In questa seconda parte di viaggio di fine 2023, il nuovo duo di Rizzo, il tema della vecchiaia affrontato da Cosimi, il progetto su Maguy Marin e la MM Dance Company, nonché il debutto baudelairiano di Balletto Civile: tutto sembra piegare la biforcazione non già sull’intrattenimento, ma proprio di nuovo sulla centralità dell’umano.
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La critica è un atto di reciprocità, come insegna l’americana decana della critica di danza Marcia B. Siegel. E implica una pratica, direi giornaliera, comunque mai occasionale, ossia quella dell’osservare. Molt* collegh* si deliziano della natura presupposta effimera della performance di danza. Si dispensano così di presenza. Scrivere su ciò che si è visto, invece, forse è (fra le tante possibili) la più vera conclusione della consegna dell’idea (di ciò che lavora in essa, del contesto che la esige, degli immaginarî che la rendono necessaria) al pubblico. Ma esige presenza, e non ammette ritardi. Dunque puntuale ho ripreso il mio viaggio inseguendo il debutto di Erwartung.
È un intenso ‘assolo’ ma nei corpi di due interpreti, sul tema dell’attesa come esperienza generativa di malinconia. Una malinconia capace di resistenza non solo al tempo che opprime ma di offerta consapevole al tempo che redime. Senza alcun ricatto emotivo, è il nuovo «doppio al femminile» di Cristina Kristal Rizzo realizzato per/con la giovane danzatrice Giulia Cannas, a Cagliari. L’intelligente commissione è di Fuori Margine, Centro di Produzione di Danza e Arti Performative della Sardegna, che ha messo a disposizione tempi creativi lunghi, nel tempo progressivi e alla fine produttivi. Di cosa? Si tratta di uno straordinario e riuscito incontro intergenerazionale che al centro ha la danza e le sue pratiche come un sapere politico. Due donne che portano in scena un intero immaginario relazionale capace di sfumare attraverso i rivoli più impervi le rispettive differenze, e patrocinare così una intesa in un tempo tutto nuovo, ossia nello spazio limite dell’attesa. Sono in due ma sono complementari: Cannas divora lo spazio, ripreso (e moltiplicato) anche da una videocamera, e vi si contrappone in piena consapevolezza anche critica, letteralmente sputando sullo strumento che riproduce l’immagine in diretta che la vorrebbe fissata e pronta al consumo.
Rizzo invece sembra farsi carico di tutta la parte ctonia di questa doppia presenza, e quasi deambula nel suo nero profondo per affrancare il soggetto ferito (e represso da norme e pregiudizî) dal temperamento che lo assedia. Lo spazio tutto bianco, bellissimo, messo a disposizione da Sa Manifattura, è completato da una soffittatura altrettanto bianca, un po’ sanatorio e un po’ spazio di decompressione, voluta da Gianni Straropoli che qui dà il suo meglio: elabora interventi di luci di impareggiabile raffinatezza emotiva. Davvero tanta abilità introspettiva della coreografia, capace di evolvere i corpi dalle catene della tristezza in una attesa di prossimità che non è mai-ma-proprio-mai interpretazione, esegesi o commento, ha a che fare soltanto con l’umanità ritrovata fattasi evento. Per chi dovesse chiedersi che cosa poi può la danza…
A Roma, invece, ho raggiunto Enzo Cosimi e la sua riflessione sul tema della vecchiaia (della fine, del confine della vita) con The Play Garden, azione installativa «per persone over 65, di natura partecipativa», allo Spazio Rossellini. Cominciando però da Pasolini (è la voce del coreografo a scandirlo, in avvio): «Oh generazione sfortunata!» che ti pretendi «fuori dal gioco» per non sporcarti le mani «con la poesia della tradizione», dunque con quel tempo della vita che non ammette ingiustizie, restando con «lacrime senza vita» incapaci di piangere ciò che «non avendo avuto non hai neanche perduto». La performance indaga l’aperto della socialità nello spazio pubblico, oramai sparita, e la memoria dei giochi, dei canti, delle filastrocche ancóra sedimentate in questi corpi over, capaci di ombre inattese e di sorprese rivelatrici: sulla morte così come già sulla vita, converge l’imperscrutabile forza generatrice dell’umano.
Mica male. Una tale forza è stata indagata, per altre vie, anche in chiusura del progetto Maguy Marin. La passione dei possibili ideato dal Reggio Parma Festival. Al Regio di Parma (nientemeno!) sono finalmente riuscito a vedere la ripresa di Umwelt (creato nel 2004), lavoro in cui «un dispositivo di pannelli e specchi scandisce la vita di nove interpreti». Cos’è l’ambiente, l’atmosfera, l’idaho cui allude il titolo? In Umwelt non è il vento che soffia sparato da potenti ventilatori. Non sono i materiali tra i più varî che si accumulano a proscenio. Non è il noise che proviene dallo scorrere incessante di un filo su due chitarre elettriche adagiate a terra. No, è l’interruzione, la spezzatura, il frammento, la scheggia veloce, il tempo imprendibile a dirci che la vita così è solo rottame. Tanta organizzazione della temporalità (gli ingressi e le uscite continue dei performer sono una partitura superordinata) è una forma della degradazione dell’umano, alienato a se stesso e ai suoi simili. È una delle forme del caos contemporaneo che ancóra ci assale, incapaci di risposta. Di nuovo, mica male.
Al Teatro Ariosto di Reggio Emilia, invece, per la conclusione del progetto, ho assistito alla ripresa nel repertorio della MM Contemporary Dance Company diretta da Michele Merola, di due lavori di Marin: Duo d’Eden (1986, rimontato da Cathy Polo e Ennio Sammarco) e Grosse Fugue (2001, rimontato da Dorothée Delabie). Il primo è una lunga presa con avvinghio di una coppia, Adamo ed Eva (Emiliana Campo e Nicola Stasi), che nel movimento rivendica primordialità e innocenza, (poco) eros e (molta) inquietudine, all’insegna di una fusione anche perturbata e difficile ma, se reale, capace di unità. (Self-awareness di metà anni 80.) Il secondo (in anteprima, perché debutterà il 16 luglio a Bolzano Danza) è un piccolo capolavoro dell’incontro tra danza e musica: quattro bravissime interpreti rosso vestite (Emiliana Campo, Matilde Gherardi, Fabiana Lonardo e Alice Ruspaggiari: davvero, non sai chi guardare, chi seguire) danzano in piena continuità (e intimità) sulla nota partitura di Beethoven (Die Grosse Fugue op. 133) eseguita live dai Solisti dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento. Sono 20 minuti di ben studiata «frenesia», in cui spazio e gesto diventano materia di una lotta di resistenza affermativa, identitaria e generazionale, contro la «vertigine della fine», la pulsione di morte, la vita offesa (Self-claiming di fine secolo scorso.)
Sulla via di casa, infine, mi sono fermato a Bologna, per l’ultima replica di Les fleurs. Atto performativo per corpi reali, nuovo lavoro di Michela Lucenti per Balletto Civile. E ben me ne incolse perché è lavoro bellissimo e imperdibile: racconta tutta l’attualità di Baudelaire in questo nostro «autunno dei pensieri». A me è parso un lavoro di fattura antica, senz’altro di matrice brechtiana (mi ha ricordato Nella giungla delle città di Gigi Dall’Aglio, e sarebbe un grande omaggio), ma con una salda sperimentazione in un recitar-danzando che è propria di questa compagnia (e gli assoli si sprecano, mirabili: cito solo quello di Emanuela Serra). Con le liriche di Baudelaire, il lavoro di drammaturgia scritta e fisica è intensificato dal lavoro di ognuno, e il gruppo sembra qui perfettamente a suo agio. Ci sono posti e momenti per tutti, durante i nove temi cardine, di volta in volta segnati a freddo su di una lavagna: il poeta, la bellezza, il tempo, la noia, l’esilio, la rivolta, la ferita, la città, e pure la poesia. Si viene a comporre allora un vero e proprio lemmario coreopoetico, in forte rottura nei confronti dell’ottimismo della gioia neoliberale di oggi (ma ieri per Baudelaire era l’ottimismo romantico alla Hugo). Balletto Civile usa e violenta il mondo poetico di Baudelaire per parlare di riscatto sotto un cielo vuoto, per esplorare una società collassata e disgregata, per invocare un nuovo consorzio umano che ha perso il valore e il rispetto perché incapace di fare i conti con il peso del Male. Perché l’umanità non può essere riscattata dalla merce.
Ecco che cosa può la danza, nell’epoca di tanto fumo e senza grazia che esige intrattenimento. «Mi considero», scriveva di sé Siegel, «capace di demistificare e di validare, a volte interpretare, mai giudicare»; del resto, già basta il monito di Maguy Marin, durante un recente incontro: «noi artisti siamo già il primo pubblico del nostro lavoro, e di noi stessi».
Stefano Tomassini