| Cordelia | febbraio 2023
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo.
#VICENZA
L’ARTE DELLA FUGA (di Mauro Astolfi)
È un teatro strapieno di un pubblico generoso quello del Teatro Comunale Città di Vicenza, al debutto assoluto del nuovo lavoro di Mauro Astolfi, L’Arte della Fuga per la Spellbound Contemporary Ballet, primo appuntamento di Danza in Rete Festival. In circostanze come queste si percepisce forte la situazione felicemente dinamica della danza nei teatri italiani (sarà difficile, quindi, trovare alibi ai mercanti di sventura). La partitura scelta da Astolfi è Die Kunst der Fuge di J. S. Bach (BWV 1080), opera incompiuta e senza destinazione strumentale (ora sembra acquisito fosse per clavicembalo). Qui la si ascolta limpida e modernissima, tra pianoforte e gruppo strumentale con appropriati inserti cantati, e gli efficaci interventi originali di Davidson Jaconello. La scena è dominata da alcune cupe e imponenti pareti, mobili e scomponibili, che in qualche modo dettano il tempo della crisi, della disfatta delle presenze che animano la scena, nonmeno del tempo della fuga e del mimetismo negli interstizî o nelle incrinature di un tale assedio. Una fuga non solo spaziale, ma anche dagli abiti che costringono il corpo, dagli oggetti che catturano le anatomie, dalle presenze perturbanti che divorano. Il progetto compositivo di Astolfi resta però irrisolto in una duplice tensione. Ossia, tra una necessaria intensificazione drammaturgica (ancóra esile e non dirimente: il tappeto/prato verde arrotolato portato dalla platea sul palco, all’inizio, che solo alla fine si srotola, vittorioso, in un difficile varco tra i muri, come un’isola di natura che accoglie e salva). O invece una più disseminata astrazione, in una gestualità già molto matura, in termini di stile e di segni, estremamente nervosa e veloce, che potrebbe sperimentare un’intera performance di fughe nella bella qualità e continuità di movimento dei nove incredibili interpreti. Vi è una declinazione ‘ascetica’ nella scelta di Astolfi di quest’opera bachiana, ma di nuovo è nei corpi (non nei simboli) che Bach si trasforma in un atto di resistenza. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Comunale di Vicenzacoreografia Mauro Astolfi interpreti Lorenzo Capozzi, Alessandro Piergentili, Miriam Raffone, Maria Cossu, Mario Laterza, Giuliana Mele, Mateo Mirdita, Anita Bonavida, Martina Staltari assistente alla coreografia Alessandra Chirulli musica J. S. Bach musica originale Davidson Jaconellodisegno luci Marco Policastro set concept Mauro Astolfi, Marco Policastro produzione Spellbound coproduzione Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza e Fondazione Teatro Comunale di Modena
#MILANO
PALMA BUCARELLI E L’ALTRA RESISTENZA (di Cinzia Spanò)
Siamo al Teatro Elfo Puccini, ma l’ambiente in cui ci ritroviamo è uno spazio ibrido, di fermento, di azione sotterranea, nascosto e dimesso, dove l’arte comincia a ricoprirsi di nera e granellosa fuliggine. Il palco è un raccoglitore di pochi oggetti – una torcia, lampade industriali, un busto di scultura, una valigetta, un telefono – e in lontananza si avverte l’eco di un boato, sullo sfondo di un cielo dalle vaporose nuvole grigie. Sono nuvole cariche di tragedia, si tingono di verde come indizi di un’oscurità imminente, di ombre rosse per una guerra che con i suoi bombardamenti si estenderà anche in territori ai margini del conflitto. Cinzia Spanò è l’elemento catalizzatore di questa scenografia (curata da Saverio Assumma De Vita): regista e protagonista dello spettacolo, nelle vesti scarlatte di Palma Bucarelli è la direttrice della Galleria d’Arte Moderna di Roma, figura che ha operato di nascosto come “altra resistenza” per mettere in salvo le opere d’arte dalle traiettorie distruttive della Seconda Guerra Mondiale. Di lei, l’attrice assorbe l’assoluta risolutezza, lo sguardo intenso e vigile, la voce modulata da note profonde e vigorose, per passare in rassegna le delicate fasi della salvaguardia del patrimonio artistico italiano. Il risultato è un tessuto documentario che ha il compito di ricostruire una narrazione a partire dall’oggetto dei suoi frammenti. Si tratta di un preciso esercizio di recupero: dei materiali video e cartacei, ma anche dei sostrati simbolici, in quanto riscatta il potenziale di riemersione di un personaggio femminile a partire da una memoria storica convulsa e stratificata che privilegia, da sempre, il nome di grandi uomini. Come terzo capitolo di una serie di ritratti teatrali, Palma Bucarelli e l’altra resistenza è la fedele restituzione di una storia individuale che plasma un patrimonio collettivo (una storia attuale e non ancora narrata). Eredità di un’arte eterna che proviene dalla vita e ad essa sempre vi ritorna. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di e con Cinzia Spanò, liberamente ispirato a fatti realmente accaduti, aiuto regia Valeria Perdonò, allestimento tecnico Giuliano Almerighi, video Francesco Frongia, sound designer Alessandro Levrero, scene e costumi Saverio Assumma De Vita, valzer in A Minor Roberta Di Mario, produzione Teatro dell’Elfo. Foto di Laila Pozzo
IN CROCIERA (di Kronoteatro)
Nel nuovo lavoro di Kronoteatro, In crociera, cinque personaggi coabitano la scena spoglia e dalle tonalità blu/oceaniche di un villaggio turistico, dove tutto vagheggia tra il vacuo divertimento e una sfrenatissima allegria cacofonica. Una presenza robotica fuoricampo ha il compito di riscattarli dal personale tedio esistenziale: Alfredo (voce interpretata da Ferdinando Bruni), nella proiezione mentale dei turisti, è l’unica vera anima (seppur senza corpo) della vacanza, punto di riferimento del loro svago indotto di cui scandisce, dall’alto della scenografia, le attività della giornata – balli di gruppo, yoga, canzoni e giochi comunitari – come fossero gli ingredienti di una ricetta per la felicità. Ma nella scrittura vorace di Fiammetta Carena si tratta di una felicità scarnificata da ombre scure, esuberante nelle forme, banale e vuota nei contenuti. Il testo raccoglie con amara ironia gli indizi di una profonda inquietudine, ma attraverso i ritratti fortemente stereotipati riesce a ricostruirne soltanto dei margini indefiniti. Rispetto a questo meccanismo narrativo tipizzato, a tratti scivoloso, risulta più acuto il lavoro registico enfatizzato dalle luci di Alex Nesti, in cui le ipocrisie sociali vengono smascherate dal dettaglio dell’isolamento nei monologhi dei cinque protagonisti: di essi, rimane la vuotezza di due signori (Maurizio Sguotti e Consuelo Barilari) che tentano invano di anestetizzare la tragicità del reale, lo spaesamento di due giovani (Viola Lo Gioco e Filippo Tampieri) soffocati dall’ansia e dal disagio sociale, l’indifferenza di un infermiere (Tommaso Bianco) che usa il cinismo come veicolo di denuncia nei confronti di ciò che lo circonda. La crociera in lontananza diviene così unico appiglio visivo all’infinitezza di un orizzonte di fittizia euforia, ma anche premonizione di naufragio, minaccia di un incontro con l’altro, irruzione violenta della realtà in un mondo dimentico di cui rimangono solo i resti sul fondo del mare. (Andrea Gardenghi)
Visto al Pim Off. Crediti: di Fiammetta Carena, regia Maurizio Sguotti, con Tommaso Bianco, Viola Lo Gioco, Consuelo Barilari, Maurizio Sguotti e Filippo Tampieri, voce registrata Ferdinando Bruni, spazio scenico Kronoteatro e Francesca Marsella, costumi Francesca Marsella, suono Hubert Westkemper, responsabile tecnico e disegno luci Alex Nesti, fonica Luigi Gabriele Smiraglia, movimenti Nicoletta Bernardini, produzione Kronoteatro, con il sostegno di PimOff. Foto di Luca del Pia
INK (di Dimitris Papaioannu)
Al termine, lunghi, immobili, prolungati e sentiti inchini. (Sarà che con tutta quell’acqua attorno c’è pure il rischio di rompersi il collo. Meglio quindi stare fermi.) Eppure. Gli applausi sono un momento di realtà. (I Trocks ci durano a volte più della stessa performance!) L’inchino è convenzionale, terminale, sempre un po’ troppo impegnativo se mostrato come dovuto, se dissimulato, in fondo sopravvalutato. Questi invece di Dimitris Papaioannu e Šuka Horn, al termine di Ink visto in Triennale, proprio no. Sembrano concentrati, intensificati di energia, nella stasi ancóra tutti pieni d’azione. Tale è infatti la memoria di questo straordinario lavoro (rifatto quest’anno più compatto e denso, e funziona) pieno d’acqua e di ombre, e di buio, senza quasi transizioni. La scena è composta da un irrigatore che bagna e ribagna la scena, da uno sfortunato giradischi e un vinile, ed è circondata da pareti di nylon opaco: una serra verticale, una caverna illuminata, un pozzo pieno d’aria. Le immagini ossessivamente create collegano riflessioni estremamente «universali», tutte ben documentate nel largo programma a stampa. Immagini con le quali Papaioannu interroga la vita in un’evocazione scenicamente perfetta, tra cui: lotta con l’angelo, conflitto padre e figlio, assillante nudità sempre un po’ patinata, un vago erotismo fetish e culto leather alla Tom Finland, la maternità aliena, l’inchiostro che schizza dai polpi battuti per ammorbidire il mondo. L’immaginario convocato è sì mitologico ma anche un po’ da Grande Magazzino; Alberto Savinio scriveva: «In Grecia, si sa, come da Upim, si trova tutto». E il rischio è quello di una perfezione garantita, una solarità che non brucia, un idealismo impolitico un po’ farmaceutico, un nobile, prolungato inchino alla nostalgia tornasole. Papaioannu, però, è un Balzac della danza, perché al centro del suo lavoro c’è sempre la condizione umana: è in possesso di tutto un nuovo modo di progettare la creazione, e ciò dovrebbe bastare a fornire la prospettiva ironica da cui traguardare a un riscatto nel presente, di un’amorosa pietà del passato. (Stefano Tomassini)
Visto a Triennale Milano produttore creativo ed esecutivo, assistente alla regia Tina Papanikolao regista associato Haris Fragoulis training degli interpreti Šuka Horn foto, video Julian Mommert musica registrata da Teodor Currentzis, orchestra MusicAeterna nome dell'opera dato da Aggelos Mendis polpi creati da Nectarios Dionysatos designer visivo associato Evangelos Xenodochidis maestro degli oggetti di scena,
FRATERNITÉ, CONTE FANTASTIQUE (di Caroline Guiela Nguyen)
È una spettrografia lacerante e inquieta quella che la regista Caroline Guiela Nguyen ricrea all’interno del Piccolo Teatro Strehler di Milano. In Fraternité, conte fantastique la storia evolutiva del mondo è proiettata in un futuro distopico, dove il peso specifico del dolore è destinato a dividere per sempre chi se ne va da chi resta. La scena poi, nei dettagli curati da Alice Duchange in collaborazione con Atelier du Grand Théâtre de Loire-Atlantique, è un luogo dell’infanzia protetto e dalle pareti disegnate. Qui, i superstiti rimasti in vita dopo una luttuosa eclissi raccolgono la propria solitudine nell’elaborazione del vuoto che il senso di perdita comporta. Qui, un’organizzatissima agente della NASA ne monitora i pericolosi effetti, tra sussulti del cuore e del cosmo. Il palco si trasforma così in un’arena, spazio dilatato in cui tredici vite s’intrecciano nei tentativi quotidiani di reagire al dolore e dove la memoria si rivela essere l’unico impedimento al ri-trovarsi. È in questo luogo empatico che vengono registrate le dinamiche sociali, le dialettiche di scontro/incontro tra i personaggi, i gesti di cura. La narrazione, sviluppata dalla regista assieme a tutta l’équipe artistica, è accompagnata dall’elemento musicale cantato e sostenuta da quello video, che assume sul palco un ruolo psicanalitico, contenitore e al tempo stesso canale liberatorio del ricordo; esso riavvolge fantascienza e documentarismo in una pellicola che li fa perfettamente convivere. Alla realtà – un lavoro di ricerca che Caroline Guiela Nguyen porta avanti da anni nei centri di cura di Minkowska e Primo Levi di Parigi – subentra dunque la finzione della messinscena; è questa la tensione strutturale “eternamente sospesa” che unisce il multiculturalismo di volti e lingue ad attori professionisti e non, affinché la fraternità “possa essere un processo, un progetto che pone la domanda sull’alterità”, un atto comunitario, un valore umano, un ideale politico. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Crediti: testo e regia Caroline Guiela Nguyen insieme a tutta l’équipe artistica, con Dan Artus, Saadi Bahri, Hoonaz Ghojallu, Maïmouna Keita, Yasmine Hadj Ali, Nanii, Pierric Plathier, Alix Petris, Lamya Regragui Muzio, Saaphyra, Vasanth Selvam, Anh Tran Nghia, Hiep Tran Nghia, collaborazione artistica Claire Calvi, Paola Secret, scenografia Alice Duchange, costumi Benjamin Moreau, luci Jérémie Papin, creazione sonora e musicale Antoine Richard...
#PALERMO
L’ARTE DELLA RESISTENZA (di Barbe à Papa)
Lo Spazio Franco di Palermo ha ospitato L’arte della resistenza, ultimo atto della trilogia Generazione Y, creata dalla emergente palermitana Barbe à Papa. Come risulta da comunicato, la compagnia torna in città dopo una tournée nazionale ed estera (inclusa una tappa al Festival Off d'Avignon lo scorso anno), portando in scena, ancora una volta, disagi psichici e professionali della complicata generazione che adesso si trova a compiere, o a superare, i trentanni. Complicata per motivi esogeni, strutturali, legati a una recessione economica troppo imprevista; ma anche per un’endogena difficoltà a ripensare aspettative e abitudini non sempre – anzi, quasi mai – compatibili con l’attuale costo del lavoro. I Barbe à Papa dunque portano sul palco queste ambivalenze, partendo dalla propria personale esperienza di attrici e attori per raccontare, attraverso se stessi, un mondo che non sembra avere lo spazio e la volontà di accoglierli. Sulla scena Chiara Buzzone, Federica D’Amore, Totò Galati, Roberta Giordano, sotto la direzione di Claudio Zappalà (autore dello spettacolo), sono affiatati, sicuri di cosa fanno. Ci credono e ci convincono. La scrittura si compone di differenti fasi: un momento di prove, prima dello spettacolo; una festa di fine anno; una sorta di rito nel quale non si comprende, in fondo, se a venire sacrificate siano le speranze o la voglia di arrendersi. Ma il punto è un altro. Le interpreti e l’interprete sono certo in grado di potere offrire qualcosa in più, un racconto che vada oltre la rappresentazione del disagio generazionale. La compagnia ci dice: Generazione Y è solo una fase iniziale, la creazione di un’identità. Bene, ma bene nella misura in cui riusciamo a pensarci adulti. Qual è la maturità dell’attore, dell’attrice, oggi? Ora più che mai, in un mondo di storie autoriferite, narrarsi attraverso personaggi altri, tornare a offrire al pubblico un dramma che sia realtà fittiva, e dunque vera, verissima. Barbe à Papa è nelle condizioni di farlo, di fare teatro. «Metteremo mano a Cecov», dice Chiara, alla fine dello spettacolo. Ottimo.
Visto allo Spazio Franco. Crediti: uno spettacolo di Barbe à Papa Teatro, testo e regia di Claudio Zappalà, con Chiara Buzzone, Federica D’Amore, Totò Galati, Roberta Giordano e con la partecipazione in voce di Elvio La Pira, disegno luci e direzione tecnica Nathan Tagliavini scene e costumi Barbe à Papa Teatro, produzione: Barbe à Papa Teatro, in collaborazione con: Spazio Marceau e C.T.M. Centro Teatrale Meridionale
SE SON FIORI MORIRANNO (di Rosario Palazzolo)
Per Rosario Palazzolo «sabotare la realtà con l’immaginazione è l’unica alternativa che abbiamo, la sola che ci permette di spostare in avanti il limite del precipizio», ma pure definisce l’immaginazione come «una manna, una maledizione, un ordigno e una trappola». Così, accade che la fantasia scenica si riveli una macchina crudele, nella quale la condizione umana diviene un fatto esemplare, un dolore eccedente rispetto ad ogni limite di tolleranza. Nel suo Se son fiori moriranno, visto al Biondo in questo febbraio, finzione e realtà si gridano l’un l’altra attraverso uno squarcio doloroso, bruciante come una ferita aperta. Da un lato è la finzione: quella inventata dalla madre (Simona Malato) di una figlia (Chiara Peritore) in stato vegetativo. Nella fatiscente camera dei giochi ideata da Mela dell’Erba (di cui sono anche i costumi), Malato e Peritore sono le protagoniste di una grande menzogna, evocata dall’incapacità di accettare l’oggettività delle cose. Ma poste davanti al pubblico, le due si scoprono parvenze, bisognose di un’alterità che, osservandole, possa garantirne la sopravvivenza. È qui si incunea, dolorosa, la realtà. Una spina da staccare, trascinando con sé allestimento e vane speranze; un percorso di riabilitazione, guidato da una voce nel pubblico. Delia Calò siede in alto, tra gli spettatori e le spettatrici. Noi, seduti a breve distanza, ne abbiamo anche colto la ferma dolcezza dell'espressione: è un carezzevole super-ego a condurre, verso un minimo riparo, la madre di Malato. La prova di quest'ultima è senz’altro decisiva. La speranza vuota e allucinata con la quale la donna si ostina a non lasciare il suo sogno è in sé una posizione etica, e sostiene con fermezza anche i brevi momenti in cui il testo sembra appena riavvolgersi su se stesso. Chiara Peritore, diplomanda della scuola di recitazione del Biondo, è una figlia i cui occhi, spalancati sulla finzione in cui agisce, brillano di acerbo entusiasmo, forse ancora più dell’attrice che del personaggio. E poi il pubblico, parte integrante dello spettacolo. Nel gioco teatrale, nel reciproco riconoscersi, è ancora una possibilità di salvezza. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo, Palermo. Crediti: testo e regia Rosario Palazzolo, scene e costumi Mela Dell’Erba, musiche originali Gianluca Misiti, light designer Gabriele Gugliara, con Simona Malato, Chiara Peritore, e la voce di Delia Calò, produzione Teatro Biondo Palermo. Foto di Rosellina Garbo.
ULISSE ARTICO (di Lina Prosa, regia Carmelo Rifici)
Il nesso tra arte ed ecologia è stato oggetto di di un filone letterario trasversale, seppure non formalizzato in un canone; basti pensare a Calvino, Rigoni Stern, Zanzotto. Ma, quando nei momenti precedenti lo spettacolo, abbiamo chiesto a Lina Prosa se volesse muoversi lungo questa linea, lei ha risposto che anzitutto le interessava rappresentare “un’umanità”. Per raccontarla, nel suo Ulisse Artico, l’autrice recupera dal mito il poliedrico protagonista dell’Odissea per lasciarlo solo, tra isole di ghiaccio galleggianti, in un mondo alla fine del mondo. Nella regia di Rifici, seguita a gennaio al Biondo di Palermo, il testo dell’Ulisse Artico, senz’altro complesso nella sua prosodia classicheggiante, ha trovato inaspettata valorizzazione. La bella scena, di Simone Lannino, è un dispositivo rotante occupato dallo scheletro di alcuni arredi e da una testa di cavallo di ghiaccio, sospesa; buona parte di questa, al termine dello spettacolo, sarà liquefatta in bacinelle. L’atmosfera è tersa, cristallina (merito delle luci, ancora di Lannino). Introdotto dal canto campionato dal vivo di una misteriosa sirena delle nevi (Sara Mafodda), Ulisse (Giovanni Crippa) entra in scena. È uno sconfitto. Nella totale solitudine che lo circonda, la sua nostalgia è un viaggio senza meta, né una meta può esservi, se l’ecosistema è andato distrutto. Crippa, eroe in pelliccia, agisce sulla scena con sicuro mestiere, infondendo al suo personaggio un carattere tragicomico – che in genere è la cifra della regia – comicamente memore degli antichi fasti. Un «Ulisse senza ignoto» lo definisce, canzonatoria, la sua sua ambigua compagna di peregrinazioni. Mafodda è una presenza sensuale, una Calipso appena cinica, comunque destinata a trasfigurarsi in una delicata Inuk, ultima vittima del cataclisma. Scioglimento dei ghiacciai e dissoluzione dell’uomo, intesa a un tempo come fatto planetario e condizione esistenziale, coincidono in una regia che, anche con ironia, fa riflettere sul poco tempo che abbiamo a disposizione. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo. Crediti: di Lina Prosa, regia Carmelo Rifici, con Giovanni Crippa e con Sara Mafodda, scene, costumi e luci Simone Mannino, musiche Zeno Gabaglio, assistente alla regia Ugo Fiore, produzione Teatro Biondo Palermo, in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura. Foto di Rosellina Garbo.
#ROMA
DELEUZE/HENDRIX (di Angelin Preljocaj)
Sono tempi piccolini, di poca generosità. Forse perché tempi violenti, e di guerra. Tempi da usurai, riconoscerebbe Ezra Pound. Dopo le microdanze abbiamo le monodanze. Così Angelin Preljocaj, in un uso maldestro e inadeguato dell’anacronismo temporale, mette assieme filosofia e rock, per omaggiare in Deleuze/Hendrix (visto, in prima italiana, all’Auditorium di Roma per Equlibrio) il pensiero della molteplicità, della proliferazione rizomatica e della performatività della lettura e dell’ascolto. Ma inventando pochissimo, in corpi monoespressivi, su traiettorie e soluzioni spaziali e temporali monotone e senza sorpresa (tra cui: una sessualità tutta mimata, schitarrate senza chitarra e un finale playback da Moulin Rouge). Con interpreti che non hanno mai nel corpo la musica: la ammiccano soltanto. Ma è soprattutto l’avarizia della coreografia, in termini compositivi, a lasciare delusi. Sono quasi sempre monodanze moltiplicate per otto, un poco rimescolate e ripetute variando direzione, nella più scontata divisione, e successione, danzatori/danzatrici, con buona pace di tutta la ricezione femminista di Deleuze. Come in un qualsiasi saggio di fine anno. Un bel compitino ma nella materia sbagliata. Ci si chiede se, al di là delle formule da manuale ripetute durante l’artist talk del post-show (cosa può un corpo?, significante vs. significato, hippy e amore libero, etc.), qualcosa Preljocaj di Deleuze se lo sia anche letto. Da una parte c’è il tentativo di replicare il capolavoro Empty Moves (su performance di John Cage, che Preljocaj ha realizzato nel 2004) come fosse una formula seriale, e dall’altra quello di intercettare un trend coreografico che fa dell’anacronia un potenziale compositivo dell’oggi (e penso soprattutto agli ultimi lavori di Emanuel Gat). Preljocaj mi ricorda l’ultimo Béjart (che è stato un grande, tutto da ritrovare), incapace di uscire di scena, condannato a ripetersi inseguendo di sé l’irripetibile, e scambiando per variazione la ripetizione. (Stefano Tomassini)
Visto all'Auditorium per Equilibrio Festival CREAZIONE 2021 Coreografia Angelin Preljocaj Voce registrata Gilles Deleuze Musica Jimi Hendrix Luci Éric Soyer Assistente alla direzione artistica Youri Aharon Van den Bosch Coreologo Dany Lévêque Ballerini Baptiste Coissieu, Matt Emig, Clara Freschel, Isabel García López, Florette Jager, Tommaso Marchignoli, Zoë McNeil, Redi Shtylla Production Ballet Preljocaj Coproduction Festival Montpellier Danse 2021, Le Centquatre-Paris, Le Rive Gauche - Scène conventionnée Danse de Saint-Etienne-du- Rouvray Un ringraziamento speciale a Olivier Raillard Premiere al Festival Montpellier Danse 2021
I AM (di Anna Ceravolo)
«Sono persone. Punto». È l’estratto del discorso di Irene Montero, ministra spagnola delle Pari Opportunità a seguito dell’approvazione della Ley Trans lo scorso 16 febbraio. La legge è la prima a depatologizzare la transizione di genere permettendo a una persona di cambiare il proprio sesso sulla carta d'identità senza più l'obbligo di certificati medici che attestino la sua disforia di genere o l'obbligo di sottoporsi a trattamenti ormonali per due anni. In relazione a questo passaggio fondamentale nella storia dei diritti civili, I AM si presenta come un momento didattico per fare il punto sull’iter storico, psicanalitico, giuridico e sociale relativo al processo di transizione. Lo spettacolo per la regia e testo di Anna Ceravolo ha debuttato al Teatro di Documenti - suggestivo e storico luogo a Monte de’Cocci fondato nel 1988 dallo scenografo e direttore Luciano Damiani, insieme a Luca Ronconi e Giuseppe Sinopoli – diretto dal 2007 da Carla Ceravolo collaboratrice per oltre vent’anni di Damiani, e che in I AM cura scene e costumi. Come lettore e lettrice, Gaetano Lizzio e Donatella Mei, con leggìo alla mano, ripercorrono tappe storiografiche e biografie significative, mentre in qualità di figure che attraversano la scena, Cristina Maccà fornisce agli astanti le didascalie ai temi, e Tony Scarfì dà di essi rappresentazione pantomimica. Forse il monologo della madre (Maccà), seppur emozionante, carica il finale di un pathos inatteso, in una drammaturgia che «nella serietà dei temi abbiamo però voluto dei toni lievi» con «narratori, assurdi e strampalati» e la cui struttura attiene più al genere della rivista che al teatro di prosa. All’indomani anche del riconoscimento da parte del Comune di Roma delle famiglie omogenitoriali nei documenti di iscrizione agli asili nido, I AM è un lavoro funzionale, elementare per facilità di spiegazione e diffusione, che pur nella sua semplicità non dà per scontato né banalizza il difficile percorso per diventare la persona che si vuole essere. (Lucia Medri)
Visto al Teatro di Documenti: Crediti: testo e regia di Anna Ceravolo, con Tony Scarfì, Gaetano Lizzio, Cristina Maccà, Donatella Mei, allestimento, scene e costumi di Carla Ceravolo, luci di Paolo Orlandelli, Prod. Teatro di Documenti. Foto
COME CIÒ A CUI TUTTO TENDE (di Valentina Beotti e Federica Principi)
Una grande coda di balena emerge dal fondo del palco; su questo “mare di legno”, Valentina Beotti appunta, con piglio febbrile, incomprensibili ragionamenti scritti a colpi di gesso. Sono geroglifici e ideogrammi che ricordano le pitture rupestri, come si tentasse di tornare all’origine, per capire che cosa sia andato storto, come mai, parafrasando Aristotele, «ogni azione e scelta» abbiano smesso di «tendere al bene». Sdraiata a pancia sotto la donna disegna in terra la propria sagoma, aggiungendovi una pinna caudale, a tracciare lo spazio in cui il grande mammifero acquatico, pur al vertice dell’intera catena alimentare, sprofonderà del tutto, e mai risorgerà.
Valentina Beotti ha frequentato il piccolo schermo e ha girato in lungo e in largo come performer in tre spettacoli di Ricci/Forte, negli anni in cui il duo artistico affascinava e stordiva le scene italiane e internazionali – un’ottima palestra per esercitare l’espressività del corpo. Ma va annotata la successiva collaborazione con Dante Antonelli/Collettivo Schwab e così il duetto con Bernardo Casertano. Già qui emergeva una scrittura sofferta, spietata, uterina, che adesso giunge a maturazione con Come ciò a cui tutto tende, scritto con Federica Principi.
L’allarme sul cambiamento climatico – centinaia di balene arenate senza vita sulle coste tra Messico e Alaska – è la miccia che accende un doloroso ragionamento sulla responsabilità umana, abilmente intrecciato al percorso interiore di una bambina-donna che dialoga con una madre (Terra?) da piangere, rifiutare, ritrovare, a cui chiedere conto e perdono.
Tra una grafia poetica affilata ma piena di garbo e un paesaggio sonoro che distorce, crudele, il canto delle balene, un rapido e severo slancio umano ci raggiunge, grazie a una performance chirurgica e umile, da vera “atleta del cuore”, avrebbe apprezzato Artaud. Tenere in vita una scintilla artistica indipendente è un’impresa quasi folle nel teatro di oggi. Una crociata mossa contro il pericolo d’estinzione. (Sergio Lo Gatto)
Visto a Fortezza Est, Roma. Crediti: di Valentina Beotti e Federica Principi; con Valentina Beotti; musiche e sound design Federica Principi; disegno luci Matteo Ziglio; realizzato con il sostegno di Fortezza Est – residenza artistica.
INCENDI (di Fabrizio Sinisi, regia Mario Scandale)
La storia si articola attraverso scelte, disposte su un tracciato di cause e conseguenze. Possono dirsi individuali, talvolta, ma possono anche farsi collettive, identificare un popolo o, ancor meglio, una nazione, contenitore non solo di cultura etnica ma anche di precise finalità politiche. Non è possibile dunque immaginare l’ascesa di Adolf Hitler nella Germania che mal digeriva il lassismo di Weimar senza la plateale, forse plebiscitaria adesione popolare. Questo il nucleo di partenza di Fabrizio Sinisi, autore, e Mario Scandale, regista, per Incendi, secondo capitolo della trilogia dedicata al dittatore nazista. Se La gloria narrava la giovinezza del sognatore austriaco che voleva essere pittore e iniziava a compitare le proprie idee più radicali, Incendi si concentra sulla diversa natura di alcuni giovani che condividono l’epoca storica e non certo le intenzioni: Sabine (Marina Occhionero) è appena arrivata per studiare in città, dove una forza segreta la affascina, Marinus (Alessandro Bay Rossi) vive al margine di questa trasformazione e ne vuole sovvertire i presupposti, Helmut (Dario Caccuri) e Ralf (Luca Tanganelli) sembrano invece godere della spinta del vento nuovo. C’è un futuro vigoroso all’orizzonte, paradossalmente animato dalla retorica del ritorno al glorioso passato; non a caso dunque, nella lettura di Scandale, passato e presente si mescolano in un contorno sfumato, sia nei costumi, come unico elemento o quasi della scena, sia nelle proiezioni video, sequenze di film capitali dell’epica tedesca contemporanea, da Metropolis a Germania Anno Zero, passando per Olympia del mito Leni Riefenstahl. L’estrema pulizia della regia e della recitazione permette una riflessione profonda sul confine tra scelta e rassegnazione, tra esaltazione e vitalismo, conservando però una conturbante nota di sensuale ambiguità che evidenzia il legame irrisolto tra la natura umana della disumana violenza e l’erotismo del potere, in cui l’educazione alla sopraffazione non è un atto di crudeltà ma gaudente manifestazione della supremazia, dell’evidenza del presente. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo, Roma. Credits: di Fabrizio Sinisi, regia Mario Scandale, con Alessandro Bay Rossi, Dario Caccuri, Marina Occhionero, Luca Tanganelli; produzione La Corte Ospitale, Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico
#MODENA
GIULIO CESARE (Teatro dei Venti)
Si parla spesso in questi ultimi mesi di pena detentiva e carceri, lo sciopero della fame del cinquantacinquenne anarchico Alfredo Cospito ha acceso una luce decisiva su strumenti disumani come l'articolo 41-bis e l’ergastolo ostativo. Il 22 è stato anche l’anno, tra gli ultimi dieci, con maggiori suicidi. Le carceri italiane però sono attraversate anche da un’altra storia, rappresentata dall'insieme di pratiche, percorsi e progetti teatrali; centinaia sono i laboratori negli istituti penitenziari e il lavoro teatrale in carcere è ormai uno strumento formativo riconosciuto. Dell'esperienza di Teatro dei Venti nella Casa Circondariale di Modena avevamo già scritto (Odissea nel 2021 e Ubu Re nel 2018). Per la stagione 22/23 il regista Stefano Tè e i suoi collaboratori sono approdati al Giulio Cesare di Shakespeare, le repliche di febbraio scorso facevano parte di un grande progetto europeo. Il risultato del lavoro si manifesta in uno spazio scenico che divide due sponde di spettatori: su questa pedana si muovono i personaggi della tragedia. La spazialità e gli abiti di quasi tutti richiamano dunque la tradizione giapponese che conferisce alla messinscena una pulizia quasi ascetica alimentata dal lavoro sonoro live di Irida Gjergji e dalle luci contrastate di Luigi Pascale. Funzionale e suggestivo il coro schierato di lato, a rappresentazione del popolo romano che cambierà il corso degli eventi in seguito al celebre monologo di Marco Antonio - Dario Garofalo lo interpreta con una precisione attorale che dimostra subito la provenienza dall’ambito del professionismo. Rimangono in mente alcune immagini molto potenti, come l’incipit nel quale dal buio lentamente emerge il corpo maestoso di un Giulio Cesare pasciuto, oppure quel coro in cui si mescolano accenti anche extraeuropei. Tra gli attori detenuti - tutti appassionati ma con livelli di preparazione molto diversi - si segnala la prova di Cassio. Di loro - ci spiegano - non è possibile fornire i nomi, per privacy e burocrazia. (Andrea Pocosgnich)
Visto nella Casa Circondariale di Modena Liberamente tratto dal “Giulio Cesare” di William Shakespeare, con gli attori del Carcere di Modena e la partecipazione dell'attore Dario Garofalo. Regia di Stefano Tè. Drammaturgia Massimo Don e Stefano Tè. Musica dal vivo Irida Gjergji. Costumi Nuvia Valestri e Teatro dei Venti. Assistenti di scena Elisa Di Cristofaro, Davide Filippi. Luci e audio Luigi Pascale. Assistenti alla regia Massimo Don e Francesco Cervellino.
#SPECIALE BALLETTO TEATRO ALLA SCALA
DAWSON / DUATO / KRATZ / KYLIÁN
Anima Animus (coreografia di David Dawson) e Remanso (coreografia di Nacho Duato)
Né sentimentalismo né umore. Serata invece nutrita di stile, anche se molto eterogeneo, alla Scala di Milano: ben quattro titoli, tutti dissimili tra loro, per la stagione in corso di Balletto. La coreografia d’apertura di David Dawson, Anima Animus (2017), è un flusso ininterrotto di schemi a ingresso, estremamente simmetrici che si intensificano e si attenuano circolarmente sulla inaspettata efficacia temporale della musica di Ezio Bosso (l’Esoconcerto del 2006), poco originale ma molto funzionale. Tutto è dominato (e attenuato, e facilitato) dal quasi-tutto-bianco della scena e dei costumi, ma la coreografia che si vuole trasparente è in realtà complessa e, a farsi, complicatissima. Un’imprevista sostituzione del cast rivela, come da manuale, la forza inattesa di un’elegante presenza: quella di Mattia Semperboni. Il secondo lavoro di Nacho Duato, Remanso (1997), con musica assai ritmata e colorita di Enrique Granados, i Valses poéticos dal vivo eseguiti al pianoforte da Takairo Yoshikawa, si ispira a una poesia omofila di Federico García Lorca. I tre interpreti che si alternano in assoli, duetti e terzetti bellissimi, intrecciati da sequenze e pose molto efficaci e spesso molto fluide, incorporano un’idea silente di complicità queer (con buona pace del coreografo che si affanna a precisare, nel programma, si tratti soltanto di «sodalizio», ma solo per inibire il «sessuale», nonsiamai!, che invece dilaga...). Nicola Del Freo, Mattia Semperboni e Roberto Bolle (per lui il giovanissimo pubblico della pomeridiana è rumorosamente in fregola) mettono all’opera ciò che rimane non detto, sottotraccia e silente della forza di questa amicizia che è «amore puro e giovane», comunque plurale: verità a cui i corpi però non possono sottrarsi. Qui Bolle (infuocata gitana travolta da muta passione con una rosa fra i denti! ma no dài, anche come già Rodolfo Valentino...) dà il suo meglio quando non fa l’asso-piglia-tutto, ma addirittura si mette in coda, allineato in fila, come per un qualsiasi leggendario trio d’avanspettacolo. Così anche accade che fai fatica a riconoscerlo, fra i magnifici tre (e dal pubblico infatti: «Mamma, qual è?»), in tanta mirabile sorpresa.
II. Solitude Sometimes (coreografia di Philippe Kratz) e Belle Figura (coreografia di Jiří Kylián)
A bassa tensione, invece, mi è sembrato il nuovo lavoro di Philippe Kratz, Solitude Sometimes, in prima assoluta. Coreografo di sicuro talento, qui rischia poco. Costruisce in sala un ambiente di movimento anche complesso, negoziato su di un loop coreografico tra visibile e invisibile, di grande ambizione visiva, ma che sul palco non regge e si disperde. L’intimità richiesta è a bassa temperatura, mentre la rigenerazione inseguita come la più necessaria rinascita (ispirata all’ingombrante Libro dell’Amduat, «antico documento funerario di mitologia egizia») si traduce in una semplificazione delle forme che nulla sposta né trasforma (ricordo improbabili ingressi a schiera da quinta, e una buffa articolazione sacropelvica). La scenografia a LED (Carlo Cerri e Ooopstudio) che dovrebbe suggerire un aldilà digitale resta accessorio dell’aldiqua, così come inattivi i bei costumi di Francesco Casarotto. La suggestione prima di Kratz è stata Pyramid Song di Tom York/Radiohead, ma il processo compositivo in danza richiede operazioni e pratiche capaci di interrogare i materiali in senso generativo, anche contrastivo, non mai replicativo. La serata si è infine completata con un capolavoro del coreografo Jiří Kylián, Bella Figura, che è del 1995! Incredibile: intatto ed efficace in tutta la sua forza figurativa, e complessità compositiva. Qui molti piani convergono e si intrecciano in una drammaturgia composita a dir poco esemplare: la bellezza dolente dei corpi a torso nudo, la forza del colore nei semplici costumi (di Joke Visser), la dinamica frammentazione del quadro visivo, l’uso atemporale della musica (di Luka Foss, allievo di Hindemit, con il barocco di Pergolesi, Marcello, Vivaldi, Torelli), e l’ingegnosità del concetto racchiuso nel titolo in italiano. È una formula che svela il relativismo di ogni dittatura estetica, cui sostituisce la dissimulazione del sogno capace di creare un tempo etico alla presenza (e al riconoscimento) dell’altro. Serate come queste fanno crescere il Corpo di Ballo, che qui non si smentisce, anzi, è sempre all’altezza: una compagnia di cui ci si può innamorare. Ma anche fanno progredire la programmazione (e il pubblico con essa), che può e deve osare di più, sia nelle proposte e sia nella consapevolezza del proporre (i quattro coreografi presentati sono tutti maschi, e non è la prima volta che accade: ma Manuel Legris di certo sa che la programmazione è un vettore di cambiamento e di innovazione, e che richiede un atto di coraggio politico, oltreché culturale). (Stefano Tomassini)
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#UMBRIA
UNO SPETTACOLO DI FANTASCIENZA (di Liv Ferracchiati)
Il doppio vincolo, secondo l’antropologo Gregory Bateson, è la condizione generata dall’incongruenza tra due livelli di un discorso, tale da non consentire, a chi lo riceve, di evadere dallo schema stabilito dal messaggio. Di svincolarsi, appunto. Questa trappola comunicativa (che, per inciso, Bateson pone all’origine della schizofrenia) Liv Ferracchiati la maneggia, già da anni, con maestria. Uno spettacolo di fantascienza. Quante ne sanno i trichechi non fa eccezione. Petra Valentini, Andrea Cosentino e Ferracchiati sono i vertici di un triangolo, drammatico prima (abiti in palette sabbiosa e vocalità enfatiche), post-drammatico poi (jeans e giacche nere, asincrone coordinate di spazio). I tre sono alle prese con la fine del mondo, su una rompighiaccio destinazione Polo Sud (l’idea proviene da Cechov, che però puntava al Polo Nord), con la stiva piena di trichechi da salvare. Ma si tratta anche di una favola apocalittica, che Valentini sussurra al bambino che aspetta, carezzandosi il pancione posticcio. Perché, malgrado si tenti tanto, all’interno borghese non si sfugge: Ferracchiati e Valentini sono anche una coppia che si destreggia nella quotidianità e Cosentino l’Humphrey Bogart (abruzzese) che vagamente li turberà. Ferracchiati, come il suo personaggio, «si interessa a cose che non esistono» o che, per lo meno, sembrano poco tangibili: il sentimento della finitudine, le ripetizioni che scandiscono i pensieri, quello che rimane dell’identità se si elidono, una a una, tutte le convenzioni usate per rappresentarsi, e per dare ordine all’esistenza. La pièce è il terreno di gioco e il simbolo di questa interrogazione, l’oggetto che tenta di esistere al di fuori dei codici che lo regolano, delle falsificazioni che squaderna, e che invece, fatalmente, vi ricade. Il pubblico partecipa di questo spaesamento in forma di spirale, gli attori sostengono – con una leggerezza che è, come spesso in Ferracchiati, conforto – i ritmi crescenti della decostruzione. Rimangono i detriti artificiali di una jonglerie che tenta di nominare, di aggirare, di fare da parapetto a una vertigine. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Comunale Manini,– Narni Città Teatro 22. Debutto all’interno di InTeatro Festival 2022, Polverigi. Crediti: testo e regia Liv Ferracchiati; con Andrea Cosentino, Liv Ferracchiati, Petra Valentini; dramaturg di scena Giulio Sonno; scene e costumi Lucia Menegazzo; disegno luci Lucio Diana;
#NAPOLI
MARGUERITE (di Cristina Donadio)
Degli scritti di Marguerite Duras se ne conosce una minima parte. Possedeva una penna famelica come poche, divoratrice di pagine e pagine tra cinema, teatro e letteratura nella furente ricerca di immagini ineguagliabili. A leggerla attentamente si ritrova una donna solitaria, passionale, crudele, insopportabile. Cristina Donadio mostra la sua Marguerite facendo proprie le parole del romanzo più noto, l’Amante. L’attrice è seduta al centro del palco, schermata da una sottile membrana nera su cui sono proiettate foto dell’autrice; accanto a lei c’è un ensemble a eseguire musiche di Marco Zurzolo, ma non solo. La felice idea di proporre il meraviglioso brano di Carlos D’Alessio, India Song, colonna sonora dell’omonimo film della Duras con Delphine Seirig, ha avuto come effetto quello di annullare la presenza delle composizioni del musicista napoletano. Donadio opera una selezione confusa dei brani che produce un effetto d’insieme molto lontano da quella che è la scrittura della Duras; la sua Marguerite è prona e docile. Di quel primo rapporto con l’amante cinese sparisce l’amore che è frutto della noia e della curiosità infantile, un gioco alla prostituzione e una sfida per l’emancipazione. Nel tono di vaga dolcezza dell’attrice sparisce quello roco e mordace dell’autrice. Considerando le peculiarità della scrittura teatrale di Marguerite Duras, L’Amante non è un testo da drammatizzare con troppa facilità. Improprie sono state anche le scelte relative all’utilizzo di immagini di repertorio, non coerenti con la struttura narrativa, già claudicante, che si stava seguendo. Insieme alle foto della giovinezza, sono proiettate immagini note da Hiroshima Mon amour, la pellicola di Alain Resnais del ’58 per cui la Duras fu sceneggiatrice, producendo legami di racconto forzati e stridenti. Un miscuglio confuso, e non sempre comprensibile, di immagini prodotte per fascinazione che non hanno restituito alcunché di una vivida complessità personale e artistica. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Sannazaro; Crediti: Di e con Cristina Donadio, Musiche Marco Zurzolo, Al sax Marco de Tilla, Al pianoforte Vincenzo Danise, Video Pietro Di Francesco, Foto Fabio Donato, Produzione Tradizione e Turismo – Centro di Produzione Teatrale – Teatro Sannazaro
LA MACCHIA (di Fabio Pisano)
Due coniugi (Francesca Borriero ed Emanuele Valenti) conducono una vita fatta di piccole regole segrete e di monotonia. Di loro non sappiamo nulla, se non che Lui lavora alla dogana, e che forse hanno un figlio. Della vita insieme, scandita da un lapidario botta e risposta, non ci sono che pochi elementi relativi alla loro solitudine: la luce di un televisore che illumina e isola il volto di Lui, qualche sedia che li tenga separati nelle loro posizioni, e un tavolo che serve a Lei per preparare i pasti. Un giorno si presenta alla loro porta un giovane (Michelangelo Dalisi) inquilino del piano di sotto che ha un problema di infiltrazione d’acqua. Il ragazzo interrompe il circuito chiuso della coppia e si ritrova a diventarne meccanismo. Ciò che divide marito e moglie, la totale mancanza di ascolto dell’altro, diventa la modalità di interagire con un estraneo: in questo modo, i due si fanno complici, in un sottile gioco di sopraffazione. Quel tavolo, così laterale sulla scena, allora si fa trincea e divide gli spazi con squilibrio relegando il giovane in un perimetro troppo angusto da cui di rado e con fatica riesce a uscire. La scelta deliberata di una scrittura circolare e ripetitiva, in maniera autoritaria incita l’automatismo innaturale del gesto e della parola sclerotizzando fino al parossismo i tre personaggi, ma non riuscendo a instillare quel leggero velo di angoscia che forse sarebbe stato molto più efficace. Dallo straniamento iniziale si arriva a uno stato di insofferenza sempre più acuto, il quale però non riesce ad arrivare al pubblico, più divertito dall’assurdità degli svolgimenti. L’assurdo rischia di rimanere alla superficie delle intenzioni senza mai troppo rivelarne i meriti. Restano più che degne di plauso le abilità dei tre attori che si fissano con estrema naturalezza nei loro ruoli, mantenendo un tono piatto e mai eccessivamente eccedente (la regia e la drammaturgia sono di Fabio Pisano), come se il coinvolgimento in merito ai fatti non ci fosse del tutto e come se, in generale, fossero estranei a tutto. (Valentina V. Mancini)
Visto a Piccolo Bellini, Napoli; Crediti: Di Fabio Pisano; Con Francesca Borriero, Michelangelo Dalisi, Emanuele Valenti; Luci Paco Summonte; Ideazione scenica Luigi Ferrigno; Un progetto di Liberaimago; Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
#ROMA
VIVERE! (di Anna Piscopo, regia Lamberto Carrozzi)
Calimba di Luna si rivolge a voi, includendo nella categoria pronominale un pubblico di followers, ignoti fruitori di esternazioni intime su argomenti per cui non importa un’idea ben precisa, ma solo che siano condivisi. Questo concetto, la condivisione, è il nodo attorno a cui si stringe il “dramma della solitudine” celato nella sua vita da reclusa, costretta dalla propria stessa nevrosi tra le pareti malridotte in cui accumula oggetti e fallimenti. Condivisione è termine oggi contrastante: da un lato mantiene il significato di “dividere con”, ossia determinare una relazione cosciente, mentre nel mondo intriso di virtualità la condivisione di contenuti, in antitesi, ignora completamente l’accoglienza. C’è tanto pubblico al Centrale Preneste Teatro per un appuntamento non certo mainstream ma che – ne va dato atto alla giovane autrice e attrice di questo Vivere!, Anna Piscopo – manifesta una coriacea tempra nel voler dare voce al proprio teatro, cercando di combattere il rischio dell’oblio. Sul palco avvolto di luce rosa e nero non c’è molto: un trolley tiene su la postazione social, un telefono non scompare mai come unico contatto (reale o immaginato) con l’esterno, carta straccia di giornali ricopre una sedia e tutta la sua vita. Eppure c’è voglia di urlare un dolore che ne fa sentire, comunque, la voce. Anna Piscopo ha talento e se ne vedranno i frutti, per ora traccia il disagio sguaiato di Calimba ma, non aiutata dalla regia poco equilibrata di Lamberto Carrozzi, resta sulla superficie e manca di grazia per esprimere una visione di profondità e al contempo metterla in dubbio, manca di lucidità nel decidere cosa mettere sotto analisi, non portando mai a fondo quella cupezza che si avverte, lasciando fuori quel che gli darebbe concretezza: il corpo prorompente e deciso di performer, la cui coscienza è ancora debole. (Simone Nebbia)
Visto a Centrale Preneste Teatro, Roma. Crediti: di e con Anna Piscopo; regia Lamberto Carrozzi; produzione BAM Teatro e Nutrimenti Terrestri
BRECHTDANCE (di Elena Gigliotti e Daniela Vitale)
Più o meno sepolta in tutti noi, l’alterità ha spesso un volto preciso e inquietante. È esperienza quotidiana che quell’immagine, dissepolta e sottratta agli schemi e agli schermi quotidiani dei nostri inevitabili egotismi da civiltà tardo-capitalista occidentale, non sia così dissimile da un riflesso. L’io, per dirla con Paul Ricoeur, non è il soggetto trascendentale del mondo, ma il frutto di un processo di ermeneutica del sé: l’altro nel sé, il sé nell’altro, insomma non è raro vedersi nei volti di coloro che ci passano a fianco. Per Daniela Vitale e Elena Gigliotti questa vicinanza può diventare estrema, fino a trasformare lo sfiorarsi in un incidente di percorso, per finire ad attraversarsi. Così comincia Brechtdance, con Elena Vitale che presta il suo corpo al tremolio di voci anziane, incipit di una raccolta di testimonianze intorno al tema delle solitudini degli ultimi-prossimi-nostri in questi due anni postpandemici. Quelle frequenze incerte e spezzate invitano il corpo a una danza buffa e goffa, in cui la metafora degli anni e del loro peso su muscoli e articolazioni lascia il campo alla maldestra acerbità del corpo bambino. Daniela Vitale inizia così un viaggio fra le voci, a volte accompagnate dai volti in frammenti video, a volte puri sussulti fonici di bambine o di anziane che parlano, similmente, attraverso un alfabeto dissestato e universale. Per Vitale e Gigliotti, che sostengono il percorso di Brechtdance con una raccolta fondi su Produzioni dal basso, l’alterità è una teoria di volti realmente incontrati, impressi però su tipologie umane socialmente stereotipate: persone anziane, migranti, senza fissa dimora, rifugiat_, detenut_, etc… Il processo di raccolta che precede la messa in arte è dunque restituito nella forma di un carosello in cui i processi di empatia possibili conoscono, insieme, il pungolo e l’ostacolo di una nozione di alterità inafferrabile, universale, ancestrale, troppo rapida, su cui il collante poetico delle parole brechtiane riesce solo a tratti a penetrare i pori più profondi di un possibile rapporto col pubblico. (Andrea Zangari)
Visto a Fortezza Est, Roma. Di Elena Gigliotti e Daniela Vitale. Realizzato con il sostegno di Residenza Creativa Fortezza Est e Crowdfounding Produzioni dal Basso. Con Daniela Vitale. Coreografie Luca Piomponi. Scene e costumi Giovanna Stinga. Regia Elena Gigliotti
LA STORIA (di Marco Archetti, regia Fausto Cabra)
Una volta si usava l’espressione “infuria la battaglia”. Le battaglie di oggi, anche quelle che sfiorano i nostri confini, è come se non infuriassero più; come se le notizie – razionate dalla stampa, fatte a pezzi e infilate nel mezzo della micro-cronaca quotidiana – non ci riguardassero mai abbastanza.
Proprio su questo La Storia di Elsa Morante sembrava lanciare un cupo avvertimento. In un misto tra grande narrazione corale e intimo affondo sull’intimità di una famiglia, si raccontava la Roma occupata e quella liberata, le periferie bombardate e quelle presidiate dai partigiani, in un doloroso arco teso tra il 1941 e il 1947.
Fausto Cabra firma la regia di una drammaturgia di Marco Archetti, leggendo il romanzo di Morante come «narrazione collettiva scritta sulla carne degli ultimi». Ne fa materializzare in scena ampi brani, quelli che una madre (Franca Penone) legge al gate di un aeroporto, in attesa del volo che la riporterà dai due figli (Alberto Onofrietti e Francesco Sferrazza Papa). Con mestiere e passione Franca Penone ritrae una Madre Coraggio tristemente redenta; i due attori la seguono destreggiandosi tra rapidi cambi di costume e registro mentre, in continuo movimento, un parco di fari motorizzati illumina con precisione minute porzioni di palco, incorniciando e sottolineando ogni gesto, posa e movenza. E però, tra dialoghi in vari dialetti e paragrafi narrativi declamati in terza persona (tecnica di ronconiana memoria ormai quasi assurta a cliché), i tre interpreti rincorrono un ritmo troppo concitato. Pur chiaro nel replicare l’estenuante minaccia della guerra, un diagramma visivo e sonoro così nevrotico tende a tratti a distrarre da una narrazione complessa, soffocando la lingua raffinata e implacabile di Morante, che invece colpisce a morte quando la regia le concede momenti di stasi. In quel respiro gli attori e l’attrice ritrovano il tempo dilatato per esprimersi al meglio, attraverso la potenza del teatro di parola, che risplende oltre ogni “effetto speciale”. (Sergio Lo Gatto)
Visto al Teatro Vascello. Crediti: drammaturgia Marco Archetti; regia Fausto Cabra; con Franca Penone, Alberto Onofrietti, Francesco Sferrazza Papa; scene e costumi Roberta Monopoli; drammaturgia del suono Mimosa Campironi; luci Gianluca Breda, Giacomo Brambilla; video Giulio Cavallini
ZIO VANJA (Regia di Roberto Valerio)
La qualità più riconoscibile dei personaggi cechoviani consiste nella vitalità della loro inedia, energia potenziale sempre sull’orlo dell’implosione. Come una folata di vento improvvisa fa alzare in volo la polvere e la fa scintillare, così questi esseri umani danzano un breve momento di vita, per poi tornare con tenerezza e pietà alla propria condizione statica e asfissiante, esattamente come quando, chiusa la finestra, la polvere torna a depositarsi sul pavimento. La regia e l’adattamento di Roberto Valerio lavorano in sottrazione per lasciare spazio all’espressione di questa energia momentanea, mossa simbolicamente dall’alcool. Ne sono pieni i bicchieri, le bocche, le botti: i personaggi lo bevono, ci giocano, vi si aggrappano. L’intera distribuzione è di grande efficacia: la qualità delle interpretazioni è alta e omogenea. Giuseppe Cederna nel ruolo di Vanja è tutto nervi e cuore, tecnica e pancia, fulcro ed emblema di questa vitalità compressa. Pietro Bontempo è un Astrov esuberante e malinconico insieme; Caterina Misasi una Elena sottile e persuasiva nella propria indolenza. L’andamento circolare di un dramma come Zio Vanja - in cui nulla accade eppure tutto sembra in procinto di accadere - trova ritmo nei pieni e nei vuoti ben distribuiti, a partire dall’organicità scenica: il palco è idealmente diviso a metà da una parete di fondo, un velatino che appare e scompare come accade alle chimere che Vanja insegue, sempre raggiunto dalla paralizzante concretezza della realtà. In alcuni momenti viene varcata la soglia del grottesco: certi accenti di Astrov, certe posture di Elena, pur non compromettendo la struttura generale, stridono come piccole forzature. O ancora la scena finale, declamata a gran voce da Sonja (Mimosa Campironi, per due atti fresca e puntuale): tutta l’energia delle due ore precedenti arriva ad un surplus quasi isterico in quel testamento rassegnato che forse avrebbe assunto forza maggiore in un lento assopirsi. Valerio sceglie di non far depositare la polvere, ma di usarla per un ultimo fuoco d’artificio. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Parioli di Roma. di Anton Čechov. Adattamento e regia Roberto Valerio. con (in ordine alfabetico) Pietro Bontempo, Mimosa Campironi, Giuseppe Cederna, Massimo Grigò, Alberto Mancioppi, Caterina Misasi, Elisabetta Piccolomini. Costumi Lucia Mariani. Luci Emiliano Pona. Suono Alessandro Saviozzi. Allestimento Associazione Teatrale Pistoiese. Produzione ATP Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale con il sostegno di Ministero della Cultura, Regione Toscana
#GENOVA
KAKUMA. FISHING IN THE DESERT (regia di Laura Sicignano)
Kakuma è il più grande campo profughi del mondo nato nel 1992 per accogliere oltre 20mila bambini (lost boys) che fuggivano nel 1987 dalla guerra civile nel Sudan meridionale. Tornata da questo viaggio, a giugno 2022, la regista Laura Sicignano ha sentito l’esigenza di raccontarlo con l'intento civile di «dare il mio piccolo contributo per aiutare anche una sola persona». Così nasce Kakuma. Fishing in the Desert prodotto dal Teatro Nazionale di Genova e presentato in prima nazionale alla Sala Mercato. Sulla scena realizzata con materiali di riuso, riempita di sedie, tavoli e sostegni, ci sono l’attrice Irene Serini, in camicia, maglietta, pantaloni e scarpe, e la danzatrice Susannah Iheme, scalza, con culotte e top, «un’entità senza possibilità di parola, al quale è permesso di esprimersi solo attraverso il corpo», in una danza fluida, tribale e terrigna, a tratti sostenuta da Serini. "L’occidentale" siede sulla poltrona e «discute del futuro di Kakuma», la danzatrice, che incarna l’Africa tout court, siede invece sulla sediolina dei bambini e distruggerà in segno di rivolta la scena, metaforicamente il sistema di aiuti umanitari. Amplificata da una compassionevole interpretazione, la distanza tra «noi» e «loro», «Africa + 400% e resto del mondo + 10%», «inferno» e «paradiso», è totalizzante, univoca, mai messa in discussione. La drammaturgia è infatti dichiaratamente eurocentrica: il corpo bianco dotato di parola descrive al pubblico la realtà del campo attraverso l'esperienza, e le fragilità, degli operatori dell’UNHCR, tutti bianchi, i cui volti compaiono nei monitor. L'unica voce indigena, è quella di Fabien, rappresentante l’1% di rifugiati, con lui il «miracolo» della salvezza occidentale è avvenuto, sarà ricollocato in Canada. Pur credendo nell’onestà poetico registica di Sicignano, nell’«utopia» del sottotitolo di “pescare nel deserto”, non possiamo non interrogare questo sguardo, anacronistico rispetto alla letteratura inclusiva e postcolonial, alla dialettica ibrida, mutuale e polisemantica. (Lucia Medri)
Visto a Sala Mercato, Teatro Nazionale di Genova: testo e regia Laura Sicignano; con Irene Serini e Susannah Iheme; scene e costumi Guido Fiorato; coreografia Ilenia Romano; musiche Uhuru Republic Raffaele Rebaudengo Filo Q; luci/ suono/ video Luca Serra; Foto Paula Casado Aguirregabiria
#PARMA
TOP GIRLS (di C. Churchill, regia M. Nappo)
Un lampadario di cristalli incornicia la scena minimalista di tavoli e sedie di Top Girls di Caryl Churchill, per la regia di Monica Nappo. Cinque donne della Storia, vere e d'invenzione, abitano con abiti meravigliosi un immaginifico privé e dipingono un'umanità femminile distrutta, sottomessa, tormentata. L’eroismo si trasforma in tragedia nel parlarsi addosso dei personaggi, in una scena iniziale grandiosa, incubo della protagonista Marlene, donna spregiudicata, decisa, provocante nel tubino rosso. Siamo catapultati ora in un ufficio di collocamento, ora in quella che immaginiamo una disperata campagna inglese. Ora tra le conversazioni pettegole delle addette, ora nel gioco/sfida di due adolescenti. La scena si fa sempre più vicina alla platea nel tentativo di ricalcare il meccanismo testuale, che si avvicina sempre più alla psicologia della protagonista svelandone le fragilità. Un carosello di personaggi vari, sostenuti da un cast d’eccellenza, si ritrovano impigliati, nel giogo di quella cattiveria, tipicamente femminile, che dà la nausea e ci impedisce, in fin dei conti, di schierarci dalla loro parte. Ma non è soltanto questa l’irrimediabile distanza che percepiamo: le raccomandazioni maschiliste per trovare un nuovo impiego, l’aggressività che governa le relazioni non sono passate, forse, ma passato appare il pensiero femminista che le esamina. Come passato è quel divano di pelle verde che separa il dialogo di due sorelle sui temi della famiglia, del lavoro, del prezzo reale dell’indipendenza femminile e delle sue contraddizioni. E della politica: il colpo di grazia alla potenziale contemporaneità di questo testo nel contrasto, ormai privo di ogni riferimento sensibile, tra classe operaia e individuo; nel parallelo che si voleva instaurare tra l’ascesa della Donna di Ferro e del capitalismo con la nostra quotidiana, parodistica, piccola politica di piccoli politici. Non è più nostro il mondo di quella lotta, che ora più che mai chiede di essere reinventata. (Angela Forti)
Visto al Teatro Due. Crediti di Caryl Churchill traduzione di Maggie Rose Con Sara Putignano, Valentina Banci, Sandra Toffolatti, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Martina De Santis, Corinna Andreutti, Simona De Sarno scene Barbara Bessi costumi Daniela Ciancio luci Luca Bronzo assistente alla regia Elvira Berarducci regia Monica Nappo produzione Fondazione Teatro Due