Inaugurato nel giugno 2022, è arrivato a compimento FUORI!, progetto sperimentale di creazione partecipata promosso dal Comune di Bologna e realizzato da ERT. Un reportage dal festival diffuso negli spazi pubblici della città, in conversazione con la curatrice Silvia Bottiroli.
(Per rispettare le linee guida di comunicazione dell’evento qui raccontato, si è scelto di conservare la declinazione di genere universale usando il digit “3”, ndR)
Nel 2007 la Biennale di Sharjah, diretta da Jack Persekiak e Michaela Crimmin, proponeva ad artiste e artisti di guardare all’arte «come un modo di comprendere meglio il nostro rapporto con la natura e l’ambiente, considerando la sua dimensione sociale, politica e culturale da una prospettiva interdisciplinare». L’artista Maider López rispondeva con Football Field, un’opera di arte pubblica in cui sulla piazza del museo della città degli Emirati Arabi venivano tracciate le linee regolamentari e le porte di un piccolo campo da calcio. Restavano lampioni e panchine, ma all’occorrenza l3 abitanti potevano improvvisare una partita.
Questa storia me la racconta, seduta accanto a me su una panchina di Piazza San Francesco, Silvia Bottiroli, curatrice di Fuori!, progetto sperimentale dedicato all3 adolescenti, realizzato da Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale e promosso dal Comune di Bologna (fondi europei PON Città Metropolitane 2014-2020).
Se le chiedo di definire “arte pubblica”, lei risponde: «l’immagine che ho sempre in mente è la piazza. Mentre parliamo, ora, attorno accade tutto il resto, chiunque passa porta il proprio mondo, c’è rumore, campane, autobus. Mi emoziona molto la possibilità di aggiungere a uno spazio pubblico un segno che non prova a essere dominante, né cancella la presenza degli altri e il segno degli altri usi, in una negoziazione continua di usi e di valore simbolico».
Questo auspicio caratterizza l’atmosfera respirata a Fuori! Festival (6-11 giugno 2023), che ha concluso un progetto complesso durato un anno, coinvolgendo artist3 e collettivi internazionali nella guida di percorsi e nella cura di esiti performativi, generati da un denso lavoro di interrogazione del territorio e contatto con l3 abitanti e poi immessi in una settimana di festival diffuso.
Chiedo a Silvia Bottiroli quale tipo di postura il suo lavoro abbia assunto rispetto al mandato di due diverse istituzioni pubbliche. «Un progetto specifico ti dà la libertà sana di essere fedele e leale nei confronti dei committenti, e al contempo di parlare all’istituzione stessa, dando segnali e facendo sì che si interroghi sul ruolo che vuole svolgere. Se rispetto a ERT era importante aprirsi da un punto di vista artistico, invitando artist3 già legate al teatro insieme ad altr3 ancora mai arrivat3 qui, nel dialogo col Comune abbiamo lavorato su come andare oltre una distribuzione di risorse sulla città, creando un’eccezionalità in grado di generare relazioni libere poi di crescere autonomamente. C’è poi la questione della partecipazione che, come sappiamo, al livello politico è utilizzata spesso come strumento di produzione di consenso, mentre con questo progetto abbiamo cercato di lavorarci in maniera più sottile».
E infatti, tra performance, azioni, installazioni e talk, due giorni di Fuori! a Bologna lasciano soprattutto la sensazione che qualcosa (qualcuno) sia passato da qui: le opere si lasciano guardare e vivere come ultimo segno di un processo ben più complesso, che ha tentato di instaurare un dialogo con l3 giovani bolognesi per identificare quali potessero essere le tematiche più urgenti.
La riflessione ha riguardato soprattutto le mobilitazioni studentesche durante gli ultimi due anni scolastici, la rappresentatività di una città come Bologna nell’attuale scenario politico italiano, ma anche «la storia degli spazi indipendenti locali, dei movimenti sociali, per intercettare e rimettere nella discussione pubblica un possibile dialogo intergenerazionale, rimanendo specifici su ciò che la città ha raccontato, ma anche proponendo tematiche e discussioni che sembravano latenti». Soprattutto, aggiungeremmo, sintonizzandosi sulla prospettiva di chi le sta vivendo in giovane età.
Nel film The Undercurrent di Rory Pilgrim prende parola un gruppo di adolescenti statunitensi alle prese con la responsabilità della propria generazione riguardo al cambiamento climatico: in cinquanta minuti virati su colori innaturali e inframezzati da brani musicali scritti dal regista, assistiamo alla sorte di questo manipolo di giovani umani, in cui la rivendicazione (e questo è commovente e spaventoso insieme) prende presto la forma di una autoreclusione, della ricerca di un Eden suburbano, al riparo dalle piazze affollate di attivist3.
Conducendo, nella piazza calda e affollata, il Dialogo sul fare esperienza di teatro nella città riaperta, il sociologo Stefano Laffi chiarisce che «il progetto ha due anime, una artistica e l’altra educativa», declinate in tre direzioni: «dare voce, dare corpo, dare potere» all3 adolescenti. E questo è visibile in due progetti che in qualche modo si specchiano. Body of Knowledge di Samara Hersch, nel corso di un laboratorio dal preciso e discreto processo maieutico, ha enucleato una serie di domande urgenti che il gruppo di adolescenti pone in lunghe conversazioni telefoniche (individuali o di gruppo) a spettator3 adult3, unic3 ad abitare lo spazio della performance. Si parla di sogni da realizzare, emergenza climatica da contrastare, sesso da scoprire, genitori da contestare. Il mondo di questa generazione è in contatto con noi eppure distante, preda dei continui difetti di linea; ci parla da un altrove (ciascuno chiama dalla propria stanza da letto), così lontano e così vicino.
C’è poi Lucciole, la “presa di parola” collettiva a partire dalla lettera che chiude Dysphoria Mundi di Paul B. Preciado (ospite in Arena del Sole nell’anteprima del 25 maggio), che Giorgina P. cura in un reading diffuso in cuffia in uno stabilimento industriale. Concetti complessi, fortemente schierati, precisi, autorevoli, liberi ma non violenti «sono stati fatti propri», ci racconta la regista, da questo gruppo di adolescenti: in piedi, in movimento, piantati al microfono nel ripercorrere una radicale strategia di rivincita che passa dall’autodeterminazione. Nelle ore successive qualcuno si interroga sul rischio che un discorso del genere finisca per essere esclusivo e rivolto a specifiche individualità, mentre la chiave è forse credere in quel folle «ottimismo» con cui la lettera indica una strada per una gnoseologia post-umanista, che forse ci salverà, se vivremo abbastanza da vederne i frutti.
Ma Fuori! trae il proprio titolo dall’esigenza di uscire in strada. Percurso è un track play curato da Carolina Bianchi con il collettivo brasiliano Cara de Cavalo, in cui l3 giovani partecipant3 al laboratorio diventano “pifferai magici” che ci trascinano in mezzo a portici e vicoli come una folla di “topi”, al suono di sussurrati racconti sulla paura e sull’abuso, che proprio il tracciato urbano hanno spesso come teatro.
Dal 25 maggio, i passi percorsi in Via dell’Indipendenza sono scanditi dai manifesti di CHEAP, nella serie dal titolo ATTRRRRITO, una sorta di pamphlet diffuso che corregge i luoghi comuni, dialogando con il lavoro omonimo di Anna Rispoli sulle pratiche di riappropriazione dello spazio pubblico attraverso la risignificazione di messaggi e di segni, come «Il sonno della ragione genera mostri consenso» o «Questa città non è un albergo. Diritto alla città».
La città allora la attraversiamo sfogliando il catalogo di MAI+, progetto di arte pubblica curato da F. De Isabella (collettivo Strasse) che ha generato un ingegnoso atlante per opere (e fruitor3) “inconsapevoli”. «Un lavoro di framing – spiega Bottiroli – che gioca con quell’apparato concettuale che abbiamo imparato a riconoscere alle arti contemporanee»: in dieci angoli di strada tra centro e periferia lo sguardo si può fermare e, con l’aiuto di didascalie che ricordano quelle nei musei, attivare una nuova prospettiva (a volte ironica, altre volte desolante) sul respiro della città.
Su queste forme di attraversamento e di sguardo ci soffermiamo a lungo, con la curatrice, nel considerare come, anche se il contesto del festival e la sua comunicazione in parte le protegge, ci sia sempre da chiedersi quanto azioni che hanno una forte matrice di arti performative ma che non la realizzano attraverso i suoi convenzionali linguaggi possano essere viste come un evento artistico in sé e per sé. Forse l’aspetto interessante di questi contesti è che chi fruisce si senta incaricat3 di assegnare una valenza artistica a ciò che osserva. «È un crinale – spiega Bottiroli – su cui abbiamo voluto correre con questo festival. Lo spazio pubblico definisce quello che accade, a volte anche esagerando, imponendolo. Per me è necessario che quel crinale colga l’oggetto potenzialmente artistico in una sorta di continuo disequilibrio, per definire insieme in quel momento che cos’è. A consentire di creare, ed è l’aspetto importante, una forma di “politicità” è l’indecidibilità, quel momento di sospensione in cui non sai con chiarezza a quale regime appartenga ciò che stai vedendo». Come quando sei sedut3 in panchina e ti trovi in mezzo al campo da gioco.
Sergio Lo Gatto