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Femina di Abbondanza/Bertoni. O della trascendenza impossibile

Alla vigilia della cerimonia di consegna dei Premi Ubu, abbiamo visto, a Narni, Femina di Abbondanza/Bertoni, candidato come Migliore spettacolo di danza 2023. Le prossime date lo porteranno a maggio sui palcoscenici di Roma e di Torino.

Foto Tobia Abbondanza

In italiano i domìni del «disumano» e dell’«inumano» appaiono distinti: connotato in termini morali il primo, categoria ontologica del «pratico-inerte» il secondo. In francese, invece, la divaricazione si scioglie attraverso l’adozione di un unico lemma, «inhumain». A pervadere il pensiero coreografico di Femina, l’ultimo lavoro di Abbondanza/Bertoni, sembra essere il tema della reificazione, intesa alla maniera di Jean-Paul Sartre: deformazione ma anche atto di riconoscimento che tutti operiamo l’uno nei confronti dell’altra, e dunque fondamento non eliminabile di intersoggettività.

La scena si lascia percepire come una struttura convessa, essenziale e chiara. Il biancore freddo del fondale è percorso appena dalla geometria sottile delle linee che segnano i punti di contatto di altrettanti pannelli verticali. Gli ingressi, una a una, delle quattro interpreti avvengono in una luce piena, quasi vitrea, che delinea, contro il bianco, i loro profili, il roseo della biancheria delicata che indossano e la brillantezza acrilica delle parrucche bionde, che rimandano al caschetto di Raffaella Carrà ma ancora di più all’artificiale bellezza punk di Pris, la replicante interpretata da Daryl Hannah in Blade Runner (1982).

Foto Tobia Abbondanza

Le danzatrici (Sara Cavalieri, Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas, Ludovica Messina Poerio) evocano l’applauso del pubblico, lo inducono attraverso l’esempio, poi le luci si ritirano a poco a poco, e il suono si spegne: il sentimento è quello di una sinistra convocazione, di un addensamento, sul palco, dei battiti e delle ombre che prima si aggiravano in platea. Si tratta di una prima de-significazione del gesto, sottratto alla sua funzione di festa e di consenso, che prelude alla progressiva de-significazione del corpo (dei corpi) che si consumerà nell’ora successiva. Immerse nei suoni sintetici e implacabili dell’album Dysnomia di Dawn of Midi, le interpreti sono impegnate in un movimento continuo, che non conosce tempi di ripresa, a volte sincronizzato, a volte in leggera sfasatura. I gesti suggeriscono un senso di semi-intercambiabilità che le fa somigliare ora ai meccanismi di un ingranaggio, ora a creature possedute da una tribalità epilettica, ora a inquietanti mimi di una femminilità esposta e cristallizzata. In alcuni passaggi, la qualità corporale della loro vicinanza richiama quella, quasi mostruosa, di un gruppo scultoreo, eppure a essere determinante è una totale assenza di tensione. Quando una di loro sembra rompere l’unità, muovendo una breve direttrice di assolo (o un’azione individuale, o un cedimento), il movimento delle altre tre tende sempre, dopo poco, a riassorbirla, come a dimostrare che quella deviazione era già inscritta nel disegno, già contemplata nella geometria del tutto e che, dunque, ogni trascendenza è impossibile. In questa logica, le cadute plastiche appaiono una scoperta variazione sul tema dell’assenza di enfasi, o sulla riproducibilità tecnica dell’enfasi, suggerendo la composizione centrale di un grande vuoto, inteso non come abisso, ma come modalità di gioco, come ambiente energetico che fa i conti con la destituzione della propria aura. Il pubblico è chiamato a elaborare, per gradi, la consapevolezza che le danzatrici – protese, richiedenti ma assorte e irraggiungibili – operano in un regime di puro segno, purificato persino dall’accento sulla propria assolutezza. 

Foto Tobia Abbondanza

La sensazione che aleggia in platea è quella di osservare il segmento di qualcosa che si sta svolgendo, che si deve svolgere, con ingegneria coreografica rigorosa, a prescindere da noi, anche (e sempre) in nostra assenza, senza offrirci mai il sollievo e la catarsi dell’umano. E se l’occhio e il pensiero si illudono di rintracciare, nella gestualità straniante e martirizzata, guizzi di soccorso, di alleanza, di orgoglio o persino di dolore, il tentativo ricade sempre nella cognizione di trovarsi di fronte alla superficie impenetrabile di istanze eternamente mimate. Gli strumenti di cui disponiamo, come specie, per avvicinare il perturbante sono la sua decodifica, l’esercizio di risalita (o di discesa) fino alle sue origini e il tentativo di rovesciarlo. La distopia ci si rende comprensibile non solo e non tanto in termini di antitesi a un’utopia, ma soprattutto in termini di infrazione di qualcosa che consideriamo familiare e acquisito. Di qui il sentimento dell’insubordinazione, della lotta, fuoco narrativo di una saga sul femminile come The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood, ma anche della philosophical science fiction di cui Blade runner è un manifesto. Nello spaziotempo di Abbondanza/Bertoni si è compiuta una mutazione di specie.

Foto Tobia Abbondanza

Ogni traccia di ribellione è estinta, quasi che, per queste giovani donne, la meccanica della coercizione emanasse da loro stesse e dunque, smarrendone l’origine e la possibilità di redenzione (e, di fatto, l’inquadramento etico), si smarrisse anche la possibilità stessa di intendere ciò che vediamo come una forma coercitiva. Qualcosa di dolente, di esangue, un sentore di collera opaca sembra affiorare sulle battute finali di un lungo quadro consacrato alla svestizione, ma forse è un miraggio, un’entità intravista, che si situa soltanto nel nostro bisogno di astanti, nell’incapacità del nostro sguardo di sostenere la lunga assenza di appigli emotivi. Sul finale la scena viene trafitta da un ultrasuono e da un profondo taglio verticale al centro del fondale, a significare, forse, sulla scorta di Lucio Fontana, il concetto spaziale di un’attesa, ma anche una slabbratura erotica e, finalmente, la possibilità di fendere, seppure solo materialmente, questo ambiente inalterabile.

Ilaria Rossini

Teatro Giuseppe Manini, Narni – dicembre 2023.

FEMINA
di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni
coreografia Antonella Bertoni
con Sara Cavalieri, Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas, Ludovica Messina Poerio
disegno luci Andrea Gentili
direzione tecnica Claudio Modugno
musiche Dysnomia – Dawn ff Midi
audio editing Orlando Cainelli
organizzazione, strategia e sviluppo Dalia Macii
amministrazione e coordinamento Francesca Leonelli
comunicazione e ufficio stampa Francesca Venezia
produzione Compagnia Abbondanza/Bertoni
con il sostegno di MiC – Ministero della Cultura, Provincia Autonoma di Trento, Comune di Rovereto, Fondazione Cassa di Risparmio Trento e Rovereto 
si ringraziano Danio Manfredini, Marco Dalpane, Lucio Diana, Nadezhda Simenova

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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