In prima assoluta al Teatro Studio Melato del Piccolo Teatro di Milano, il debutto di Fanny e Alexander con Federica Fracassi con Trilogia della città di K. dal romanzo omonimo di Agota Kristof. In questa intervista Luigi De Angelis, regista dello spettacolo, evidenzia molti punti di riflessione offerti dall’opera. Nell’articolo gli scatti dal backstage.
La Trilogia della città di K. è un labirinto, un meccanismo stratificato e complesso che avvicina e allontana di continuo storie e personaggi. Come interviene il teatro – arte che intesse strati più di ogni altra – per affiancare questa complessità?
L’unico modo per onorare questa complessità labirintica era lavorare su una messa in scena più dinamica possibile. Prima di tutto c’è l’idea di adattamento di Chiara Lagani, quindi quella prima difficoltà di far passare la voce interiore di una materia fatta per la lettura a una voce esteriore da far incarnare attraverso dei corpi; fin da subito poi, assieme a Federica Fracassi che ci ha proposto inizialmente l’idea, abbiamo deciso di mettere in scena tutti e tre i libri, perché fanno parte di un libro unico già nelle intenzioni della scrittrice. Poi ci sono delle immagini che hanno guidato me nell’idea di regia, come quella che più volte ho avuto modo di vedere in un museo a San Paolo del Brasile, una installazione dell’architetta italo-brasiliana Lina Bo Bardi che ha creato questo museo in cui le opere sono presentate non secondo una rappresentazione gerarchica, cronologica, con la sequenza dei vari periodi storici, ma attraverso una stanza unica in cui le opere sono incastonate in dei vetri appesi a un basamento di marmo e sembrano galleggiare, fluttuare nell’aria. Lei dice che il tempo, secondo la visione occidentale, è sempre lineare, come diceva anche Nabokov, ma questo ci fa parlare di esso sempre con metafore e termini legati allo spazio, altre visioni invece parlano di compresenze di tempi, creando quello che lei chiama “un groviglio meraviglioso”. Questa immagine è un po’ il filo rosso della nostra Trilogia: un’unica stanza ospita icone, quadri che non hanno neanche un titolo, quindi ti chiedono di fare un movimento di avvicinamento, un atto di volontà del fruitore.
Qual è la struttura che avete inteso dare allo spettacolo?
C’è un primo atto in cui è convocata sulla scena la stessa scrittrice, incarnata da Federica Fracassi, perché la vicenda parte da una base fortemente autobiografica, non solo per il tema dell’esilio che la portò da Koszeg, la città ungherese del titolo, fino in Svizzera, ma soprattutto perché la sua infanzia somiglia molto a quella dei due (?) protagonisti; nel momento in cui lei inizia a immaginare il suo romanzo, le immagini vengono evocate sulla scena attraverso queste icone, queste “carte video” che fanno parte del Grande Quaderno frammentato, sparso nel Teatro Studio che, grazie alla sua forma particolare, ci garantiva questa doppia possibilità: da un lato la frontalità, dall’altro la rottura dei piani prospettici in cui gli schermi, le icone, appaiono grazie all’immaginazione, come se fossero legati con dei fili al cervello di Agota Kristof e assistessimo all’epifania del suo processo creativo. Nel secondo atto, dopo il famoso passaggio della frontiera e dell’esplosione della mina, il personaggio di Agota dà il manoscritto al proprio personaggio Lukas, interpretato da Alessandro Berti – scelta fondamentale perché Berti è anche un autore, quindi ha un rapporto particolare con la parola; qui non ci sono più i video, le evocazioni immaginarie, ma è proprio Lukas che convoca degli attori a mettere in scena i fili, la sua costellazione familiare nella grande città di K.
Il terzo atto invece insiste di più su questo carattere labirintico, portando in scena questa compresenza di diversi piani temporali, come accade nel terzo dei libri, in cui si passa dalla prospettiva di Klaus, il fratello in origine separato da Lucas, a quella di Claus con la “c”, forse un’altra menzogna, forse Lucas che è tornato e cerca di incontrare il fratello; queste due prospettive sono sia nel tempo presente sia nel tempo del ricordo, del sogno, quindi siamo stati costretti a onorare questa caleidoscopicità attraverso una forma onirica e mutante. Tutti e tre gli atti poi sono molto caratterizzati attraverso il suono curato da Mirto Baliani e Emanuele Wiltsch Barberio. Nel primo c’è un autopiano in scena, come un pianoforte verticale del contesto borghese da cui i due gemelli arrivano, che suona un esercizio classico di quando si studia pianoforte: Mikrokosmos del compositore ungherese Bartók; l’universo sonoro del secondo atto è quasi cinematografico, con suoni naturali; nel terzo invece c’è un contesto sonoro più elettronico e sospeso.
Quali temi del romanzo ricorrono nella poetica di Fanny e Alexander?
Accanto al tema della guerra, molto forte nel romanzo, sicuramente emerge uno dei nostri temi forse più radicati, quello che richiama le fiabe nere dell’infanzia abusata, di chi non può crescere come dovrebbe ed è obbligato a inventarsi fin dalle origini una relazione con il mondo adulto. Proprio in merito all’infanzia, nel secondo atto è convocata una presenza, una statua che compare da una botola usata originariamente da Strehler per il Faust con Svoboda nel 1988 – visione indimenticabile da spettatore – che nella struttura così orizzontale della grande città, narrata emotivamente o geometricamente attraverso le luci, accoglie una presenza mancante che moltiplicasse la dimensione ossessiva del guardare, evocando sulla scena Mathias, il bambino deforme nato da un precedente incesto, che non crescerà mai; ecco, lui rappresenta proprio l’infanzia che non può crescere, che rimane bloccata all’interno di questi personaggi costretti a diventare subito adulti. La statua, realizzata da Nicola Fagnani, è ispirata a una scultura iperrealista, gigantesca, di Ron Muek vista alla Biennale di Venezia molti anni fa, un bambino accovacciato all’entrata dell’Arsenale, alto quattro metri, che guardava il visitatore osservandolo ossessivamente. A prestare la voce al bambino-gigante è la poetessa Chandra Livia Candiani, una voce allo stesso tempo bambina e anzianissima, che ha tutte le età e che quindi rappresenta bene questo bambino imprigionato in un corpo gigante.
A proposito del legame con il Piccolo Teatro. Come ha influito elaborare un’opera con una produzione così composita e di lunga tenitura nel vostro modo di lavorare?
È stato un lavoro profondamente corale, in cui tutti hanno partecipato in misura diversa ma con identica motivazione. A questo proposito una cosa che mi preme segnalare è la qualità del team del Piccolo Teatro di Milano, non solo per il grande impegno tecnico che abbiamo richiesto e che richiediamo ogni sera in cui lo spettacolo va in scena, ma soprattutto per la serietà dell’approccio – tutti, fonici, sarti, macchinisti, avevano il libro in mano e lo hanno letto durante la lavorazione – che avvicina il lavoro dei tecnici a quello degli interpreti. Per questo consideriamo lo spettacolo frutto di una creazione corale, in cui tutti hanno avuto una grande serietà, anche gli attori apparsi nei video solo per un piccolo frammento senza audio.
C’è un forte legame con la letteratura lungo la vostra produzione artistica (il Nabokov di Ada, poi i molti spettacoli sul mago di Oz di Baum, ma anche il progetto su T. E. Lawrence o più recentemente Primo Levi), in cui traspare spesso il discorso sull’alterità che compare nella Trilogia, o forse più in esteso sull’alterazione percettiva. Quali elementi ricorrono nelle scelte letterarie della compagnia?
Molto raramente abbiamo messo in scena testi teatrali, mentre la letteratura – grande passione sia mia che di Chiara Lagani – offre la possibilità di confrontarti con dei mondi altri in cui fare dei viaggi, quindi creare differenti prospettive per attraversarli. Ci sono tematiche ricorrenti, già in Ada di Nabokov c’era un’infanzia esplicitamente non lineare, in cui come nella Trilogia è fortemente marcata la violenza; invece tutti i recenti ritratti mimetici – da Levi a Nina Simone o Charles Manson – pur non avendo a che fare direttamente con la letteratura la sfiorano, perché ci siamo interrogati sull’oralità, su ciò che può ancora parlare al tempo presente in maniera urticante.
Pensandoci ora non a caso forse ricorre Primo Levi nella Trilogia, quell’apprendimento attraverso il corpo e il linguaggio che caratterizza uno dei capitoli più belli di Se questo è un uomo, in cui Levi esprime come urgenza primaria il desiderio di recitare a un compagno di una breve passeggiata nel lager, in una lingua mediana in quel luogo come il francese, tutti i versi che ricorda del canto di Ulisse della Commedia, proprio il canto della conoscenza, dei limiti del tempo e dello spazio, a confronto qui con il desiderio dei due gemelli di conservare in segreto quello che diventerà il Grande Quaderno e il dizionario del proprio padre lontano.
Si crea nella storia un enigma conturbante che sviluppa un certo erotismo, al servizio di un meccanismo vorace, la scrittura invece è scarna, telegrafica, perché in francese, la lingua dell’esilio. Forse infatti uno dei temi più forti del romanzo è proprio la scrittura intesa come sopravvivenza; non a caso nella vicenda un personaggio molto importante è proprio lo scrittore, Victor, che non riesce a scrivere perché non gli escono le parole e che solo attraverso un atto violento, l’uccisione della sorella, tornerà alla scrittura. A un certo punto lui dice: “Nella vita ognuno dovrebbe scrivere un libro”; sembra proprio la storia di Agota, perché, per quanto lei dica che la letteratura non è salvifica e ti fa sprofondare ancora di più nel tuo gorgo, scrivere questa trilogia è stata la sua unica possibilità per mantenere il legame con la città natale, per tenerla in vita dentro di sé. È come se così tornasse continuamente al tempo e allo spazio rimosso, quello dell’infanzia.
Simone Nebbia
23 novembre – 21 dicembre 2023 Teatro Studio Melato
Le recite di giovedì 23 novembre, sabato 2, 9 e 16 dicembre sono sottotitolate in inglese
Durata: 190’ incluso un intervallo
Leggi anche la recensione dello spettacolo a cura di Sergio Lo Gatto
TRILOGIA DELLA CITTÀ DI K.
un progetto di Federica Fracassi e Fanny & Alexander
tratto dal romanzo omonimo di Ágota Kristóf
adattamento e drammaturgia Chiara Lagani
regia Luigi De Angelis
scene, luci, video Luigi De Angelis
costumi Gianluca Sbicca
musiche e sound design Mirto Baliani e Emanuele Wiltsch Barberio
allestimento multimediale Michele Mescalchin
scultura di scena Nicola Fagnani
con Federica Fracassi Agota Kristof, Clara, Madre vecchia, Madre del sogno
e con (in ordine alfabetico)
Andrea Argentieri Sottoposto, Peter, Joseph l’ortolano, Vecchio curato, Uomo dell’ambasciata, Uomo del sogno, Medico, Disertore, Padre del sogno
Consuelo Battiston Yasmine, Sophie, Signorina dell’albergo, Infermiera, Antonia, Donna incinta
Alessandro Berti Lucas, Klaus
Lorenzo Gleijeses Ufficiale, Victor, Michael l’insonne, Klaus
con la partecipazione in video di
gemelli bambini Leone Maria Baiocco
gemelli adolescenti Yari Montemagno
madre Marta Malvestiti
padre Fausto Cabra
nonna Anna Coppola
Libraio/calzolaio Giovanni Franzoni
Labbro Leporino Cloe Romano
Curato Renato Sarti
Ufficiale Mauro Milone
Attendente Alfonso De Vreese
Bambini Vittorio Consoli, Domenico Iodice, Nicolò Latte Bovio
Ragazzi Andrea Bezziccheri, Ion Donà, Edoardo Sabato*
Soldato Lorenzo Vio*
Cugina, infermiera Giada Ciabini*
Madre internata Federica Fracassi
Sarah Nina Romano
Suora Chiara Lagani
e le voci di
gemelli bambini Vittorio Consoli
Labbro Leporino Virginia Consoli
Fantesca Chiara Lagani
Padre Jasmine Woody Neri
Klaus Renzo Martinelli
Si ringrazia Chandra Livia Candiani per aver prestato la sua voce per il personaggio di Mathias
*allievi del corso Claudia Giannotti della Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo Teatro di Milano
assistente alla regia Filippo Trevisan
assistente ai costumi Marta Solari
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
sovratitoli a cura Prescott Studio
supporto multimediale sovratitoli Lyri