La maggior parte delle volte si cerca di dare una definizione di quello che si vede, molte volte crediamo sia giusto creare dei recinti per imprigionare la materia così come si fa con gli animali, neanche avessimo paura che quel pulsare artistico impazzisca come un toro drogato e cominci a schizzare via da tutte le parti. La vitalità dell’arte teatrale presta facilmente il fianco a questo gioco e se nel passato, quello glorioso abitato anche dall’Odin Teatret, avveniva separando in maniera netta il teatro di ricerca con tutto il resto, oggi si tende prima a inglobare il tutto all’interno della macrocategoria delle arti perfomative e poi a creare però piccoli recinti dove rinchiudere ciò che è di maggior tendenza e spinge verso l’utilizzo di linguaggi iperdigitali e antinarrativi per contrapporlo a un’espressione che invece cerca ancora di abbracciare l’emozione del pubblico abbandonandosi anche a una facile comprensione o costruendo emozioni che si dirigono dritte alla pancia dello spettatore.
Spettacoli come quelli visti due sere fa (lunedì 20 settembre) al Teatro Quirino nella quarta serata di Revolution Mad aprono questi recinti mentali senza timori intellettuali di sorta. Mi riferisco soprattutto a Ammazzando il tempo di Julia Varley e Io provo a Volare di Gianfranco Berardi. I due spettacoli distanti per approccio, hanno però a mio avviso lo stesso obiettivo ed effetto sul pubblico: la creazione di un’emozione semplice e diretta, se volete popolare, nell’accezione positiva del termine.
Se della narrazione pura di Berardi ci occuperemo in seguito, tentiamo qui di raccontarvi proprio quell’effetto (emozionante) presente nella performance con la regia di Eugenio Barba. Ammazzando il tempo, che arrivò in Italia già l’anno scorso al Festival Internazionale di Teatro Urbano, si presenta con il sottotitolo 17 minuti della vita di Mr. Peanut . Il lavoro dura effettivamente meno di mezz’ora, un tempo breve in cui cui si condensa parte della “vita” del protagonista: prima un uomo poi una donna, con un teschio al posto della testa. Il corpo posticcio e goffo, sproporzionato per la sua testolina troppo minuta rispetto al resto, inabile alla parola, ma nato per la creazione del gesto poetico, entra da destra con un frac subito seguito dalla musica, elemento che non lo abbandonerà mai. La scena, allestita nella platea del Quirino con il pubblico ravvicinato seduto in terra o sulle prime file delle poltrone, fiori e verdi foglie vengono liberati in aria dal personaggio abitato dalla storica attrice dell’Odin, Julia Varley. A sinistra una cordicella sulla quale ben presto il nostro Peanut appenderà alcuni indumenti, tra cui slip da donna in pizzo rosso e box neri con teschietti bianchi, si muove a tempo di musica, si trasforma velocemente in una donna, di un femminino nascosto dentro al panciotto, madre scheletrica che accudisce il proprio bambino addormentato in una minuscola bara. L’immagine terrificante diventa nel teatro di Barba e Varley ironia estrema di un bambolotto che fuoriesce dalla sua bara per occupare un altro luogo altrettanto assurdo: una minuscola amaca appesa allo cordicella. Ma se quel bambolotto, in un abile gioco di prestigio (dal gusto necromantico, per così dire) e di ribaltamento della reale significanza dei simboli che si agitano sul palco (i teschi nella nostra cultura sono la morte), diventasse uno scheletrino anch’esso e il nostro eroe si trasformasse in una sposa, mentre l’esperta mano di quell’abile artigiano di emozioni facesse risuonare l’Ave Maria di Schubert, allora l’ironia si farebbe da parte per lasciare spazio alla pìetas e il discernimento dei segni culturali (come l’ossessiva presenza degli scheletri nel lavoro dell’Odin) si scioglierebbe nella poesia di un’emozione di passaggio, così è stato, come un vento caldo dal nord dell’Europa.
Andrea Pocosgnich
visto il 20 settembre 2010
Teatro Quirino – Revolution Mad
Roma
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