Ad aprile il Biondo di Palermo ha ospitato in prima assoluta Centoventisei, per la regia di Livia Gionfrida, tratto dal romanzo di Claudio Fava ed Ezio Abbate. Lo spettacolo è in replica al Teatro Stabile di Catania
Tratta dall’omonimo romanzo di Claudio Fava ed Ezio Abbate, la pièce Centoventisei, per la regia di Livia Gionfrida, ha da poco debuttato al Biondo in prima assoluta. Com’è facile intuire dai nomi degli autori, la vicenda ruota attorno a un fatto di mafia: la strage di via d’Amelio, alla cui organizzazione questo dramma allude. Il tema è molto presente all’interno della produzione drammatica siciliana contemporanea, e ciò è senz’altro l’esito di una straordinaria conquista storica. Tuttavia, la maggiore distanza dai fatti ci consente e ci impone di mettere in discussione certe narrazioni ormai consolidate, spesso accettate come valide solo per la loro ispirazione civile. Consideriamo la recente assoluzione, da parte della Corte di Cassazione, di carabinieri e politici (tra cui Marcello Dell’Utri, ex-senatore PdL) coinvolti nella cosiddetta “trattativa Stato-Mafia”. Oggi più che mai, bisogna entrare un po’ più criticamente nel merito di questi racconti.
Procediamo con ordine. Centoventisei ruota attorno a un misterioso furto: quello di una Fiat 126, appunto. Non è una vettura qualunque. Si tratta della macchina impiegata nell’attentato di cui furono vittima Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina). Intorno a questa vicenda si svolgono le esistenze di tre individui: Gasparo (David Coco), sicario incaricato della rapina, sua moglie Cosima (Naike Anna Silipo) e Fifetto (Gabriele Cicirello), un giovane appena entrato dal basso nel sistema. Tutto si svolge in un solo giorno, denso di episodi: una gita al mare, una morte, il recupero dell’automobile, un’altra morte. La regia di Gionfrida alterna con sapienza la cruda emotività dei dialoghi tra i protagonisti a momenti performativi coinvolgenti e intermezzi lirici, caratterizzati da una sospensione surreale. La stessa sospensione è un dato fisico, della scena (sempre di Gionfrida): lo sportello della macchina incriminata è appeso nel vuoto, come una spada di Damocle; sul nulla sembrano poggiare cumuli di spazzatura e copertoni rotanti, i quali sintetizzano in un’immagine anni di abusivismo e lottizzazione selvaggia. Tra questi oggetti, gli interpreti attraversano il palco in ogni verso. Le direttrici del loro passaggio sono nette, parallele, incidenti. Le conversazioni sono quotidiane, quasi banali, se non fossero anche queste circondate dalla presenza della carneficina imminente. Quando la morte diviene più percepibile, palpabile, le parole si scaldano fino a esplodere, come colpi di pistola, su toni alti e tesi. In questi viene canalizzata l’aggressività, la rabbia sociale, il senso di frustrazione per un sistema che, nella sua banalità, si impone come assoluto e invariabile. Le interpretazioni sono convincenti: colloquiali, allucinate, esasperate, custodiscono un’elemento di genuina freschezza popolare.
Tutto risponde a una misura ben calibrata, in grado di vivacizzare una vicenda altrimenti statica. Messe da parte le buone scelte registiche e le valide prove attoriali, il problema appare di ordine narrativo. In Centoventisei il tentativo di raccontare la mafia da una prospettiva non usuale – quella degli ingranaggi più piccoli del meccanismo – non sembra sufficiente a scardinare certi stereotipi ormai consueti, non più adatti a descrivere il fenomeno nei suoi successivi sviluppi storici. Sono presenti tutti gli ingredienti di una perfetta fiction, a partire dall’ambientazione pittoresca fino alle caratterizzazioni dei personaggi. Sul primo fronte, la topografia palermitana, declinata con importuno compiacimento in tutti i suoi lemmi più noti (Mondello e il suo Charleston, il litorale da cui non si accede al mare per via dei rifiuti, vari nomi di vie), è sciorinata con insistenza didascalica. I luoghi della città si rincorrono tra le battute dei personaggi fino al feticismo, e dipingono quasi con ingenuità un paesaggio esotizzante carico di dettagli turistici, in conflitto con la scena elegante e minimale della regia. Per quanto riguarda il secondo versante, vale poi la pena soffermarsi sul personaggio femminile, ovviamente legato a una maternità delicata e complessa. Cosima si ribella a quanto accade solo per il bene del nascituro: oltre il suo essere madre, la donna non sembra possedere altri attributi.
Siamo troppo abituati alle rappresentazioni di donne silenziose o, al contrario, di donne ribelli alle attività mafiose di padri, mariti, fratelli. Ciò sembra eco di una sentenza del Tribunale di Palermo del 1983, dove si affermava che una donna, appartenente a una famiglia di mafiosi, non avesse «ancora assunto una tale emancipazione e autorevolezza da svincolarsi dal ruolo subalterno». Ma Alessandro Bellardita osserva come sentenze di questo tipo abbiano «contribuito a sminuire le donne tratteggiandone un’immagine di subalternità estesa al piano psicologico, come se le donne non fossero di per sé in grado di avere un’autonomia nelle scelte personali […] sancendone a priori un’innocenza ontologica». Certo, molte sono le donne che hanno contrastato il sistema: Pietra Lo Verso, Michela Buscemi, le più note Piera Aiello e Rita Atria, giovanissima suicida. Ma ancora non si riesce a descrivere, tra questi due estremi, la crescente responsabilità delle donne all’interno delle organizzazioni criminali: mogli, madri, sorelle svolgono anche funzioni di «corrieri della droga, mediatrici finanziarie, messaggere e, infine, cape clan».
Insomma, il racconto sulla mafia si è ormai cristallizzato su luoghi ormai stanchi e troppo comuni. D’altronde, di fiction Abbate e Fava se ne intendono, se li troviamo tra gli sceneggiatori di vari prodotti distribuiti dalla Fininvest dei Berlusconi. Per il secondo autore, ricordiamo ad esempio Il capo dei capi, serie alla quale si deve il merito di avere presentato il boss Totò Riina (Claudio Gioè) come un imprenditore inarrestabile e carismatico. Siamo ben oltre I cento passi, insomma. Anche in Centoventisei, la mafia è ancora quella degli anni Novanta, legata alla presenza dei corleonesi a Palermo. Ma Cosa Nostra non è la sola mafia esistente: pensiamo alla più rurale Stidda, ancora troppo sconosciuta, attiva nella Sicilia centromeridionale attraverso quel caporalato cui dobbiamo parte degli ortaggi e della frutta sulle nostre tavole. Non si intende svolgere un processo alle intenzioni, sostenere che si debbano tralasciare in blocco i fatti più noti per dedicarsi ad altro. Si contesta la continua riduzione della mafia a bene vendibile, troppo distante da una necessaria riconsiderazione storica e dalla messa in discussione di altre responsabilità. Tutto è troppo compreso nelle aspettative del pubblico, ormai abituato alle facili suggestioni televisive.
Tiziana Bonsignore
Teatro Biondo, Palermo – Aprile 2023
Date tournée in calendario
28 aprile – 7 maggio 2023 teatro Stabile di Catania
CENTOVENTISEI
di Claudio Fava ed Ezio Abbate
drammaturgia, scene e regia Livia Gionfrida
con David Coco, Naike Anna Silipo, Gabriele Cicirello
assistente alla regia Giulia Aiazzi
disegno luci Alessandro Di Fraia
direttore di scena Angelo Grasso
coordinatore dei servizi tecnici Giuseppe Baiamonte
elettricista Mario Schillaci
macchinista Giuseppe Macaluso
sarta Caterina Ingrassia
assistenti alle scene e ai costumi Giulia Lo Monaco e Martina Nania, allieve dell’Accademia di Belle di Arti di Palermo
amministratore di compagnia Andrea Sofia
produzione Teatro Biondo Palermo / Teatro Stabile di Catania