È una calda giornata d’estate, c’è un pontile, una casa, ovunque è il mare; ci sono due uomini, forse, poi c’è una donna che appare e scompare. Sarebbe tutto qui il Caldo di Jon Fosse (Cue Press, 2019), ma l’autore norvegese proprio in questa immagine scarna, apparentemente debole, essenzialmente onirica, raccoglie e disvela la ricorrenza delle atmosfere rarefatte in cui si ampliano a dismisura i vasti silenzi, quel deserto in cui si ripetono parole già dette, azioni già svolte a sostituirne altre che non si svolgeranno, parole eventuali che darebbero un senso più compiuto al testo, forse una maggiore distensione nella lettura, mentre invece quella assenza esplicita del tutto lo spaesamento e fa affiorare una complessità inattesa, ispessita sotto la superficie del non detto. Proprio per questo, nel testo del recente Premio Nobel, il fascino più esteso è dato da ciò che non compare ma che, sulla pagina o sulla scena, coinvolgerà il lettore o spettatore in una compresenza inevitabile. La stessa scelta, ricorrente in vari testi, di non esplicitare la punteggiatura, concorre a rendere assertivo un testo pieno di possibili domande, motivando ancor di più uno spaesamento non solo cognitivo ma esperienziale; ne nasce una sospensione, spesso palesata, di tempo e di spazio: i protagonisti si chiedono compulsivamente “quando” e “dove”, nessuna risposta li soddisfa, ricordano e non ricordano, poi tornano allora a domandare e domandarsi ciò che non può avere una definizione: “quanto a lungo” “no non ho idea” “Ma siamo stati qui tanto tempo / forse / È come se non ci fosse / sì tanto e poco” […] “Noi stiamo qui in ogni caso”. Tutte qui, evidenti, le note pinteriane prima e ibseniane poi individuate dall’introduzione di Franco Perrelli, che cura anche la traduzione: quello di Fosse, scrive, è un “realismo mobile o instabile”, intendendo cioè quella vocazione della sua scrittura a offrire spazi vuoti più che i pieni, ampiezze in cui si situa un teatro, dice l’autore, come “epifania estesa nel tempo”.