni del viaggio a New York… Nella seconda parte, la paura della scomparsa del Sole si rappresenta in un viaggio euristico tra visioni video spaziali, avventure siderali in bilico tra ignoto e scoperta, bagliori e ombre che poggiano sulla trama del ciclo de La Fondazione. Il progetto di Kanterstrasse così caleidoscopico e denso di riferimenti letterari, con un impianto scenico da efficientare ancora, forse, ne guadagnerebbe nel ritmo e altresì nella durata se i due racconti venissero separati l’uno dall’altro e non fatti convergere in un unico spettacolo, sia per la specificità tematica che li distingue che per quella scenica.

Foto Carlo Giesa

Di una sensibilità e artigianalità che non ha bisogno di spiegazione alcuna e che ha emozionato al Teatro Torlonia una platea di bambini e bambine in visibilio, è stato invece Petites Histoires Sans Paroles con Brice Coupey e Jean-Luc Ponthieux al contrabbasso, prodotto dalla francese Cie L’Alinéa, con il sostegno dell’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici. Uno spettacolo breve, di neanche cinquanta minuti, con burattini a guanto diviso in tre diversi quadri/momenti: Le sac, Petit Sisyphe e Oedipe. Un entusiasmante diario di formazione in tre parti in cui, nella prima, il mito del lupo cattivo viene rivisitato attraverso un sacco che mangia e imprigiona tre burattini, ognuno con un abito diverso (blu, bianco e rosso); nel secondo, un burattino “Sisifo” è alla prese con la lotta, ineluttabile, con la mano in un’arguta e rocambolesca riflessione sulla dialettica tra manovratore e manovrato che si concretizzerà nella terza e ultima parte quando il burattino, sconvolgendo e ribaltando il teatrino di legno, riuscirà a guadagnare la propria libertà rispetto al burattinaio.

Foto Sofia Abbati

I festival possono e devono prendersi cura anche dei giovani artistɜ, è stato importante ritrovare in questa edizione di Contemporaneo Futuro, Rosso, un lavoro del Gruppo UROR che si era mostrato al pubblico lo scorso anno in un primo studio per poi essere programmato in anteprima a Short Theatre. Ora lo spettacolo mostra i segni della maturità raggiunta grazie al percorso, nella drammaturgia più serrata e nella precisione della messinscena, divenendo così una favola nera sorprendente e suggestiva. Si parte da Cappuccetto Rosso ma si arriva a un piccolo incubo in cui si agitano vibrazioni lynchiane e ribaltamenti di senso. Evelina Rosselli (autrice insieme a Caterina Rossi) interpreta abilmente la giovane protagonista con un pupazzo a cui presta voce e movimento, ma non è la classica Cappuccetto, è una adolescente con abbigliamento street, cappello e bomberino. Nella prima scena la troviamo a giocare con sua madre (trasformista Rebecca Sisti nel vestire i panni di più ruoli) a un macabro role play in cui la genitrice si finge morta e la ragazza si comporta da detective. Ma la narrazione si frantuma disattendendo le aspettative, procedendo per flash, come quello iniziale in cui il lupo cerca di pulirsi le mani insanguinate, oppure la danza finale attorno alla tomba della nonna, momento poetico e surreale. I temi si moltiplicano: la crescita, la maturità, la violenza, l’incontro con l’altro e la sessualità (“non mischiare il tuo odore con quello degli altri” ammonisce la madre); nel viaggio di Cappuccetto riscritto da Rosselli e Rossi si fa strada con evidenza il tema della morte che sembra essere il luogo in cui tutti gli incubi implodono, la vera prova da superare, la nonna non viene uccisa dal lupo, la troviamo su un letto ad affrontare l’inevitabile malattia: accettare la morte vuol dire sconfiggere il lupo che abbiamo dentro.

Foto Vasco Dell’Oro

Anche Lo specchio della regina di Antonio Viganò è frutto di una sorprendente riscrittura che brilla per una poetica leggerezza: Biancaneve è ridotta a icona votiva in un grottesco altarino e i personaggi in carne ed ossa sono la Regina, il suo Specchio e un servo di scena narratore, quest’ultimo darà il via allo spettacolo avvitando una per una tutte le lampadine in proscenio di quella ribalta che dà il nome allo storico gruppo di Bolzano. E a ben guardare questo spettacolo in cui la disabilità degli attori sparisce dietro alle loro abilità professionali si comprende quanto sia stato fondamentale proprio il passaggio al professionismo avvenuto ormai un decennio fa. Lo spettacolo è percorso da ritmi visibili e sotterranei e i tre attori sono strumenti musicali di precisione: Rocco Ventura, elegantissimo, tiene i fili della scena e stupisce con i suoi effetti da rumorista, Jason Mattia De Majo è uno specchio umanissimo, con tenerezza e decisione farà comprendere alla regina quanto sia necessario specchiarsi negli altri anche quando l’immagine che vorremmo dare di noi non è quella che troviamo negli occhi di chi ci guarda. Maria Magdolna Johannes è energia pura quando si infuoca scoprendo lo specchio innamorato di fronte all’altare di Biancaneve, indimenticabile nelle esplosioni vocali – amplificate dal leggero accento tedesco -, nei dialoghi con De Majo che in maniera naturalissima passano dalla parola alle coreografie di Eleonora Chiocchini.

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LO SPAZIO DEL PENSIERO

Due i pomeriggi di studio in cui il festival ha avuto l’occasione di sondare il dibattito: Dress code e Vetrina in allestimento sono i titoli degli incontri condotti da Sergio Lo Gatto. Entrambi i momenti hanno visto la presenza numerosa e su scala nazionale di operatori e operatrici, pedagoghi/ghe, direttori e direttrici, compagnie che, occupandosi di teatro per le nuove generazioni, hanno avuto così la possibilità di confrontarsi su aspetti propri al mestiere ma dei quali, molto difficilmente, si ha l’opportunità di parlarne in maniera condivisa, interrogativa e riflessiva. Nel primo incontro, Dress code, partendo dalla definizione sociologica e antropologica di habitus e da domande vaste e includenti nella loro universalità – cosa sono l’infanzia e l’adolescenza? Al fine di conservare la diversità degli stilemi, e delle età di riferimento, ci sono delle regole e se sì, quali sono? – si è stabilito un perimetro di analisi che potrebbe regolamentare, quindi proteggere (?), una modalità tanto di creazione che di programmazione basata su delle regole che inevitabilmente sono anche economiche, ma in virtù delle quali ci si pone nel rispetto della tradizione, rifuggendo però dalla convenzione. Il confine di riferimento è quindi un limite da superare, da non imbrigliare nell’autocensura ma da rinnovare costantemente grazie al ruolo di formazione e mediazione di coloro che lavorano in questo ambito, per infondere fiducia e ascolto a dei processi plurali non perfettamente sincronici ma che si sviluppano su più piani d’azione e di temporalità e che comprendono delicatezza e mutamento. Temi ripresi e approfonditi anche nel secondo appuntamento, Vetrina in allestimento, in cui il focus si è concentrato proprio sull’evidenza che il teatro non è integrato nei processi educativi e che è quindi sempre necessario rilanciare la relazione tra l’istituzione scuola e il mondo circostante che, quando esiste, è di tipo occasionale e non sistemico. E quando poi il teatro viene inserito in un sistema di mercato, si corre inevitabilmente il rischio di perdere di vista gli obiettivi e il proprio ruolo politico di mediazione: è prioritario vendere gli spettacoli o, piuttosto, formare le persone? Quali strategie bisogna mettere in atto per formare proprio quelle nuove generazioni che domani saranno persone adulte?

Lucia Medri, Andrea Pocosgnich

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3 COMMENTS

  1. Quali domande poneva il Festival?
    Perchè se questo articolo è destinato a chi al Festival non ha partecipato è difficile capire il punto di partenza.
    Poi, francamente, essere contemporanei non significa essere oscur:i “trascendenza della creazione”; rigore ee prudenza del “logos” (perchè non discorso visto che l’articolo è tutto in italiano) “; vulnerabilità giunge sino a dove diviene sinonimo di apertura (verso chi) e conoscenza (di cosa???).
    Mi dispiace ma queste recensioni sono davvero, davvero pessime

  2. E comunque la paura della scomparsa del sole non c’entra nulla con il ciclo della Fondazione essendo il tema di Neanche gli dei…ma Santa Genoveffa un pò di documentazione prima…

  3. Buongiorno Massimiliano, ipotizzando che lei per “quali domande poneva il festival” intenda i temi che la rassegna ha voluto affrontare, riteniamo di averli presentati e indagati tanto nell’incipit che nel paragrafo dedicato, dal titolo “Lo spazio del pensiero” nel quale avrà sicuramente potuto leggere le domande che sono state poste nei due giorni di studio. Lei scrive anche che “essere contemporanei non significa essere oscuri” facendo riferimento “alla trascendenza della creazione”. Ebbene questa espressione non ha nulla di esoterico o enigmatico, si parla di creazione artistica e del suo trascendere l’immanente che va oltre il logos, quindi la ragione, che in quanto elemento razionale è più prudente, per andare a toccare una vulnerabilità, quella dell’infanzia, la quale può diventare strumento di “apertura” e “conoscenza”. Questi ultimi due termini sono usati nella loro accezione più ampia ma, come sottolinea lei, possono certo rivolgersi a un destinatario e, parlando di spettacoli, ci siamo permessi di dare per scontato che questo sia il pubblico. Rispetto all’utilizzo di logos, abbiamo scelto l’uso del termine greco antico perché la traduzione in italiano avrebbe, secondo un nostro modesto parere, indebolito la complessità del significato. Rispetto invece alla “scomparsa del Sole” è uno dei temi affrontati, non certo l’unico, nella seconda parte dello spettacolo di Kanterstrasse che, nelle note di regia, scrivono “Accanto alle opere principali come il ciclo de La Fondazione, o quello de I robot, Asimov ha scritto molta narrativa per ragazzi e moltissimi racconti brevi”, quindi questi temi a cui facciamo riferimento “poggiano” su questi due cicli letterari ma ne comprendono anche altri con ben altre suggestioni. Ci dispiace reputi questo pezzo pessimo, ciononostante crediamo nella legittimità del contraddittorio e quindi del dibattito. Tuttavia, ci teniamo però a sottolineare, come avrà potuto leggere, che lo spazio dedicato alla forma recensione è ristretto solo a un paragrafo e che l’articolo nella sua interezza comprende anche altri formati, scritti da un autore e un’autrice

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