Cristina Kristal Rizzo con Megumi Eda e l’ICK Ensemble di Emio Greco e Pieter Scholten hanno aperto la nuova edizione del Festival MilanOltre, prima al PAC poi nelle sale del Teatro Elfo/Puccini di corso Buenos Aires.
La prima performance del festival è fuori sede, forse perché un vero festival oggi si dissemina nella città. Fuori dal centro della sua progettazione, nell’utopia (vorrei credere) di raggiungere proprio tutti: la danza sotto casa. MilanOltre (37a edizione!) anche quest’anno apre la programmazione al Padiglione d’Arte Contemporanea con Cristina Kristal Rizzo che coreografa una versione breve di un assolo (già visto long version a Torino) per Megumi Eda, dal titolo piramidale che a dirlo tutto d’un fiato si va quasi in apnea: MONUMENTUM the second sleep – prima parte / il solo (e non sarà cosa secondaria questa ricorrente frantumazione di progetti in parti, versioni, studi, anticipi, posticipi, site-specific e special edition, durational ed endurance, azioni consecutive, mai terminative, di cui poi si fatica a tenere il conto o memoria, e certo come una modalità della composizione di oggi che non si riconosce nell’opera unica e finita, non-sia-mai, e rimane così aperta tanto alla ricchezza della disseminazione, della resistenza, della attesa, quanto ai rischi della dispersione…). Qui comunque tanta brevità (20 minuti) rapprende il suo meglio, per l’intera lunghezza della galleria, a quota terreno, nella parte illuminata dalla grande vetrata aperta sul vicino parco (da cui arrivano anche sguardi in transito, casuali e distratti, non per questo meno intensi dei nostri, autorizzati). Megumi Eda attraversa stati molteplici di intensità, tra gesti e oggetti minimi, occupando lo spazio come una natura vivente, diretta da una mai-uguale playlist governata dalla coreografa, per suggerire stati dinamici e di abbandono che rendono evidente, visibile ed esperibile nel corpo quel sottile che Rizzo tanto insegue.
È tutto nel pronome che precede la virgola nel titolo del nuovo lavoro di Emio Greco e Pieter Scholten: We, The Breath, l’aggancio più vero a questo atteso debutto. Summa e limite di un lavoro che è tutto costruito sulla coralità, quel noi è qualità dell’energia, tensione in attitude e forza della presenza, tutta esposta come espansa, senza mediazioni. Ed è anche un ciclo che procederà per tappe (a Ravenna s’è già visto We, The Eyes), affinché la composizione del rituale si riconosca in una cerimonia. Qui a Milano sono 6, i magnifici performer dell’ICK Ensemble, ma poi si doppiano in scena, in un effetto a cascata che produce appunto questa idea continua di allagamento del visivo, questo effetto di esserci tutti, là sopra, nel respiro.
Chi soffre d’asma lo sa: l’affezione respiratoria (le souffle coupé) è una simulazione (anticipazione?), drammatica e ripetitiva, della morte per soffocamento.Non v’è allegoria più corrispondente al mondo attuale di questa, per Greco e Scholten. L’estrema semplicità della composizione è sempre compensata però da un’immediata (travolgente) continuità di questa coralità che ritorna al respiro, anche in barba a quanto proclamato nella presentazione («Insieme facciamo un passo indietro … ci muoviamo verso il sollievo, verso il rallentamento»), perché qui invece tutto corre in avanti, prende forma (e fiato) tra ritmi inquieti e continue accelerazioni e ripartenze (mozzafiato), fino al climax finale ‘partecipato’, su un’irresistibile (potrebbe altrimenti?) dub-remix di I feel love di Donna Summer: col pertinace battimano di proprio tutti.
Più strutturata e complessa è la riedizione di Rocco, creazione di Greco/Scholten del 2011 (anche se già un primissimo frammento risale al 2009), qui ripensata per 2 danzatori (Denis Bruno e Dennis van Herpen) e 2 danzatrici (Jordaine Lincoln e Sixtine Biron) che si alternano, straordinari e straordinarie, su di un ring per incontri di pugilato, attorno al quale sta il pubblico. Se la preparazione è lenta, l’esecuzione poi della sfida agonistica estremamente precisa, progressiva, dettagliata e dosata direi quasi anatomicamente. Anche la drammaturgia qui esplode, nell’addizionante dialogo a distanza con l’omonimo film di Visconti, girato proprio a Milano. Ma il sapere compositivo del coreografo brindisino (emigrato ad Amsterdam) mostra in questi ripetuti corpo-a-corpo la sua più vera ricchezza inventiva: trasformare e celebrare il corpo facendolo vibrare, nelle minuzie e nei dettagli dei gesti, fin nei muscoli e nei nervi. Il match scandito dai gong di rito, dà forma a continui processi contrastivi che si tramutano in difficili equilibri di improvvise concordie. Così Denis letteralmente dà del filo da torcere a Dennis (pugilato di fratellanza anche nei nomi), mentre l’inedita ma necessaria flessione al femminile con Jordaine che non risparmia proprio niente all’avversaria (amatissima) Sixtine.
Dunque così si chiariscono, anche, le due diverse modalità compositive di Emio Greco: quella macro, degli ensemble che allagano i sensi dello spettatore; e quella micro, dei corpi singolari, pieni di scatti e di tic, di tensioni e di resistenze anche erotiche, di preparazioni e posizioni anche di balletto, di linee dure e ripetute fino al compimento, e che richiedono una vista circoscritta, una attenzione potenziata, una ricezione concorde piena soprattutto di emergenza e di necessità.
Stefano Tomassini