Recensione. Al debutto assoluto al Piccolo Teatro Studio di Milano Liv Ferracchiati con il nuovo spettacolo liberamente ispirato a Il gabbiano di Anton Čechov: Come tremano le cose riflesse nell’acqua, in scena fino al 25 febbraio 2024.
Quando le parole fluttuano nello spazio astratto del buio sembrano imprimere il proprio senso attraverso una sorta di stereofonia, percorrono l’intera area disponibile come fa un gas che si dilata dove può; ma quando emerge una penombra artificiale da salotto via via sempre più forte, la luce allora compone una geometria precisa, tracciando i segni di una confortevole casa borghese che, si suppone da alcuni elementi del paesaggio, si direbbe di campagna. Sullo sfondo, un lago impresso nello schermo di fondale riverbera la propria membrana al cielo, in un confronto di elementi che sembrerà presto essere l’esplicita forma di relazione tra vita e scrittura, tra realtà e poesia. Se ci volasse sopra un gabbiano, da qui, si vedrebbe? C’è un gabbiano – čajka – precisamente Il gabbiano di Čechov, dietro e molto, molto dentro questo nuovo spettacolo di Liv Ferracchiati che ha debuttato in prima assoluta al Piccolo Teatro Studio di Milano. Come tremano le cose riflesse nell’acqua è un manuale di grande teatro europeo, un tributo alla dedizione verso l’arte come atto di profonda indagine interiore che riverbera appena in un tremolio, come succede alle cose quando si indagano nel riflesso, rischiando di dissolversi soltanto con un tocco, magari con uno sguardo troppo diretto: è fragile l’acqua in cui si specchia la vita degli esseri umani.
Quelle parole fluttuanti sono di un giovane scrittore, il Figlio (sorprendente Giovanni Cannata per la qualità di far evolvere il personaggio), che cerca le più giuste per dare vita al proprio testo, cucirlo sul corpo e nella voce della sua Nina (ad un tempo minuta e gigante Petra Valentini), con la quale vive un sodalizio d’arte e d’amore; attorno, dentro questa estate in cui non si ascolta il canto delle cicale, iniziano ad apparire commensali privi di nome proprio, noti solo per il nome comune di ciò che rappresentano, ospiti della casa nei cui lineamenti sono riconoscibili i tratti dei personaggi čechoviani (Nicola Pannelli, Marco Quaglia, Camilla Semina Favro, Cristian Zandonella), riuniti attorno alla Madre (ricca di infinite sfumature Laura Marinoni), un’attrice superba, magniloquente, che giunge in compagnia di un famoso, tronfio Romanziere (Roberto Latini, lapidario), ospite speciale e suo nuovo compagno – e proprio lui, quel che fu Trigorin, sembra essere la chiave di tutto: il Romanziere è l’Altro, l’intruso che fa da doppio vorace al giovane scrittore, è un’apparizione minacciosa ed estranea che si prende la scena come la fagocitante riva fa con la spiaggia, è un uomo marea di cui non si conosce o quasi l’intimità, i suoi silenzi balzano con l’efferatezza dell’aquila sull’innocente gabbiano.
L’intera vicenda orchestrata dallo scrittore russo – intrigante è osservare tra le maglie di questo testo un altro testo che non è più, che vi sta disciolto dentro – vive qui una trasposizione totale al presente: gli oggetti, i riferimenti culturali, così come gli abiti, esprimono una aderenza a un tempo ben definito in cui emerge una figura in trasparenza, quella di David Foster Wallace, lo scrittore tormentato cui si deve la citazione del titolo (tratta dal racconto Caro vecchio neon); dalle parole dello stesso Ferracchiati in un’intervista recente, come il Figlio nell’opera di Čechov il protagonista di Wallace «sceglie di uccidersi perché non riesce a essere sé stesso: ogni volta che si relaziona a qualcuno, attiva una strategia, per ottenere qualcosa, per essere riconosciuto, per piacere», così dunque l’indagine della condizione umana non si ferma alla superficie di quella membrana, al riflesso delle cose, ma va a fondo nell’acqua per concludere, infine, che un fondo alla miseria del gesto inutile anche se il più estremo, alla propria disperata inautenticità, non c’è.
Il tema del rapporto madre-figlio, centrale nell’opera, si declina attraverso un arco che va dall’estrema lontananza alla morbosa prossimità, vi affiora dentro la metafora del lago con una forza poetica vibrante in cui si sovrappongono i due personaggi femminili – Nina e Madre – proprio mentre dall’inerzia al suolo del gabbiano ucciso si leva quella triste umanità che raccoglie la tensione di chi osserva, mentre le parole finalmente prive di schermo sfaldano il nodo doloroso che inabissa la distanza tra Madre e Figlio.
I dialoghi dei personaggi si frammentano e si sovrappongono nei vari ambienti della sala, sembra un po’ che Čechov, qui tradotto con la consulenza di Fausto Malcovati, sia passato attraverso Le invasioni barbariche di Denys Arcand e ne traggono profondo beneficio degli interpreti asciutti, limpidi, capaci di evidenziare questo mescolamento di epoche e piani con estrema brillantezza ma senza rinunciare (il Maestro Zandonella, lo Zio Pannelli, la dolente Vicina Semina Favro e il navigato Dottore Quaglia si muovono con dettagliata accuratezza) a un’acuta profondità. L’estetica della scena (di Giuseppe Stellato) dal primo all’ultimo atto passa dal naturalismo all’estremo minimalismo, esprimendo così una spoliazione catartica che dalla gravida penombra delle lampade vira verso l’accecante assenza, quasi eterea, del bianco. Proprio qui, nello spazio che non è più come non era stato il buio opposto dell’apertura iniziale, l’ultima scena risolve una volta per tutte l’antico dilemma del finale čechoviano, che sembra far parte e allo stesso tempo essere escluso dall’opera, come se fosse un “a parte”, perché i due personaggi sono già oltre il loro dolore, oltre il confine di sopportabilità dell’umano. Sarà dopo, in conclusione, che torneranno i nomi propri indietro da un viaggio nell’assoluto, ma siamo in inverno e solo ora – sì, d’inverno – s’alza finalmente, ma fuori tempo, il frinire delle cicale.
Simone Nebbia
Piccolo Teatro Studio, Milano – fino al 25 febbraio 2024
COME TREMANO LE COSE RIFLESSE NELL’ACQUA
(čajka)
PRIMA ASSOLUTA
drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati
liberamente ispirato a Il gabbiano di Anton Čechov
scene Giuseppe Stellato
costumi Gianluca Sbicca
luci Emiliano Austeri
suoni spallarossa
video Alessandro Papa
consulenza letteraria Fausto Malcovati
con (in ordine alfabetico) Giovanni Cannata, Roberto Latini, Laura Marinoni, Nicola Pannelli, Marco Quaglia, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Cristian Zandonella
dramaturg di scena Piera Mungiguerra
aiuto regia Anna Zanetti
assistente volontaria alla regia Eliana Rotella
assistente ai costumi Rossana Gea Cavallo
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
A parte la bravura innegabile di alcuni attori, il testo della rappresentazione è perlopiù prolisso, la trama poco identificabile, carico di monologhi pieni di affettazione ingiustificata dalle circostanze teatrali. Molti si annoiano, tranne che per brevi frangenti. A discolpa degli attori un testo lungo, pesante e di difficile rappresentazione.