Zio Vanja di Leonardo Lidi ha debuttato al Festival di Spoleto. Secondo capitolo della trilogia dedicata ad Anton Čechov. Recensione
“Splendente, bianco” è la radice indoeuropea del nome con cui nei paesi germanici si riconoscono le piante del genere delle betulacee, comunemente note come betulle. Čechov non resterebbe estraneo a questo dettaglio botanico perché, se si effettua una rapida ricerca, si può apprendere che questa pianta è resistente a condizioni ambientali avverse, geli improvvisi o siccità. Del resto, l’autore russo, nella casa che volle farsi costruire a Jalta e dove si stabilì a seguito della morte del padre, fece piantare diversi tipi di alberi, tra cui proprio le betulle.
Torniamo allora alle “condizioni avverse” fronteggiate da queste piante, le stesse che costituiscono le assi di legno dell’alta parete montata sul palcoscenico del Teatro Caio Melisso di Spoleto, ruvida, scarna, provata da una qualche calamità ma tenace, illuminata con le campiture riconoscibili del disegno luci “emotivo” di Nicolas Bovey che cura anche le scene. Le fitte e leggere scalfiture del legno sono tagli perpendicolari o nodose circonferenze o ombreggiature, a ricordare i segni del tempo. Proprio il tempo, lunghissimo e lentissimo, è il primo dato che si palesa nell’essenziale e rustica scena di Leonardo Lidi per il suo Zio Vanja, al debutto nazionale nella cornice del Festival di Spoleto, secondo appuntamento a distanza di un anno dal precedente, Il Gabbiano, e dal successivo, che sarà Il giardino dei ciliegi.
Quando ci si chiede da quanto tempo ci si conosce, non è un buon segno, perché forse non si ha più nulla di dirsi e si è già detto tutto, e proprio quel passare indolente del tempo, che con spietatezza incastona uno dietro l’altro gli eventi in una linearità che vorremmo rifuggire, ci mette al muro. E proprio al muro, quel muro di betulle, poggia la schiena, seduta sulla panca, la njaja Marina (Francesca Mazza), sguardo assente, vitreo, con la sua pesante chioma di bigodini, ricurva, in vestaglia color fucsia, e la sigaretta fiacca tra le labbra, dopo aver ciabattato lungo il palcoscenico seguita da uno Scottish Terrier nero. «Balia, da quanto tempo ci conosciamo? » vicino a lei, il medico Astrov (Mario Pirrello), in completo color marrone, camicia gialla con colletto a punta, occhiali a goccia Anni Settanta, capelli unti. Manca giusto una collana dorata al collo per completare il ritratto sfinito di uno che avrebbe potuto, e voluto anche, ma non è stato. L’Astrov di Pirrello secondo Lidi è un american hustle che non ce l’ha fatta, la sua esistenza una velleità vuota a perdere, e lo dimostra il suo incedere mentre parla, sempre in tono ascendente, quasi una rincorsa sospirata che poi si arresta, e frana. «Eri giovane e bello, allora, adesso sei invecchiato», la risposta laconica, disinteressata della njaja, che ormai non ha più tempo per pensare al tempo.
Nella residenza di campagna di Serebrjakov, questa volta non ci sono gli oggetti consueti dei testi cechoviani, non c’è null’altro che non sia il legno, totalizzante, metonimia della casa, insieme ai corpi degli attori e delle attrici, e del cane: flora e fauna, la natura si rappresenta nella sua essenza, esistenza e immanenza, le assi, del resto, appartengono a tronchi morti. E quel «tutto verbale» di cui parla con consueta nitidezza Fausto Malcovati nel testo di sala, e l’assenza di eros, le involuzioni del senso della parola che si avvinghia su se stessa dando prova di prodezze linguistiche, altro non sono che quell’essere inchiodati alle travi di legno, al parassitismo di una vita privata dell’afflato vitale, passionale, e ripiegata sui suoi rimpianti. Quasi incarnati dalla presenza assenza del mutismo di Tino Rossi, che si muove sulla scena come silenzioso osservatore.
Dopo la passeggiata, giungono e si siedono sulla panca, spalle al muro anche loro, Serebrjakov, Elena Andreevna, Sonja e Telegin. Uno dietro l’altra come gli eventi. Lineare è infatti anche la prossemica, il cast è costretto a percorrere la scena su di un piano bidimensionale, un corridoio sul proscenio, la cui profondità è serrata proprio dalla parete di legno, per la quale devono stare tutte e tutti in fila uno dietro l’altro/a, oppure avvinghiarsi (giammai!) o salirsi addosso. Telegin, interpretato da un incantato e tenero Giordano Agrusta abbigliato con camicia a quadrettoni, gode con poco, prendendo in prestito da anni il riflesso della vita della famiglia del professore. Forse Telegin è il più onesto nel dichiarare gratitudine per coloro che gli hanno reso un poco migliore una vita già misera. Non sono dello stesso avviso, il mummificato professore Serebjakov (Maurizio Cardillo), bloccato in un presente tetraplegico con sbotti di irruenza, Elena Andreevna (Ilaria Falini), moglie del professore e sua indomita giovane badante, “la bella e triste Elena” voluta da Astrov per diletto, per rinfrancare la sua virilità e da Vanja, come fosse per lui un ultimo bagliore di carnalità nella frustrazione da amministratore della residenza; e Sonja (Giuliana Vigogna), innamorata in segreto da undici lunghi anni di Astrov, la quale soffre della sua bruttezza ma è straordinaria per attitudine consapevole al dolore.
Nell’adattamento di Lidi, con la traduzione di Malcovati, colpiscono proprio queste figure femminili, che risaltano per acume, cinico se vogliamo, ma determinato nell’ammissione delle loro fragilità, dell’evidenza di un malessere che attanaglia da troppo e per il quale, nonostante le bugie a fin di bene, diventano fintanto complici, confessandosi, reciprocamente e con sincerità, i propri fallimenti. Elena e Sonja – a differenza degli uomini che si azzufferanno, per finta, che grideranno rivendicando il passato, dietro la parete però e di nascosto – ammettono e dichiarano l’ineluttabile ma sono intenzionate a guardare oltre, rialzarsi da terra, piangere a dirotto o baciare scapigliandosi l’acconciatura e, finalmente, a riposare. Oppure, a rinchiudersi in loro stesse, senza schiamazzi narcisistici, come la madre (Angela Malfitano) e la njaja. Al contrario di Vanja, un caustico, affilato ma trafitto Massimiliano Speziani, già a terra sin dall’inizio, che nasconde la sua acrimonia in corrosive digressioni – recitate tuttavia con le mani tra le gambe, la camicia abbottonata fino al soffocamento, i capelli tenuti fermi dalla gelatina – che poi, in fondo, non sono tanto distanti dalle tirate moralistiche, ipocrite e ambientaliste di Astrov, alle cui spalle campeggiano macerie proiettate in una foto che ricorda un bombardamento, sempre per tornare alle condizioni avverse.
I costumi di Aurora Diamanti, eccezionali, sgargianti, ingombranti, non fanno che enfatizzare questo circo di anime fuori luogo in un tempo che è già stato e che non sarà in futuro. Per questo, il finto suicidio nel finale non può che essere un’onomatopea pronunciata da Vanja come se leggesse un fumetto, «PUM!», e le risate che si sentono riecheggiare nella sala, anche quelle sono finte, di vecchie sitcom televisive. Tutto è gonfiato, patinato, laccato, acconciato sopra il nulla. «Oh, poveri noi peccatori…» dirà Marina sbadigliando. Anche il pubblico se ne andrà annoiato, infastidito, rodendosi l’anima per essere stato scombussolato da così tanta, disarmante, cruda meschinità. Non si aspettava forse di essere messo al muro, un muro di travi di betulle che, anche se le prendi a pugni, resistono.
Lucia Medri
Giugno 2023, Spoleto, Teatro Caio Melisso
ZIO VANJA
regia Leonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival Dei Due Mondi
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