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Attraversare le pratiche decoloniali. FOG Triennale Milano

Un approfondimento tra prospettive decoloniali e orizzonti in cui la pratica artistica rivela ancora la possibilità di agire il mondo per trasformarlo. A partire da FOG Triennale Milano Performing Arts  che, sei anni dopo la prima edizione, continua a imporsi sulla scena milanese per la propria programmazione contemporanea ibrida, che integra diversi linguaggi: teatro, danza, cinema, musica e performance. 

Limbo – Foto di Lorenza Daverio

«Decolonizzare e decolonializzare. I due termini sono simili. La loro genealogia, il loro uso, le immagini a cui fanno riferimento invece no. Ma soprattutto, il primo verbo ti permette di farti qualche sconto, il secondo no. L’idea che mi sono fatta è che il verbo decolonizzare, usato oggi come termine per rigettare i rapporti di dominazione, di sottomissione e di dipendenza radicati col sistema coloniale, rimandi direttamente ad una postura anti-coloniale. Tuttoggiusto. Però non basta.» Rachele Borghi delinea così i margini di una questione complessa, affrontata con sguardo critico nel suo libro Decolonialità e Privilegio, edito nel 2020 da Meltemi. La studiosa, nello scandagliare l’origine e le implicazioni politico-sociali dei due termini si addentra in un territorio che appare ancora inesplorato oggi, soprattutto nella cultura e nel campo delle arti, e solleva alcuni interrogativi che richiedono d’essere approfonditi. Innanzitutto, perché parlare oggi di decolonialità? È a partire dal concetto di post-colonialismo che ci si rende conto di un primo fraintendimento lessicale: quel post, seppur indichi una fase temporale successiva al colonialismo, di superamento, non significa che del colonialismo l’uomo contemporaneo sia riuscito a liberarsi. Basti pensare alle attuali situazioni in Mali e in Burkina Faso, paesi dell’Africa che da anni portano avanti una lotta per affrancarsi dal dominio francese. In tal senso, si è spesso usato il termine di Françafrique per descrivere il particolarismo delle relazioni che la Francia stabiliva (e stabilisce ancora come delineato dal ricercatore Camillo Casola nell’articolo pubblicato online Africa: Françafrique davvero al capolinea?) con le ex colonie dell’Africa subsahariana. La parola, nonostante sia stata coniata con accezione positiva, ha assunto in seguito dei connotati dispregiativi, perché alludeva alle dinamiche oppressive e di sfruttamento che la potenza europea operava sulle ex colonie per mantenere su di esse un vantaggio economico. In realtà, si tratta di una situazione diffusa ed estendibile, perché riguarda anche altri paesi del mondo ritenuti marginali all’interno delle politiche globali. Ed è una situazione che chiama in causa, in primo luogo, la produzione dei discorsi, in quanto affronta la questione di chi parla e di chi ha diritto alla parola, di chi racconta e di chi stabilisce le regole della narrazione. Secondo quali dinamiche, allora, è possibile invertirle, reinventarle e ricostruirle?

How a Falling Star Lit Up The Purple Sky – Foto di Philip Frowein

Anche il teatro e le arti performative, in quanto luoghi della sperimentazione e della rappresentazione, riflettono queste logiche. Nel costituirsi come agenti produttori del discorso, nel restituire continuamente un’immagine dell’Altro da Sé e nel mettere al centro lo statuto del corpo, questi linguaggi partecipano a pieno diritto al dibattito sul post-coloniale e possono modificarne gli esiti lavorando a partire da una proposta (e prospettiva) decoloniale. Dunque, aprire delle fratture nella cristallizzazione del reale e mettere in discussione gli assunti stabiliti dalle potenze egemoniche. A Milano, è FOG Triennale Milano Performing Arts a prendere le redini di questo discorso; attraverso l’intersezione eclettica tra linguaggi – che attua quello sconfinamento tra discipline come teatro, danza, cinema, musica e performance – il festival accoglie le trasformazioni del mondo e ne restituisce una spettrografia non uniforme e suggestiva, problematicizzata attraverso le pratiche di «una moltitudine di sguardi, corpi e voci», nelle parole del direttore artistico Umberto Angiolini. In particolare, all’interno della programmazione sono tre gli spettacoli che hanno catturato l’attenzione, perché autori di un ripensamento dei codici di rappresentazione e di un personale riposizionamento nei confronti dell’Altro da Sé, grazie anche ad una presa di consapevolezza delle proprie origini.

Limbo – Foto di Joana Linda

S’inserisce su questa scia la performance vibrante e dall’alta temperatura emotiva di Victor de Oliveira, portata a febbraio negli spazi del Teatro Out Off di Milano. In Limbo, l’artista affronta le radici della propria identità mista (definita melting pot) ripercorrendo l’intrecciata genealogia dei propri antenati e riscoprendosi mozambichiano per il ramo materno, portoghese per quello paterno. Al centro del suo racconto, però, l’identità è uno scavo doloroso, qualcosa di eternamente scisso tra la definizione del Sé e il riconoscimento dell’Altro. Eppure, nella continua lotta per l’affermazione della propria esistenza, Victor riesamina la storia personale al vaglio di quella collettiva («La colonizzazione portoghese non fu compiuta con la croce né con la spada ma piuttosto con il sesso»), si mette in discussione per condurre un’acuta riflessione sui rapporti di subalternità che legano popolo colonizzatore e popolo colonizzato (rapporto iscritto nel proprio corredo genetico). All’interno del contesto che ci viene delineato, il razzismo e la disparità dei diritti diventano condizioni normalizzate, tanto esposte quanto latenti, perché alimentate da un modello educativo consolidato che riflette e intensifica le dinamiche di potere. Alla fine dello spettacolo appare naturale chiedersi: come l’educazione e la società mostrano oggi l’altro? E quanto la questione dell’origine è connessa a quella identitaria? Per rispondere a questi interrogativi de Oliveira si avvale dell’esempio di alcuni paesi come Francia e Portogallo, in cui vive e lavora, ma estende il discorso a tutti quegli Stati che ancora non accettano consapevolmente il proprio passato coloniale. Parte da una narrazione che sfugge alle tendenze di appropriazione occidentale e compie un passo fondamentale nel processo di autorappresentazione: destituire un paradigma e agire da sé per occupare lo stesso posto delle voci dominanti.

How a Falling Star Lit Up The Purple Sky – Foto di Philip Frowein

Il ruolo del linguaggio performativo assume una connotazione diversa nello spettacolo How a Falling Star Lit Up The Purple Sky del regista Jeremy Nedd e del collettivo Impilo Mapantsula: invece di denunciare il colonialismo attraverso le marginalità identitarie, il loro lavoro insiste sul risultato di un’eredità da preservare, in cui il genere western penetra la pantsula, danza sudafricana nata negli anni Cinquanta e affermatasi nei sobborghi durante il regime dell’apartheid. In un articolo su Esquire del 2017 viene sottolineato il ruolo primario che questo ballo ha avuto nella creazione dell’identità popolare sudafricana. Più precisamente si tratta di «un movimento di controcultura, che viene diffuso dalle gang di tsosi nelle township. Un atto di ribellione, una maniera per trovare una possibilità espressiva lì dove le possibilità espressive non c’erano». Così, sullo sfondo di un tramonto dalle tonalità calde e intense (a purple sky), i danzatori articolano movimenti ritmici improvvisi, prima conducendo degli assoli e poi riunendosi in due gruppi e instaurando un dialogo di domande e risposte con il solo linguaggio del corpo. I fischi, i richiami, il battito di mani e piedi attingono al sostrato di una cultura black che scardina l’immaginario cinematografico del cowboy hollywoodiano per rileggerlo sotto una nuova luce e offrire una nuova prospettiva di coesistenza.

Bianchi Hoesch – Foto di soukizy.com. Sissoko – Foto di Benoit Peverell

A superare questa dicotomia tra culture sono i suoni prodotti da due musicisti, Lorenzo Bianchi Hoesch e Ballaké Sissoko in Radicants: i riverberi elettronici del sound design di Lorenzo amplificano ed espandono le dolci vibrazioni sonore della kora di Ballaké, superando l’opposizione tra media diversi e relative storie. La ricerca di una coesione nelle tracce di questi strumenti è, qui, un atto di resistenza (richiamato dallo stesso titolo) che evita la conflittualità per abitare invece la dimensione creativa della condivisione. È in questi termini che la studiosa Erika Fischer-Lichte parla di interculturalità (nel contributo critico dal titolo Intrecci fra le culture performative ripensando il “teatro interculturale”. Per un’esperienza e teoria della performance oltre il post-colonialismo*) come di un movimento processuale in grado di trasformare spazi, discipline e corpi senza che le differenze vengano appiattite o omologate. In quest’ottica il teatro si configura come vero luogo dell’ in betweeness e dell’esplorazione tra linguaggi scenici, nel tentativo di andare oltre la stessa prospettiva post-coloniale. Lorenzo Bianchi Hoesch e Ballaké Sissoko interiorizzano questo porsi tra diverse culture e ne assimilano gli aspetti problematici proponendo una soluzione sonora piena e potente, forse l’orizzonte di una prospettiva decoloniale che questo articolo certamente non esaurisce, ma che ci si auspica possa essere ancora indagata e approfondita.

*in Thinking Theatre. New Theatrology and Performance Studies a cura di Gerardo Guccini e Armando Petrini, Atti del convegno internazionale di studi, Torino, 29-30 maggio 2015.

Andrea Gardenghi

Visto a FOG Triennale di Milano – febbraio, marzo, aprile 2023

 

LIMBO

Ideazione, testo, interpretazione: Victor de Oliveira / collaborazione drammaturgica: Marta Lança /musica, creazione del suono: Ailton Matavela (TRKZ) / progettazione video: Eve Liot / disegno luci: Diane Guérin / funzionamento delle luci: Sandra Rouault / assistente: Miranda Reker / foto: Joana Linda / produzione: En Votre Compagnie / coproduzione: Teatro do Bairro Alto (Lisbona), Théâtre national de Bretagne (Rennes) / con il sostegno di: Roundabout.LX (Lisbona), Le CENTQUATRE-PARIS, La Colline – Théâtre national (Parigi), Le Grand T – Théâtre de Loire-Atlantique (Nantes)

HOW A FALLING STAR LIT UP THE PURPLE SKY

Ideazione, coreografia: Jeremy Nedd / performance, coreografia: Sicelo Xaba, Vusi Mdoyi, Sello Modiga, Thomas Motsapi, Sonakele Masethi, Kgotsofalang Moshe, Vuyani Feni, Sibongile Mathebula, Elma Motloenya, Jeremy Nedd / disegno luci, direzione tecnica: Thomas Giger / scenografia, direzione tecnica: Laura Knüsel / design del suono: Fabrizio Di Salvo, Rej Deproc / consulenza musicale: Brandy Butler / costumi: Rosa Birkedal / drammaturgia: Anta Helena Recke / gestione della produzione: Regula Schelling (produktionsDOCK) / tour manager: Caroline Froelich (Moin Moin Productions) / coproduzione: Kaserne Basel, Arsenic – Contemporary Performing Arts Center (Losanna), Internationales Sommerfestival Kampnagel, Wiesbaden Biennale, The Centre for the Less Good Idea (Johannesburg)

RADICANTS

Elettronica, direzione artistica: Lorenzo Bianchi Hoesch / kora: Ballaké Sissoko / disegno luci: Gilles Gentner / direttore del suono e delle luci: Jean-François Domingues / produzione: Fondation Royaumont / coproduzione: CIMN – Détours de Babel, gmem-CNCM-marseille, Fondation Camargo / con il sostegno di: SACEM, ADP Group, Fondation Daniel et Nina Carasso, Maison de la musique contemporaine

 

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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