Atlante di un viaggio teatrale. Spunto è il sottotitolo del libro O/Z su Fanny & Alexander che Ubulibri ha dedicato al loro percorso sull’opera di Lyman Franz Baum, che ieri Chiara Lagani e Marco Cavalcoli, hanno presentato in questo terzo giorno testaccino di Short Theatre, all’ora dell’aperitivo. Atlante. Una mappatura del teatro che esiste. Quanto sarebbe bello poter fare un viaggio simile. Scrivere un racconto picaresco e onirico che racconti tutte queste diversità, poetiche in contrasto, amori e dolori che dell’arte sono forze generatrici. Una fiaba, una fiaba ci vorrebbe. E invece non ne scriviamo che didascalia. L’attraversiamo parlando di tutto: spazi, ruoli, finanziamenti. Ma parlare dei contenuti, questo mai. Perché lì sarebbe il dolore di non trovarne. E un teatro pieno di gente che lo fa, non si dirà mai da solo di essere vuoto. La forza della persuasione, quella della massa.
Teatro politico, tanto per cominciare. Quanto mi piace uccidere… di Virginio Liberti di Egumteatro/Gogmagog è un testo, una scena seminuda, un attore formidabile. Lo vidi a Radicondoli questa estate, allego recensione. Ricordo uno spettacolo minuto che trae la forza dall’assenza di orpelli, lasciando cadere a terra tutta la gravità di quanto racconta. Storia di un politico toscano, il sottotitolo. Ecco, appunto: politico è questo teatro. Mi torna in mente questa parola – politico – anche perché a seguire c’è una ragazza che ho già visto, che non mi convinse troppo appena vinto l’ultimo premio Scenario per Ustica 2009, ma che sono qui per rivedere. Marta Cuscunà da Monfalcone, città operaia. Ed è importante dirlo. Il suo È bello viver liberi! è la biografia di Ondina Peteani staffetta partigiana. Di Ondina è la storia di una educazione politica, dall’entusiasmo al dolore, dall’adolescenza alla responsabilità, che la porta a crescere troppo in fretta sotto lo sguardo di una guerra. Lo spettacolo ha una forte impronta letteraria ma l’attrice, sola in scena, ha l’energia per evitare l’appiattimento che ne verrebbe. Perché a certe storie siamo abituati dal realismo sospinto, non ci tocca più Auschwitz o il vento di guerra, alla cui retorica antidialettica abbiamo in tanti anni affidato la nostra maturazione civile. Quello della Cuscunà è un tocco che mi interessa perché attraversa una linea che ondeggia tra la delicatezza e l’ingenuità, è maturata molto però non sconfigge l’idea di piccola timidezza che già avevo l’anno scorso, ma forse è il suo modo e nulla più, di maturare attraverso i piccoli passi. Le scelte migliori quelle legate al teatro di marionette, meglio la comicità dei burattini però del lager gotico con cui sembra avere meno familiarità. Qualche dubbio me lo lascia l’interpretazione su toni di eccedente entusiasmo, ma comprendo la difficoltà tematica e il desiderio di resa popolare, poi la lunga gittata che, per capitoli, rischia una caduta nel naturalismo che però lei prova in ogni modo a contrastare. E tanto mi basta per credere in questo lavoro. Poi vabbè, il suo fazzoletto rosso certi brividi ancora li tira fuori…
Nella seconda sala Fanny & Alexander, Chiara Lagani e Luigi De Angelis, ci aspettano per il loro West, decimo capitolo del progetto legato al Mago di Oz, da cui il libro a inizio articolo. Luci accese in sala, Francesca Mazza è Dorothy, da sola in scena per un tavolo e una sedia. Un foglietto di sala ci dice che si tratta di un esperimento: avrà la Mazza due auricolari, nel primo una voce le dirà di eseguire gesti convenzionali, nell’altro l’altra voce le suggerirà parti di testo. Questo il loro esperimento. Il mio è tentare una analisi che sia insieme rispettosa degli alti obiettivi del loro lavoro e rispettosa del mio ruolo di traduzione. Assicuro a chi legge che non è facile, per nulla. L’analisi mi porta a dire che si tratta di un lavoro straordinario sul disturbo, sulla persuasione occulta (come segnalato) e sulla conseguente percezione dell’attrice in scena e, a lei attraverso, del pubblico in sala. Francesca Mazza è di indicibile bravura, la fusione musicale di Mirto Baliani attraversa entrambe le percezioni rendendole esperienze vitali, come nel caso della voce di Judy Garland nel film di Fleming su Oz, che cerca di intervenire dolce nella distorsione, fallendo. La reiterazione della paura è la perdita di punti cardinali – a dispetto del titolo e forse anche per questo –, il risultato della persuasione che è insieme disturbo e seduzione, ansia e penosa rassegnazione. La sensazione è un processo di distorsione elettronica che va in senso contrario rispetto alla pulsazione del cuore: sembra non il cuore che produce, ma un agente esterno che interviene su di esso a provocarne il sussulto. Eppure – e proprio per questo – sono costretto a dire di no, per pura incompatibilità intellettuale. No a questo spettacolo della suggestione che ha come finalità la stessa suggestione. Lo stimolo casuale definisce la natura di quel che chiamiamo esperimento, tentativo che cerca di riuscire, mentre invece quel che chiamo esperienza è la riprova di un continuo e necessario fallimento, perché l’esperienza ha a che fare con la perfettibilità dell’umano almeno quanto l’esperimento è per contrasto sovraumano. Per questo credo, ma senza certezze effettive è chiaro, che l’esperimento West in quanto tale sia di straordinaria intelligenza, ma allo stesso livello razionale di come lo è l’enigmistica. L’esperimento richiama alla scienza, l’esperienza all’emozione.
Servirebbe davvero, quell’Atlante. Perché direzioni eterodosse, a volte antitetiche, possano coesistere e – detto in termini più semplificati possibile – volersi bene, stringersi in una comunità davvero che abbia come sola riconoscibile codice l’essere tutti umani. Il teatro ne è l’arte più prossima. Claudia Sorace è curiosa, ti guarda dritto negli occhi quando parla, non riesci a staccare l’attenzione, come lei da te quando ascolta: alla fine di un lungo discorso sul desiderio interventista e la voglia di smettere tutto, sull’arte e il sistema che la governa, respiriamo ad accorgerci che sì, forse stiamo sbagliando direzione, in tanti e in qualsiasi direzione artistica ci si riconosca, e forse la forma al contenuto deve ancora molto. Lascio lei e Riccardo di fronte al bio-bar del festival, i Muta Imago. Riccardo mi tende la mano: “in bocca al lupo per la tua battaglia”. Lo guardo stringendola: “Riccardo – gli dico – la battaglia è la stessa tua”.
Simone Nebbia
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