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Silvia Calderoni. Dal Presente al passato

Dal processo creativo di The Present Is Not Enough, raccontato insieme a Ilenia Caleo,  al romanzo d’esordio Denti di latte (Fandango Libri, 2023), Silvia Calderoni si racconta in una conversazione sul presente, sulla memoria, sulla biografia, fino l nuovo spettacolo di Motus dedicato al mito di Frankenstein. Tra teatro e letteratura.

Foto Claudia Pajewski

In un torrido settembre romano, al tavolino di uno storico bar che fa angolo con Via del Pigneto mi raggiungono Silvia Calderoni e Ilenia Caleo. La prima è una delle performer più apprezzate della nostra scena contemporanea, alle spalle oltre vent’anni di lavoro con compagnie come Teatro Valdoca e Motus; la seconda è una performer (anch’ella vicina a Motus), attivista e ricercatrice nel campo delle filosofie del contemporaneo e delle epistemologie femministe (qui l’intervista sulle nostre pagine). Calderoni e Caleo hanno realizzato – portando in scena anche Giacomo AG, Tony Allotta, Gabriele Lepera, Fede Morini e Ondina Quadri – il progetto The Present Is Not Enough, che indaga le pratiche relazionali del mondo queer.

Che tipo di processo creativo ha avuto The Present Is Not Enough?

Silvia Calderoni: Abbiamo cominciato con delle tappe di residenza, in cui dal punto di vista drammaturgico siamo andate avanti io e Ilenia, collezionando moltissimi materiali, soprattutto fotografici. Gli inviti si sono legati al nostro desiderio di lavorare con determinate persone, piuttosto che scegliere con quale tipo di corpi lavorare, anche per avere fin da subito una facilità nel modo di comunicare e sperimentare. Senza pensare alla scena come a un punto d’arrivo, abbiamo invece lavorato sulle pratiche fisiche e di relazione.
Lungo è stato anche il lavoro sullo sguardo, difficile da condurre perché era uno sguardo che ci lanciavamo tra noi, senza immaginare fino in fondo come sarebbe stato quello scambiato con il pubblico.

The Present Is Not Enough a Short Theatre 2023. Foto Claudia Pajewski

Ho trovato che fosse uno sguardo dichiaratamente “posticcio”, a cui non era richiesto di “credere” più che tanto. Trovarsi a pensare fin dove possa spingersi quel tipo di ammiccamento significa ragionare sul limite che può raggiungere quel tipo di “mise en abyme”. Insieme all’applicazione di quel maquillage di peli che sboccia dalla carne o spunta da sotto ai vestiti, ho individuato alcuni elementi fortemente teatrali.

SC: Ha di certo a che fare con la dimensione teatrale non tanto per le modalità di costruzione della drammaturgia o dell’immagine, quanto rispetto al contratto che si stringe con il pubblico: si crea una convenzione che viene rispettata.

In questo credo che un ruolo chiave lo abbia anche il contesto che accoglie esperimenti come questo, un contesto come Short Theatre che, quest’anno, ha dimostrato (senza imporre chiavi di lettura) di saper porre un discorso autorevole sul modo in cui guardare certe performance, un modo che ispirava uno sguardo meno prevenuto, meno tendente a storicizzare o a etichettare immediatamente il materiale di visione.

Ilenia Caleo: Anche la scelta del tema, quello del cruising, portava me e Silvia in un territorio non vicino alla nostra esperienza. Non siamo, cioè, andate ad affermare qualcosa in cui crediamo, ma a scoprire alcune dinamiche, costruendo intorno a quel “caso” un discorso più ampio sui sistemi di relazione, sui corpi che si dispongono nello spazio… di certo non c’era l’intenzione di creare eccitazione o di accedere a una dimensione di attivazione sessuale. È stato interessante poi avere un pubblico disposto sui tre lati e privato della possibilità di vedere tutto l’insieme: quando i performer si muovono, lo sguardo li segue e diventa uno scambio tra chi (si) sta osservando.

The Present Is Not Enough a Short Theatre 2023. Foto Claudia Pajewski

A “raffreddare” è anche il paesaggio sonoro: le fusa feline come gli audio di repertorio rendono tutto più bidimensionale, come lo sono le fotografie o i graffiti stilizzati che disegnate in scena sui fogli di cartone.

SC: Le fusa dei felini sono un principio di godimento di per sé, non hanno direttamente a che fare con l’eccitazione sessuale: questo ci riporta a una dimensione extra-umana. Non è il tuo sguardo a generare le fusa, io sono “in ebollizione” per conto mio, ci sei tu davanti e ti guardo. E di conseguenza tutto ciò che poteva esserci di pruriginoso si è allontanato; allo stesso modo abbiamo cercato il modo per fronteggiare (senza cavalcarla ma accettando al limite di disattenderla) una certa aspettativa che comunque, nel nostro piccolo mondo, c’era rispetto a una collaborazione autoriale tra noi due.

IC: Rispetto alla comunità queer ci interessava piuttosto riprodurre e raccontare quell’estetica, che adesso è molto riconoscibile, ma che può essere recuperata nella sua evoluzione, soprattutto cercando di non tramutarla in un’espressione identitaria.

Piersandra Di Matteo, Silvia Calderoni e Viola Lo Moro alla presentazione di Denti di latte. Foto Claudia Pajewski

Rispetto alla queerness, capisco quel che dite sulla caratteristica di “extra-umanità”: la “stranezza”, l’eccentricità si posizionano lì. È come trovarsi per la prima volta di fronte a un animale nel suo habitat e rendersi conto che, sì, si può paragonare una iena a un cane, ma una resta una iena, l’altro resta un cane.

IC: Esatto: alcuni corpi sono così. Ci siamo posti la questione se mostrarli o no e come, ma ci siamo dette che non stavamo mettendo in mostra niente.

Erano loro e basta.

Con Silvia Calderoni ci tratteniamo a parlare del libro Denti di latte, romanzo pubblicato da Fandango Libri solo qualche settimana fa, che rappresenta un suo esordio alla scrittura, per indagare anche questo processo creativo, un ponte tra pagina scritta e teatro in cui presente e passato si fondono e si danno forza. Un viaggio nel corpo e nello sguardo bambini.

SC: È la prima volta che scrivo un romanzo e l’ho scritto seguendo ciò che so fare io, il teatro: c’è moltissimo corpo, ogni dettaglio lo visualizzavo come fosse una scena: è stato come creare delle scenografie e poi inserirvi dentro dei corpi, dei personaggi; il fatto che non sia un libro corale è forse segno che non sono abituata a fare teatro con molte persone in scena.

Foto Claudia Pajewski

Qual è la genesi di questo progetto? Coincide con il momento di grande attenzione che c’è stato su di te in seguito alla collaborazione con Gucci?

In quel momento, un anno e mezzo prima della pandemia, diverse case editrici mi hanno chiesto dei libri, alcuni delle biografie. Ho sempre rifiutato. Con Fandango ho avuto la possibilità di costruire una relazione altra, che rispettasse i miei tempi. All’inizio la mia scrittura era talmente retta da un principio di fragilità vaporosa che appena ne parlavo ad altri sembrava svanire tutto. Avevo poi il terrore di “mettere nel mondo” qualcosa che vivesse del mio nome e non del contenuto: questo era il rischio che vedevo in quel momento di popolarità, e mi spaventava. Ci ho lavorato in pandemia, poi l’ho lasciato decantare e ci sono tornata dopo, in maniera frammentata, questo si intuisce anche in una scrittura che cambia.
Quando l’editor, Lavinia Azzone, mi ha chiesto di ricevere i primi due terzi del libro, l’ho invece invitata da me per leggerglieli ad alta voce. Per me era l’unico modo accettabile, il più vicino alla mia pratica: avevo scritto leggendo a voce alta, lavorando molto sulla musicalità del parlato.
Poi ho girato le bozze a diverse persone: tre donne vicine a me, che amo e stimo e che di certo sarebbero state sincere: Ilenia Caleo, la poetessa Mariangela Gualtieri e la studiosa Annalisa Sacchi. Infine è stato importante consegnarlo ai miei genitori, che all’epoca di MDLSX (spettacolo di Motus del 2015, N.d.R.) erano rimasti “senza fiato”, smarriti, non riuscendo proprio a capire l’operazione.

Foto di Ilenia Caleo

In quello spettacolo si tenevano in bilico frammenti di tua biografia e spunti saggistici da Judith Butler, Donna Haraway e Paul B. Preciado. Vorremmo credere che chi vede (o fa) molta arte – e teatro in particolare – sia in grado di separare vita e drammaturgia, anche in operazioni così delicate. Ma non è sempre così, soprattutto con la forte presenza, oggi, di narrazioni che mescolano io privato e io pubblico. Penso all’autofiction, che è molto complesso manovrare, ma mi riferisco anche al fatto che la nostra società attuale è intrisa di dispositivi di autorappresentazione. Denti di latte è presentato come «il racconto di un’infanzia non conforme in un piccolo paese della provincia italiana». Quanta immaginazione c’è?

Tantissima, mescolata a una materia drammaturgica che è quella dei ricordi. Potremmo dire che la bambina protagonista, Silvia, è simile alla bambina di MDLSX. La differenza è che lì a quella bambina che canta lo spettatore aggancia una storia; qui alla stessa bambina il lettore aggancia un’altra biografia. La risposta alla tua domanda, dunque, potrebbe essere simile anche per MDLSX. Quanto c’è di vero lì? Tantissimo, ma non è la verità: c’è una serie di elementi che rappresentano, diciamo, una verità emozionale.

MDLSX – Foto di Diego Beltramo

In MDLSX interviene la convenzione: può essere la verità di un corpo, di una voce, molto più difficile che sia la verità di una storia, che il contesto teatrale protegge e definisce. Questo vale forse anche per la forma romanzo: su un materiale dichiaratamente autobiografico avviene comunque un passaggio in arte che è proprio della scrittura come struttura di organizzazione del pensiero o, nel caso di Denti di latte, del ricordo, dove non può esistere oggettività.

Infatti in prima pagina c’è scritto: «Questo non è un romanzo autobiografico». Per me la differenza è molto netta, nonostante ci siano molti elementi della mia infanzia. Avrei potuto cambiare i nomi, ma a che sarebbe servito? Per me quelle sono le persone, lo penso come un omaggio a loro, comparse in un mondo e in un tempo che non mi appartiene più. Ho scritto inoltre nel momento in cui, sull’onda di quella improvvisa popolarità, incontravo giornali e TV che cercavano di costruire un personaggio su di me e che sembrava poter divorare tutto ciò che con fatica avevo costruito in venticinque anni.

Silvia Calderoni in Tutto brucia, Motus. Foto di Margherita Caprilli

E così ne sei uscita, hai rifiutato quel personaggio.

Grazie alle persone vicine, sì. Allora in Denti di latte il set è il mio passato, ma – a proposito di personaggi – è come se nella scrittura avessi lasciato improvvisare i personaggi; a un certo punto hanno preso una direzione diversa dal ricordo, anche tradendolo. Ho cercato di condurre un’operazione molto onesta anche sul personaggio di Silvia, che è l’unica bambina del romanzo.

Ecco, mentre “il presente non è abbastanza”, la sommatoria tra ricordo e infanzia forse può mettere chiarezza su chi sei tu e chi è il personaggio che racconti.

Di certo il lavoro su ENIGMA. Requiem per Pinocchio ha avuto una parte in causa, mi ha parlato di quel momento della vita in cui “fai” il mondo mentre lo guardi, senza giudicare, prima che si instauri una relazione tra te e il mondo. Ma deve essere chiaro che quella bambina lì non sono io: non ho sufficienti informazioni su di lei da poterti dire che cosa ella pensi su questo o su quello. Mi interessava riprendere quella voce bambina senza infantilizzarla, per quanto possibile. Quello dell’infanzia è un periodo della vita che ha molto a che fare con il momento della scena, il tentativo di far sopravvivere un certo tipo di purezza mentre si modifica, fino a portarlo sul palco.

Requiem For Pinocchio, Teatro Valdoca. Foto Simona Diacci Trinity

E ora che è “fuori”, come guardi a questo oggetto che hai messo nel mondo, questo pezzo di passato immesso nel presente?

È strano. Dopo la prima presentazione c’è stato il firma copie: credo che molte persone mi avessero visto a teatro ed era come se avessero l’esigenza di “espiare” qualcosa, si prendevano un paio di minuti a testa per curare quella nuova relazione, come legandosi a quella relazione privata che sempre si ha in platea con chi sta in scena.

Dopo aver parlato di presente e di passato, nel tuo prossimo futuro c’è Frankenstein (A Love Story), la nuova creazione di Motus, che debutterà all’Arena del Sole di Bologna il 13 ottobre.

Foto Ilaria Depari

Sono molto contenta del primo periodo di prove che si è svolto a Rimini. Mi piace come è impostato il lavoro e le energie che ci sono dentro, credo che accada anche qualcosa di diverso rispetto a un tipo di scrittura di Motus che può essere, nello stile, riconoscibile. Anche qui Ilenia ha collaborato alla scrittura e sono contenta perché c’è stato tanto lavoro a tavolino, di Ilenia insieme a Daniela Nicolò. E poi c’è il ritorno in scena di Enrico Casagrande. È stato mantenuto molto del romanzo: pur asciugandola, si è tentato di mantenere la storia nei suoi elementi essenziali, che permettono a chi guarda di muoversi dentro a una scheletrica struttura di narrazione, in maniera più lineare di quanto non accadeva, per esempio, in Tutto brucia. Lì la storia andava recuperata e ricostruita; qui il principio è diverso: ci sono tre personaggi in scena e uno è Mary Shelley. La scrittrice che crea il personaggio di Victor, Victor che crea la creatura, etc. Per ora questi personaggi si muovono in una scena scarna che non è però fatta dalla performatività degli attori e delle attrici: non è un’esplosione muscolare, non è l’istrione che costruisce la scena, ma l’insieme di pochi elementi che, seguendo il principio della purezza, si combinano e si creano e a volte si dissolvono, rimandando alla reazione chimica e all’alchimia.

Che ha molto a che fare con la materia del romanzo. Quel libro porta poi un fortissimo discorso politico. Non solo intorno alla “scrittura femminile”, ma anche nel racconto stesso, nella denuncia della figura della donna sempre messa da parte: la compagna d’amore che la creatura chiede a Frankenstein di “creare” viene distrutta e sacrificata.

Esatto, il discorso diventa “chi è il creatore di chi”. E voglio precisare che io qui non interpreto la Creatura (ride, N.d.R.).

Sergio Lo Gatto

DENTI DI LATTE

autrice Silvia Calderoni
editrice Fandango Libri
anno 2023
pagine 144

THE PRESENT IS NOT ENOUGH

un progetto di Silvia Calderoni / Ilenia Caleo
con Giacomo AG, Tony Allotta, Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Gabriele Lepera, Fede Morini, Ondina Quadri
suono Gabor + SC
cura e produzione Elisa Bartolucci
consulenza drammaturgica Antonia Ferrante e moltə amicə praticanti
coproduzioni Azienda Speciale Palaexpo – Mattatoio | Progetto Prender-si Cura, Kampnagel (Hamburg), Kunstencentrum Vooruitvzw (Ghent), Motus Vague
con il supporto del progetto residenze coreografiche Lavanderia a Vapore (Torino)
grazie a Leonardo Cruciano, Michele Di Stefano, Paola Granato, Simona Gallo

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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