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La città in cui cammina il teatro. Da Cagliari un reportage

Un reportage da Cagliari in cui raccontiamo l’esperienza de La città che cammina, ultima opera sul paesaggio creata da Dom- e prodotta da Sardegna Teatro.

Foto Laura Farneti

Molti viaggi cominciano dalle stazioni, gli snodi principali per conoscere una città partendo dal suo interno; le stazioni sono le interiora di una città, non il cuore o il cervello, ma le budella. Quelle nuove, che rientrano nella categoria dei non-luoghi di Marc Augé, sono progettate sempre di più come grandi centri commerciali in cui il viaggio è un passaggio tra un negozio e l’altro. A Cagliari l’architettura voluta dalla compagnia Compagnia Reale delle Ferrovie Sarde, un secolo e mezzo fa, convive con gli interni moderni impersonali. Poco dopo l’entrata principale c’è una sala d’attesa che è una specie di cubo a vetri: è da qui che comincia il nostro viaggio. Siamo un gruppo di persone, non arriviamo a raddoppiare la decina, prendiamo posto nella sala d’attesa, un prologo in voce off ci introduce all’esperienza; tra la nebbia – possiamo guardare oltre il vetro – gli altri ci guardano: siamo noi o loro lo spettacolo? Dom-, la compagnia formata da Leonardo Delogu e Valerio Sirna che da quasi dieci anni riflette sulla creazione artistica intesa come creazione drammaturgica nel e sul paesaggio, a Cagliari ha radicalizzato un profondo approccio – durato anni, se si considera la prima esperienza del 2017 – sulla città, i suoi terrain vagues, le comunità che la abitano, i residui urbani che compaiono. Città che cammina è un’ultima fase, a seguito – cronologico ma anche logico – di quella bolognese che vedeva protagonista Porpora Marcasciano e le precedenti basate sul ciclo dell’Uomo che cammina;  nel capoluogo sardo Delogu e Sirna si liberano anche dell’entità singola da seguire, perché l’idea qui è di far parlare il paesaggio attraverso una molteplicità di figure, non soltanto umane. Non siamo dentro un teatro, siamo tra le strade della città, uscendo dalla stazione fendiamo le vie dello shopping e basta poco per far tornare alla mente quella sensazione provata in altre esperienze con i Dom-, una sorta di esplosione esponenziale della capacità percettiva: si tratta di un’attenzione verso ciò che ci circonda che non è solo quella di chi cammina – cittadino o turista che sia – ma è la percezione esplosa di chi assiste, come in un’allerta pronta ad accogliere i segnali della scrittura scenica. Saliamo lungo le vie delle grandi marche, per gli altri siamo noi la rappresentazione, siamo il bug nel sistema: non abbiamo lavori da rincorrere, compere da fare, non abbiamo un passo utilitaristico, ma dobbiamo seguire una persona, una guida. Anche se non siamo in un teatro la macchina produttiva è quella teatrale, anzi questo spettacolo potrebbe essere il manifesto simbolico di qualcosa che in Italia esiste come istituzione ma che qui a Cagliari ha preso una forma nuova: il Tric della Sardegna. Il teatro di rilevante interesse culturale diretto da Massimo Mancini da qualche tempo ha infatti lasciato la propria sede storica del Teatro Massimo (a causa di un bando capestro indetto dall’amministrazione cittadina), ha rafforzato la gestione del Teatro Eliseo di Nuoro, soprattutto ha continuato a lavorare, in maniera ancora più radicale, su un modello fluido destabilizzato, in cui è poco visibile un centro fisico ma è ben visibile uno spazio di forze e relazioni in cui far germinare idee rischiose. Così, oltre alle grandi produzioni (Rezza Mastrella, Lucia Calamaro e Alessandro Serra, tra gli altri) o l’attenzione per i giovani del palcoscenico, Sardegna Teatro si ritaglia uno spazio tutt’altro che marginale per i progetti cosiddetti ibridi, attraverso i quali tentare di espandere l’idea di teatro, di premere sui confini per spostarli lentamente.

Foto Laura Farneti

Nel caso di questa nuova creazione di Dom-, La città che cammina, i confini non sono solo formali, ma sono anche fisici, materiali; non ci sono sipari da chiudere, tecnici nel retropalco, maschere che accompagnano il pubblico ai posti di platea.

E d’altronde un piccolo rischio ce lo prendiamo anche noi, piccolo gruppo di spettatrici e spettatori pronti a camminare per circa quattro ore; i più zelanti hanno seguito le istruzioni dell’organizzazione: una dose abbondante di acqua, scarpe comode pronte a farsi strada nei percorsi più duri come in quelli fangosi e l’antizanzare pronto all’uso. Non c’è una storia da seguire, anche se alcuni testi che ascolteremo avranno il compito di tracciare, insieme al paesaggio, una sorta di ambientazione poetica e narrativa in cui lentamente noi spettatori e spettatrici assumeremo il ruolo non solo di osservatori ma anche quello di ultimi esploratori in un mondo post catastrofico.

Foto Laura Farneti

In piazza Yenne c’è un’edicola chiusa con la vecchia insegna dell’Unione Sarda, mentre attraversiamo la strada torna una musica che già sentivamo qualche centinaio di metri prima, I will survive, non era un caso: registriamo forse la prima evidenza di scrittura del paesaggio da quando abbiamo lasciato la stazione. Seguiamo una donna che ora si ferma a cogliere un fiore, passiamo sotto ad alcune finestre dalle quali prorompe ad alto volume un telegiornale, intanto suona una chitarra con un pezzo di Bennato che ritroveremo all’uscita della chiesa di Sant’Agostino. Le anime della città si intrecciano, arriviamo di fronte a La perla disco club, una ragazza con tacchi altissimi ha la pelle colorata di blu: eccolo di nuovo il teatro, lo strappo nella realtà in cui si inserisce un elemento di scrittura per rappresentare un frammento di vita notturna. Non abbiamo il tempo di osservare, ma solo di guardare, proseguiamo fino ad entrare in una galleria (MeM – Mediateca del Mediterrane), qui torna il tema del sonno, qualcuno dorme su delle panchine come era già successo a Piazza Yenne, un ragazzo con baffi e capelli lunghi parla al telefono, mi attraversa un pensiero: lo riconosco in quanto personaggio solo perché so che è un performer, è la prima volta che compare esplicitamente, il suo lavoro è in fin dei conti piccolissimo, questa sua telefonata è come una delicata operazione artigianale sulla realtà esistente, un’aggiunta mimetizzata eppure importante.

Foto Laura Farneti

Nelle grandi città ci sono luoghi nascosti, di risulta, luoghi dell’abbandono, eterne promesse di bonifica e recupero, talvolta recintati perché spazi privati o perché luoghi pubblici dichiarati pericolosi: altro obiettivo silenzioso di Dom- è quello di entrare negli spazi confinati; talvolta non c’è neanche bisogno di sollevare una recinzione, basta lasciare il percorso stradale. Dopo una salita ci ritroviamo di fronte al Canyon di Tuvixeddu, il sentiero attraversa il verde, la donna che stavamo seguendo si ferma di fronte a un cespuglio, si gira verso di noi tradendo uno sguardo triste nei tratti del Sud-Est asiatico e poi sparisce dentro al cespuglio – la realtà subisce una torsione, dobbiamo resistere per non seguirla nella tana del bianconiglio -, un attimo dopo da quel cespuglio uscirà un cane, la nostra nuova guida.  Valerio Sirna ci segue con il solito zaino-altoparlante, è il momento dell’ascolto «Abbiamo perso il mondo./ Non un mondo qualsiasi ma quello in cui credevamo di orientarci. Può darsi che credere in questo mondo, in questa vita, sia diventata la nostra impresa più difficile, o la più insensata.»

I testi di Sirna – affidati alle voci di Maria Grazia Sughi (raca e anziana) e Alberto Massazza (stentorea e profonda) – compongono una cornice poetica pronta a manifestarsi in alcuni precisi punti del percorso: mentre attraversiamo il Canyon, tra due pareti di rocce, una domanda risuona in questa voce che ci accompagna, «Il mondo sta finendo? […] Oppure è già finito?». Arriviamo nel punto più alto, il colle di Tivumanno, possiamo vedere tutta la città: siamo circondati da spazzatura, come i resti di altre vite. Siamo i sopravvissuti? Una canzone francese segna il momento con un senso di commovente nostalgia: cantano i Noir Désir, Le Vent Nous Portera. Ora la nostra guida è una donna con una borsa e un giubbotto verde, la seguiamo fin dentro il cortile dell’ospedale Santissima Trinità: come in un suggestivo campo lungo cinematografico la vediamo parlare con un dottore, possiamo solo immaginare una trama fatta di dolore e malattia, ma anche di sopravvivenza.

Foto Laura Farneti

Il ritorno alla città con il suo traffico è una sveglia prima di ritornare in un luogo silenzioso: il mercato del pesce, vuoto. Sui banchi non c’è nulla, il tema della fine del mondo è un basso continuo che ci accompagna in un viaggio che attraverserà ancora quartieri periferici, una piazza con un gruppo di ballo latino americano, poi il non-luogo per eccellenza: il centro commerciale dove seguiremo una coppia di clienti festeggiati come i milionesimi; attraversiamo il grande supermercato mentre un paio di strani ceffi con maschere da mostri portano via del cibo senza pagare. Il lavoro di Delogu e Sirna utilizza un ampio spettro di possibilità: dalla piccola increspatura della realtà fino alla messinscena esplicita come nel caso di questa spesa proletaria un po’ punk.

Foto Laura Farneti

L’ultimo atto è il ritorno alla natura, nella quale però il segno dell’uomo è sempre ben presente e quasi sempre una ferita che lascia vecchi resti: arriviamo allo stagno di Cagliari, detto anche Stagno di Santa Gilla, camminiamo tra pozzanghere, arbusti e zanzare che non ci risparmiano, intanto il sole è definitivamente sceso, forse la narrazione ci chiede di fuggire, arriva una barca che ci porta su un’altra sponda. L’uomo che seguivamo fino a questo momento si ferma, entra in una tuta e comincia a camminare in acqua fino a un isolotto dove c’è una piccola struttura, una casetta. Ce ne andiamo dopo aver visto brillare una piccola luce portata lì dall’uomo. L’uscita dallo stagno ci farà ritrovare in uno slargo cittadino, qui la donna filippina che ci accompagnava qualche ora prima è la regina di una festa, lei canta e gli altri performer ci offrono un bicchiere di birra, qualche spettatore balla, ci si rilassa dopo la lunga camminata. Dom- ha utilizzato i tanti paesaggi di questa città stratificata per parlarci della fine; mentre il pullman ci riporta alla stazione per applaudire questo formidabile e generoso gruppo di artisti torna in mente un dialogo tra l’uomo e il cane, quest’ultimo affermava: «Vedi le rovine di questo mondo: la furia del tempo non ci lascia indifferenti. Quelli che chiami fantasmi non sono altro che occasioni perse, frizioni, scelte rimandate. Si preferisce sbaraccare, demolire, scacciare, piuttosto che sforzarsi di trovare nuovi patti di alleanza. Ma la rabbia degli oppressi ronza, e potrebbe sempre farsi sciame». Come mettere fine alla fine? Senza dirlo esplicitamente Dom- affronta alcuni tra i temi più importanti del nostro presente – il rapporto malato con la natura, la fine dell’antropocene, il bisogno di creare comunità nella giungla appuntita del capitalismo – e con maestria e delicatezza li instilla in un’esperienza attiva e collettiva.

Andrea Pocosgnich

Novembre 2023, Cagliari

La città che cammina

Progetto a cura di DOM-
ideazione, drammaturgia spaziale e regia Leonardo Delogu, Valerio Sirna
con Badhie Boongaling, Dorian Gray, Alberto Massazza, Sylvia Messina, Sofia Naglieri, Patrizia Piras, Antonio Pretta
e con Violetta Cottini, Filippo Gonnella, Carlotta Sofia Grassi, Sara Saccotelli, Marco Tè
con le voci di_ Maria Grazia Sughi, Alberto Massazza
Fonti per la composizione dei testi_ John Berger, Ursula K. Le Guin, Marco Armiero, Giuseppe Fiori, Donna Haraway, Ernesto De Martino, Maria Lai, fratelli Grimm, Sergio Atzeni, Federica Giardini, Gilles Deleuze e Félix Guattari
organizzazione Simona Loi, This is Acqua
produzione DOM-, Sardegna Teatro
Progetto video Studio Azzurro Ricerca
a cura di  Alberto Danelli, Alexey Demichev, Laura Marcolini, Cesare Rosa
realizzato in collaborazione con Sardegna Film Commision
Ringraziamo  RFI, Centro Commerciale I Fenicotteri, Scuola Cinofila CUD Cagliari, Playcar, Emanuele Orsatti, Sardinia Domus, Art Guest House, Banana Bar, Misar Due Srl

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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