Quello che Victor Hugo, in esilio a Hauteville-House insieme alla famiglia, scrive dal 1858 in prefazione alle traduzioni dell’opera completa di Shakespeare da parte del figlio è un Manifesto per l’umanità, un Inno alla Gioia. Shakespeare, a dispetto della violenta e sterile critica di cui era stato oggetto per più di due secoli, appartiene alla preziosa genia di Geni o “uomini oceano”, da Omero a Cervantes passando per Giobbe ed Eschilo, coloro che hanno in sé l’immutabile ed eterna variabilità dell’esistenza, coloro i quali hanno il potere di liberare i popoli con la grandezza della loro Arte. Di origine borghese, ma popolano e popolare, il Bardo con la sua poesia ha restituito realtà al teatro: i suoi uomini e le sue donne, mai personaggi, esistono davvero in una contraddizione sempre ribollente; una figlia può diventare madre del padre, un uomo può detestare la donna che ama, un re può rifiutare il potere, la follia può essere l’unico modo per imporre la verità. Shakespeare, come Dio, concede la vita. È dalla lingua del teatro di vita che Alessandro Serra, oggi, ragiona sulla scena. Una lingua ruvida, onomatopeica, talmente vernacolare da essere etimo, quasi inadatta per qualunque traduzione, fatta per essere agita da corpi parlanti più che declamata da bocche aperte; una lingua foriera di parole che sono immagini sempre ambigue, o suoni evocativi del mondo. Il mondo, in Shakespeare, è un susseguirsi di suoni e musicalità; la riscrittura della scena non ha bisogno di nient’altro che di quei suoni.
William Shakespeare, di Victor Hugo, Feltrinelli 2020
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