In prima assoluta al Teatro Grassi, il Piccolo di Milano apre il 2024 con Ho paura torero, prima regia del direttore Claudio Longhi da un romanzo di Pedro Lemebel, con protagonista Lino Guanciale. Recensione.
«Lo stile può essere solamente esteriore; l’idea deve essere interiore». Con questa citazione di Arnold Schönberg si apre il volume di “scritti e colloqui scelti” del compositore Luigi Nono (Il Saggiatore, 2019) intitolato La nostalgia del futuro. Sia l’esergo che il titolo (una folgorante risposta di Nono alla domanda “Qual è il tratto principale del suo carattere?”) potrebbero fornire un degno compendio all’esperienza di visione di Ho paura torero, prima regia firmata da Claudio Longhi da quando ha assunto la direzione del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa (2021).
Nella breve nota che introduce la prima edizione (2001), il romanzo di cui lo spettacolo è una fedele messinscena dichiara come fonte «venti pagine scritte alla fine degli anni Ottanta, rimaste a lungo confuse tra ventagli, calze di pizzo e cosmetici che hanno macchiato di rosso la calligrafia romanzesca delle loro parole».
Scrittore, artista visivo, performer e reporter morto a 63 anni nel 2015, Pedro Lemebel è stato un eroe nazionale per gli “ultimi” resistenti cileni, un profeta della cultura queer, un’icona del PopCamp, un narratore che ha fatto del proprio pensiero e del proprio corpo politico il campo aperto per un ragionamento collettivo.
Mentre osserviamo i manifesti d’epoca riprodotti a graffiti sul boccascena del Teatro Grassi, alla base incorniciato da un sistema scaleno di casse di legno praticabili, l’audio dell’ultimo comunicato del presidente Salvador Allende (morto nel giorno del golpe dell’11 settembre 1973 in circostanze mai del tutto chiarite) ci precipita nella Santiago della primavera del 1986, quando il fronte patriottico Manuel Rodríguez prepara l’attentato al dittatore Augusto Pinochet. La misera quotidianità della “Fata dell’angolo” (Lino Guanciale), travestito dal passato duro e dal cuore tenero che si guadagna da vivere ricamando tovaglie, s’infiamma all’incontro col militante Carlos (Francesco Centorame), che insieme a un manipolo di universitari partigiani fa base a casa di lei per organizzare l’agguato, tra traslochi di materiale misterioso, nomi in codice e interminabili riunioni clandestine, scandite dalla radio libera che fomenta la rivoluzione.
In maniera chiara eppure non didascalica, giocando con specchi, travestimenti, pareti scorrevoli, drammaturgia video e malinconiche melodie latinoamericane, la storia di questo amore impossibile diviene metafora della miseria e dell’ardore del popolo cileno e di tutti quelli oppressi dalle libertà negate, in un duello inerme tra madido e rovente slancio romantico e macilenta disillusione.
In questa recente intervista, Antonio Latella si interrogava sulla necessità di scegliere con cura «che cosa far vedere» agli spettatori, che oggi sembrano aumentare di numero. Se, nell’introduzione al volume citato, si racconta il genio di Luigi Nono come «un pensiero compositivo ed estetico multiforme, sempre nutrito di una acuta consapevolezza del proprio momento storico», lo stesso di può dire di questo spettacolo e delle sue motivazioni. È un’operazione che non solo restituisce una brillante coerenza estetica, ma che con intelligenza ricorda l’importanza di costruirvi intorno, pezzo per pezzo a mo’ di corazza, un pensiero politico preciso, una solida struttura di idee e di immaginario a sostenere l’impianto retorico. Ed è ciò che vorremmo chiedere all’agenda di produzione di ogni teatro pubblico.
Struggente e meticoloso è il lavoro di Lino Guanciale, completamente ad agio nel bilanciare con toni gravi l’eterea leggerezza della Fata; giusta e solida spalla il Carlos di Francesco Centorame, maschio indeciso che forse comprendiamo ma che non perdoneremo mai; irresistibili e precisi Mario Pirrello e Arianna Scommegna negli incubi grotteschi della coppia dittatoriale. Attorno ai protagonisti si muove agile il coro delle comparse e dei personaggi di contorno, programmaticamente determinante al volgere degli eventi: Daniele Cavone Felicioni, Michele Dell’Utri, Diana Manea e Giulia Trivero sono presenze magmatiche, una sorta di camaleontico spirito del popolo che lotta strenuamente contro il pugno di ferro dell’oppressione, fascista e patriarcale. Così recitazione e interpretazione dei ruoli diventano strumenti per creare un corpo collettivo che reagisce in tempo reale a un «momento grigio e amaro – ammoniva il comunicato di Allende – in cui il tradimento pretende di imporsi». E questa alzata di capo delle coscienze riverbera nell’articolato programma di attività culturali che regala alla città dieci appuntamenti, da ottobre a febbraio, per riflettere sui conflitti di ieri e di oggi.
Di fronte ai colorati paesaggi virtuali di Riccardo Frati, a sincrono con i “travestimenti musicali” di Davide Fasulo, tre ore si snodano rapide tra i cambi scena risolti in guizzi d’attenzione quieta (Guia Buzzi) e il divertito florilegio, caldo di lane andine, dei costumi di Gianluca Sbicca. Nella dimensione visiva come nel gesto e nel parlato, una sorprendente varietà di registri transita attraverso la leggerezza svampita ed effeminata del kitsch anni Ottanta, il viraggio ocra delle foto analogiche (le luci sono di Max Mugnai) e le citazioni del patinato silver screen da sogno americano. È infatti proprio un cinema (equivoco) a proteggere ed escludere la protagonista dal culmine dell’azione rivoluzionaria, che si compie in sua assenza, come in ogni buona tragedia.
Allora, in questo pulviscolo d’immaginario, insieme estremamente filologico e fieramente sognante, sta il senso di una nostalgia, quella di un Paese (quale dei molti?) tuttora in attesa di un futuro che non ha avuto e che non riesce a presentarsi, offrendo solo un rifugio nel passato di un altro.
Nella trasposizione d’autore di Alejandro Tantanian, manovrata con grande sensibilità da Lino Guanciale anche in veste di dramaturg, il romanzo può alzarsi in piedi e lanciarsi nella propria galoppante e disperata corsa. Il testo, spy story sentimentale rivoltata in un capitombolo tutto teatrale, assesta colpi di amarezza assoluta e lo fa a tradimento, lì dove le parole sembravano offrire un riparo. Ci sorprende con la vena lirica delle descrizioni, avvolta in rapidi e folgoranti spirali di metafora che mostrano il profilo di un paesaggio ora fisico e ora emotivo: dalla Cordigliera che anticipa il buio con la propria ombra, ai merletti raffinati degli stati d’animo; dal sogno lucido di amplessi mancati e confusi dall’ebbrezza alle prime luci dell’alba, all’esplosione in mille pezzi della Storia che ci riguarda così da vicino, chissà più perché.
L’“idea interiore” costruisce il proprio “stile esteriore” su un ritmo serrato ma fluido, sulle traiettorie diagonali delle entrate e delle uscite, sui precisi binari degli elementi di arredo che invadono e abbandonano lo spazio come treni in un’affollatissima stazione brulicante di biografie minute. Ho paura torero è un atto estetico e politico importante nel teatro di oggi, perché non si risolve in una lezione di regia o di interpretazione, piuttosto condivide con lo spettatore gli strumenti minimi per concepire un ordine scenico individuale, il cui pur fulgido rigore sta nell’abbraccio sentito di un gruppo di attrici, attori e risorse di produzione, nella consegna netta e disarmata di uno stato delle cose, quello storico che s’impone e quello narrativo che lo sottende con una sottile declinazione in aneddoto didattico, alla maniera di un Brecht finalmente sentimentale che però non ha perso il proprio cinismo.
C’è spazio per ridere, per emozionarsi, per sognare, per comprendere, per commuoversi, indignarsi, lottare, sperare. E infine desistere. E non è questo, in fondo, lo scatto che compie l’ingranaggio della vita quando, con certa Storia sullo sfondo, si condivide ad altri in forma di racconto? Noi, con la vista e l’intelletto prede di quella “nostalgia di futuro”, pensiamo di sì.
Sergio Lo Gatto
Piccolo Teatro di Milano | Teatro Grassi – gennaio 2024
In scena dall’11 gennaio al 11 febbraio 2024
HO PAURA TORERO
di Pedro Lemebel
traduzione M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi
trasposizione teatrale Alejandro Tantanian
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
visual design Riccardo Frati
travestimenti musicali a cura di Davide Fasulo
dramaturg Lino Guanciale
assistente alla regia Giulia Sangiorgio
con Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame, Michele Dell’Utri, Lino Guanciale, Diana Manea, Mario Pirrello, Arianna Scommegna, Giulia Trivero
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa