La tensione generazionale, l’eterna rivalità tra i giovani e i vecchi, segnata nel nostro paese da un’ostinata vittoria di questi ultimi, il soffocamento a cui le giovani generazioni sono sottoposte, non è ormai onnipresente nel dibattito sociale e politico? I giovani, come capitani a cui hanno dato stelline e diplomi sono costretti ad aspettare sottocoperta finché il vecchio comandante non molli il timone.
Questo tema, abbondantemente presente in tutto Shakespeare, non solo è il cuore del Re Lear del Bardo, ma è anche la spinta primaria che fa muovere gli attori diretti da Antonio Latella nel suo Lear.
Parlo naturalmente del debutto andato in scena al Teatro India ieri sera (28 settembre), spettacolo che ha inaugurato la stagione del Teatro di Roma. E ci voleva il regista partenopeo, con la coproduzione del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, per farci dimenticare (per meno di due ore) la situazione che il teatro stabile capitolino sta vivendo, ancora senza direttore artistico.
Mai invece avrei detto che prima o poi mi sarei trovato a parlare in questi termini di uno spettacolo con Giorgio Albertazzi, mai avrei pensato di riuscire a far incontrare il mio universo con il suo e forse invece bastava attendere la mediazione di uno come Latella. Se a detta di molti il miglior Totò lo abbiamo visto nei film di Pasolini, ecco allora mi si permetta il paragone con questi due protagonisti della scena, non faticate però a trovarci similitudini estetiche o qualitative, prendetela solo come un’intuizione banalmente esplicativa.
Il direttore del Nuovo Teatro non chiede al grande mattatore di fingere, non gli chiede di indossare nessun abito regale o corona, ma “solamente” di essere se stesso, cucendogli addosso i panni del celebre personaggio, tradotto qui da Ken Ponzio. Tutto il resto viene da sé, ecco perché l’escamotage, nulla di nuovo per carità, di mettere in scena la creazione dello spettacolo da parte della compagnia partendo addirittura dalla classica lettura a tavolino, è la logica conseguenza di questo disegno.
E di nessun orpello o effetto speciale si fregia la scena, vuota da far rimbombare alcuni toni della voce fino al muro di fondo della sala ricavata nella struttura dell’ex-Miralanza, ma d’altronde ad Albertazzi e i suoi basta un tavolo di legno grezzo, delle sedie e dei copioni. L’ottantasettenne attore toscano è al centro e quando gli viene portato il copione inizia la lettura, in modo semplice, quasi banale per un occhio distratto. Shakespeare inizia a saltellare di bocca in bocca e da subito si capisce la difficoltà insita nell’impresa a cui Latella ambisce, ovvero creare un equilibrio tra la finzione della prima lettura e l’interpretazione appassionata. I giovani sono lì che mordono il freno, quasi incapaci di resistere ai propri personaggi che prendono loro il sopravvento fin quando lui, il capocomico, ristabilisce l’ordine, ma i due mondi vanno sempre di più a compenetrarsi e lo scarto che si crea tra il Re shakespeariano e le sue figlie è quella stessa tensione presente tra l’Albertazzi maestro e le giovani attrici. Il confine è labile e la maestria del regista sta nella capacità non solo di portare alle estreme conseguenze il vecchio gioco del teatro nel teatro, ma anche di lasciare continuamente intendere che tutto è finzione, anche l’azione stessa del provare Shakespeare e lo fa con quei mezzi di straniamento sempre presenti nella sua scrittura scenica (musiche extradiegetiche, cartelli con parti del testo, microfoni ad amplificare e distorcere suoni e rumori).
Ecco allora che le dinamiche tra i personaggi trovano un’espressione viva e chiara agli occhi dello spettatore senza quasi mai concedersi al lirismo o al pathos. E quando verso il finale la ricerca dell’emozione indotta rompe gli argini e deborda sul palco lo fa entrando da una via secondaria: Shakespeare va in secondo piano e la lente d’ingrandimento viene puntata sul vecchio mattatore ed è lui stesso a ripetere “Chi sono io? Io non sono Re Lear, io sono Giorgio Albertazzi”. Con un’operazione rischiosissima Latella crea uno spettacolo testamento dove nel finale non c’è più Lear ma uno stanco attore che si fa da parte (dopo aver citato Schopenhauer e tirato le orecchie ai detrattori del teatro di parola) lasciando gli attori senza finale, dicendo loro “Finitela voi la storia, io non voglio morire stasera”. Ma paradossalmente, con un cortocircuito emotivo al quale però purtroppo non possiamo credere, l’uscita di scena equivale al riempimento della stessa con la sua presenza. E gli attori in questo finale strappalacrime sono in piedi aggrappati al legni che componevano il tavolo di lavoro, e che tra poco verranno disposti in terra come un sacro altare su cui poggiare il copione del maestro, ma sembra che sui loro volti si sia dipinta non la tristezza per l’abbandono, ma per un improvviso trapasso. Ebbene questo giocare in bilico con la morte di Lear tralasciata dalla drammaturgia, ma presente in scena nei suoi effetti indiretti sugli attori e nell’atmosfera tutta che riempie la sala (con la platea che di lì a poco travolgerà i protagonisti di applausi), è un gioco azzardatissimo e potrebbe sembrare (proprio per i registri emozionali utilizzati) un tentativo di celebrazione prima ancora che la morte reale consacri il mito del popolare mattatore
Andrea Pocosgnich
visto il 28 settembre 2010 – Prima nazionale
Teatro india (vai al programma 2010/2011 del Teatro India)
in scena fino al 17 ottobre
Prossime date:
22 -27 ottobre Teatro Nuovo – Napoli
Lear
da William Shakespeare
traduzione e adattamento Ken Ponzio, Antonio Latella
regia Antonio Latella
con Giorgio Albertazzi, Silvia Ajelli, Evita Ciri, Giuseppe Lanino, Angelo Montella, Annibale Pavone, Rosario Tedesco, Elisabetta Valgoi
scene e costumi Fabio Sonnino
realizzazione costumi Cinzia Virguti
realizzazione scena Marco Di Napoli
assistente alla regia Alessandra Limentani
regista assistente Tommaso Tuzzoli
produzione Teatro di Roma, Nuovo Teatro Nuovo