RECENSIONI BREVI MA INTENSE. Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
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#TEATRI DI VETRO 2022 #Roma #Festival
APOCATASTASI
Lo spazio e il tempo collassano in una sorta di buco nero, qui il senso si scioglie come un liquido nero inafferrabile: di fronte a noi ci sono due corpi femminili, vestono abiti lunghi e hanno da poco varcato il limite dell'adolescenza. Poca luce, nella penombra del Teatro India, hanno gli occhi coperti dai loro capelli, oppure sono di spalle o chiuse in un profilo nel quale nascondono lo sguardo. L'io è negato. È come sempre uno spazio di idee filosofiche quello di Tafuri e Beronio, che qui si nutre di antichi miti relativi alle danze dell’ade. Anche in questo Apocastasi, presentato a Teatri di Vetro, l'immagine, le riflessioni e i rimandi compongono, a distanza di giorni, una memoria suggestiva. La performance invece, nel suo accadere, nei 40 minuti, si muove con lentezza, piccoli movimenti, incontri tra due corpi e danze accennate, aggressioni, cenni erotici. Rimane appunto un'esperienza performativa circoscritta e di lettura forse non immediata per un pubblico non alfabetizzato o semplicemente non appassionato a una modalità che agisce per sottrazione. La potenza e il limite stanno proprio in questa caratteristica dell’opera, nel rimanere su un confine immaginifico: non si addentra nello stato solido di uno spettacolo, nella densità di un'opera completa, ma non rimane neppure nei territori totalmente anti rappresentativi dell'apertura sperimentale più pura. D'altronde la costruzione visiva, l'uso delle luci e il contrappunto musicale di Pietro Borgonovo dimostrano una volontà di costruzione, ma la coreografia e lo stare in scena delle due giovani performer sembra fermarsi prima, in una sorta di anticamera fatta di ombre. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro India per Teatri di Vetro. Crediti regia Clemente Tafuri e David Beronio con Roberta Campi e Giulia Franzone musiche originali Pietro Borgonovo produzione Teatro Akropolis. Foto Margherita Masè
FABRICA 36100
Paola Bianchi si muove pochissimo all'inizio, quasi si nasconde nel buio eppure il suo stare in scena è solido, riconoscibile nella densità di ogni muscolo. Il volto è come sempre concentrato ma neutro, veste una canottiera bianca e una gonna scura al ginocchio. FABRICA 36100 fa parte del più ampio progetto ELP, ricerca attraverso la quale la danzatrice e coreografa studia la relazione tra la “parola descrittiva” e danza. A Teatri di Vetro, seguendo lo spirito con il quale la direttrice del festival Roberta Nicolai interroga i percorsi delle artiste e degli artisti convocati, incontriamo il secondo di due dispositivi sul mondo del lavoro in fabbrica. Qui la ricerca si è svolta con i dipendenti di Bata attraverso il dialogo con ex lavoratori e lavoratrici, a partire da un quesito decisivo, oltre che pieno di suggestione, “ Cosa significa allora trasformare un gesto produttivo in un gesto che non produce materia, un gesto che trasforma e crea materia, in un gesto che crea qualcosa di immateriale?”. Il precipitato scenico, in movimento, vede un corpo farsi strada nel buio, lateralmente, alla destra dei nostri sguardi: non siamo di fronte a gesti atletici, c’è qualcosa sull’invecchiamento, sulla perdita dell’umanità, il gesto si fa spezzato e l’immagine arriva da una memoria lontana o da un mondo altro. La danza di Paola Bianchi evoca i fantasmi, ma questo non è un film horror, siamo in uno spazio teatrale e allora mentre il corpo si sposta al centro una luce di taglio da sinistra lo illumina colpendolo; si spezza a terra ora quel corpo, i movimenti definiscono le giunture, è un corpo industriale. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro India per Teatri di Vetro. Crediti coreografia e danza Paola Bianchi sound design Stefano Murgia light design Paolo Pollo Rodighiero collaborazione artistica Roberta Nicolai costumi PianoB residenze artistiche FAA Bataville-Moussey (FR), Teatro Galli di Rimini con il supporto di KOMM TANZ/PASSO NORD progetto residenze Compagnia Abbondanza/Bertoni produzione PinDoc coproduzione Teatri di Vetro con il contributo di MiC e Regione Sicilia. Foto Margherita Masè
#Roma
CATCH ME
Avremo subito tutti quel fascino, perverso ma impellente, dell’avere accesso alla vita di qualcun altro, raccolta in un archivio composto da tracce di un passato da preservare o resti che non si è riusciti ad abbandonare. Catch me è figlio di questo desiderio: lo spettacolo della compagnia Illoco Teatro visto al Teatro Basilica, è nato dall’incontro fortuito casuale con un baule di memorabilia appartenente tutte a un uomo. Oggetti vari ma soprattutto nastri audio all’interno dei quali l’uomo, Ennio, ha raccolto i propri sogni; lo scandaglio di questi viaggi onirici è diventato il terreno su cui far attecchire per i cinque interpreti (in uno studio di 5 anni) delle ipotesi di vita per frammenti, cui poi aggiungere del proprio, immaginando connessioni, ricorrenze, interpretazioni. Sulla scena approdano parole dai loro quaderni di viaggio (una istallazione all’ingresso della sala rende merito dei possibili intrecci su carta), mentre corpi e piccole abat-jour creano costruzioni immaginifiche rievocando il dicibile di quelle storie ricostruite. L’equilibrio tra il riuscire a dare giusto pieno a quel vuoto senza che diventi pretesto per un racconto slegato è materia complessa, tant’è che a volte si ha la sensazione di perdere il filo che sta ricucendo l’immagine perduta. Avere a che fare con un archivio espone al dover considerare per assoluto qualcosa che è figlio di tanti passaggi, molti dei quali aleatori, temporanei, casuali; i vuoti non sempre possono o debbono acquisire senso, ma la sfida sta proprio tra il rispetto e il tradimento, tra il ricucire uno strappo e aggiungere una toppa che non serviva ancora. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Basilica. Crediti: Regia Roberto Andolfi. Drammaturgia Rosalinda Conti. Assistente alla regia Alessia Giglio. Con Maria Vittoria Argenti, Dario Carbone, Annarita Colucci, Valeria D’Angelo, Anton De Guglielmo.
SNOWFLAKE
Interno sera, alla vigilia di Natale. Nel cuore dell’Inghilterra contemporanea Andy ha preparato tutto, ha addobbato una sala in affitto con festoni, palloncini e albero di Natale, per quello che vorrebbe fosse un incontro perfetto: qualcuno ha visto sua figlia Maya in città, da tre anni è andata via senza avvisare, ma forse questa volta si farà viva, lui ci spera, attende emozionato e sistema ogni dettaglio. Non ha mai saputo, o capito, quale fosse la sua colpa, forse per l’inaccettabile sfida di crescere da solo una figlia adolescente dopo la morte di sua moglie, forse perché ha votato sì alla Brexit e Maya si è sentita tradita. Forse. In questo dubbio si arrovella Andy, cercando l’espressione giusta per questo presunto arrivo. Snowflake, testo di Mike Bartlett diretto da Stefano Patti (che ne aveva curato la messa in scena per Trend 2021), attraverso uno spunto di carattere familiare cerca di esprimere il disagio intergenerazionale di un’Inghilterra alle prese con la lotta tra passato e futuro, tra conservazione e prospettiva, inquadrando un padre (Marco Quaglia) e una figlia (Adalgisa Manfrida) in conflitto ma svelando di ognuno la fragilità. Tra di loro un terzo personaggio (Lucrezia Forni), che sarà il fulcro del loro tentativo. La frustrazione e il dolore si mescolano con delle parti più brillanti, la regia di Patti cerca sostegno nella qualità degli attori – più di tutti Marco Quaglia che continuiamo a pensare meriterebbe palcoscenici prestigiosi – ma il testo ha dei conflitti drammaturgici molto deboli che non rendono del tutto credibili i motivi di questa mancata relazione. (Simone Nebbia)
Visto al Visto a Fortezza Est. Crediti: di Mike Bartlett; regia Stefano Patti; con Marco Quaglia, Adalgisa Manfrida, Lucrezia Forni; produzione 369gradi
L’UOMO PIÙ CRUDELE DEL MONDO (di Davide Sacco)
Qualche tempo fa Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, dopo aver acquisito il social network Twitter lo ha usato un po’ come avrebbe fatto un semplice utente: ha postato una foto che ritraeva alcuni oggetti sul proprio comodino. Sembra semplice esibizione, in realtà c’è di più: quanto fatto da Musk è stato costruire la propria identità di fronte agli altri, ambientare la scena del crimine peggiore per un essere umano: essere appunto umano. Sembra questo lo schema in cui si svolge la vicenda che Davide Sacco dirige in L’uomo più crudele del mondo, ma non è che apparenza: Lino Guanciale è un crudele e potente magnate d’azienda, Francesco Montanari un giornalista mite che viene convocato per raccoglierne la testimonianza e legittimare così il suo potere. Siamo dentro il doppio piano obliquo del suo ufficio nel complesso industriale, tutto attorno è silente, l’uomo è eccitato, conduce lui stesso la sua intervista e presto svela il proprio desiderio: essere ucciso dal giornalista, dietro il pagamento di sempre più denaro. Il giovane tentenna, rifiuta, poi pian piano accetta e si trasforma lentamente in un aguzzino, mostrando la propria natura più profonda. Guanciale è il più abile nel frequentare diversi registri e modellare il personaggio, al servizio di una regia decisa che tuttavia poggia molto sugli attori e sembra suggerire gli avvenimenti del testo più che farli apparire come una rivelazione. Ne nasce uno spettacolo agitato in cui la situazione si ribalta fino a far emergere dal passato le intenzioni segrete del gesto, promesso o minacciato, in cui si confrontano istinto e ragione, ma quando quest’ultima è intrisa dal dolore non avrà pace se non la morte. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Ambra Jovinelli. Crediti: testo e regia Davide Sacco; con Lino Guanciale e Francesco Montanari; scene Luigi Sacco; luci Andrea Pistoia; organizzazione Ilaria Ceci
TU ERI TURBOLENTA (Quirk of fate)
Ha debuttato con un bel passaparola, due giorni pieni nonostante si trattasse di una compagnia (Tostacarusa) al proprio esordio, uno spazio importante come l'Angelo Mai e tanti occhi curiosi: Tu eri turbolenta aveva creato certe aspettative, anche per il supporto di tanti soggetti durante la creazione. Regia e drammaturgia sono di Tolja Djokovic, vincitrice della Biennale College per la drammaturgia 21/22, con lei in scena Aura Ghezzi e Martina Tinnirello. Alla base il romanzo di Goliarda Sapienza, L'arte della gioia. Lo spazio scenico vede il pubblico su tre lati e la regia in scena. L'idea dovrebbe essere quella di innestare spunti autobiografici, piccole riscritture nel tessuto di altri frammenti, quelli del romanzo. Il risultato è un partizionamento di intenzioni eterogenee in cui ad ogni scena lo spettatore deve rinegoziare le istanze drammaturgiche per capire chi e cosa abbia davanti, senza avere il tempo di entrare in empatia. Si stagliano i momenti in cui la discendenza letteraria è più evidente, si intravede il profilo di Modesta, di certo si riconosce in queste tre donne sul palco la voglia di ricercare quella sfrontata libertà. Tostacarusa nelle note scrive: «Non potevamo mettere in scena il romanzo ma potevamo chiederci che cosa volesse dire per noi avere, o tentare di avere, un’arte della gioia», questo approccio emerge nella relazione, nei sorrisi tra le tre attrici ma non riesce ad aprirsi al pubblico. Rimane la cura unitaria nei costumi e alcuni momenti suggestivi per impatto scenico e musicale, ma i materiali (coreografie, spunti lirici e dialoghi) appaiono giustapposti in maniera confusa e non si addensano ancora in un'opera unitaria.(Andrea Pocosgnich)
Visto all'Angelo Mai. Crediti: con Aura Ghezzi, Martina Tinnirello, Tolja Djokovicc drammaturgia e regia Tolja Djokovic scene e luci Francesco Cocco produzione tostacarusa
#NAPOLI
CHAT- KEEP IN TOUCH
Da un’unica enorme cellula, una massa pesante al centro del palco, delle vite prendono forma scomponendosi in esseri autonomi. Volendo tralasciare la fuorviante nota di regia che pone la concentrazione su sedicenti studi antropologici che avrebbero preannunciato i principi di mutazioni fisiologiche legate all’uso massiccio dei social media, bisogna invece focalizzarsi sulle interessanti suggestioni di un’atmosfera (per paradosso) primitiva. Un’atmosfera di sole luci, il cui uso produce una cornice narrativa d’impatto: quelle lattiginose, così come i neri delle ombre, creano l’aria densa di un mondo solitario ai tempi della Prima Creazione, mentre i coni gialli isolano i corpi della nuova specie d’uomo, diventandone così i primi esemplari. Curvi nelle spalle e costretti a replicare insieme e da soli le stesse azioni in movimenti variabili, i danzatori suggeriscono certamente una qualche introiezione della tecnologica: pose per fotografie, pollici sollevati o dita guizzanti, schiocchi di labbra che imitano i trilli delle notifiche. Il peso dell’impostazione originaria ha però irrigidito il risultato della composizione ultima (soprattutto in trovate poco chiare come l’unione dei quattro corpi danzanti in quello della divinità Shiva), che è riuscita nonostante tutto a manifestare un senso di vitalità e umanità probabilmente non prevista ma che sarebbe stato necessario approfondire. Per cui quelle movenze spezzate da automi hanno in realtà un ritorno quasi animalesco, oltre che primigenio, e rimandano a nient’altro che all’immagine di uomini soli. (Valentina V. Mancini)
Visto a Piccolo Bellini, Napoli; Crediti: Coreografia Nicolas Grimaldi Capitello; Light designer Paco Summonte; Costumi Rosario Martone; Danzano Samuele Arisci, Eva Campanaro, Sibilla Celesia e Marco Munno; Produzione Cornelia; Coproduzione Teatro Comunale di Vicenza
METAMORPHOSIS
L’evoluzione dell’uomo è una lunga serie di complesse implicazioni naturali e culturali che fanno di lui una bestia molto più che pensante. Carlo Massari si districa tra le stratificazioni dell’evoluzione, tra le numerose ipocrisie e costrizioni della bestia molto più che pensante. È come un processo di scarnificazione e nella violenza dell’intenzione, il corpo si scuote in sussulti, sbalzi e convulsioni; lo spazio viene perimetrato e riempito nella sua interezza con un vigore che ha della disperazione. Le tre perfomances operano di sottrazione in quella che può essere, seppur suddivisa in momenti differenti, in una parabola; o in uno strano racconto di formazione dall’umano all’animale. Un uomo in giacca e cravatta si tende ben oltre le rigidità del proprio abbigliamento liberando il gioco con il lancio di coriandoli, e sbeffeggiando a gran voce e con una sonora risata a fior di labbra i credo dei nostri tempi. Poco dopo, il primo contatto con il mondo animale è nel conflitto della produzione intensiva di cibo; il conflitto si scioglie nell’immedesimazione e gli stessi scuotimenti che hanno percosso l’uomo, percuotono l’animale. Perduto l’abito, la nudità inizia a manifestarsi: Massari indossa solo l’intimo e una felpa che riproduce tagli di carne. La sua testa si muove docile a ciondoloni come quella di un bovino. Nell’ultimo quadro, perduto del tutto il contatto con l’umanità e con la fisicità tutta, resta un puro spirito palpitante e irrequieto, tutto teso nel raggiungimento della sua vera natura. (Valentina V. Mancini)
Visto a Sala Assoli, Napoli; Crediti Creazione originale e interpretazione Carlo Massari; Produzione C&C Company; In co-produzione con Oriente Occidente Dance Festival, Teatro Akropolis, Teatri di Vetro, Margine Operativo /Attraversamenti Multipli
CLOUD_ extended
Giovanfrancesco Giannini fa della scena l’esatta riproposizione della propria interiorità: lo spazio fisico è costruito con supporti video, che a loro volta sono funzionali a evocare lo spazio emotivo rendendolo nello stesso momento comprensibile e condivisibile. L’unico vero elemento scenico e narrativo è un corpo che si scompone e ripropone; un corpo che è evidentemente maschile ed evidentemente tutt’altro. Un corpo che sfugge a quello che dovrebbe essere per chi lo possiede e per chi lo osserva: in contemporanea alla clip di un’esibizione di Dalida, il corpo imita le movenze e le interpreta. Seguendo gli stimoli dei video, il corpo assume forme sempre diverse ma con un volto e uno spirito sempre riconoscibile: diventa agonistico e poi mortificato. Allora il corpo si riconosce in tanti altri corpi e diventa il portavoce di martirii: genuflesso, scagliato, colpito, affannato, affaticato, violentato; esattamente come i corpi in video, sconosciuti e indesiderati. Per effetto perturbante, le percosse diventano la base per una coreografia, forse perché in fin dei conti tutto può diventare bello. E se tutto è bello, allora anche quel corpo può esserlo: basta eliminare quell’unico elemento di distrazione e nasconderlo. Sullo schermo appaiono in sequenza le donne più famose della storia dell’arte; quei corpi rosei e morbidi, simboli e modelli, quelli sì conosciuti e ammirati. Perché non diventare quei corpi? Perché non riprodurli col proprio? Perché non sfuggire alle evidenze per offrirsi con generosità agli altri? (Valentina V. Mancini)
Visto alla Sala Assoli, Napoli; Crediti Un progetto di Giovanfrancesco Giannini; Disegno luci Valeria Foti; Produzione Körper | Centro Nazionale di Produzione della Danza; In coproduzione con Ariella Vidach - AiEP, Santarcangelo Festival
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#MILANO
BUONI A NULLA
Milano è una città a doppio volto. Lo sanno bene le persone che la abitano, lo sanno anche quelle che vi migrano. Il prezzo delle incredibili possibilità si paga con l’alto rischio di perdere ogni cosa, gli amici, il lavoro, la casa. L’eccitazione si trasforma in rabbiosa depressione. Si perde tutto in un attimo, avvolto dalla vorticosa frenesia di una città che non s’arresta e in cui nulla ti appartiene. Il lavoro coraggioso di Lorenzo Ponte, che nel testo più della regia si mostra ancora non del tutto compiuto, parte dall’idea di appartenenza di uno spazio che possa essere di chiunque lo voglia: il suo palco allora è una degradata stazione del bus ma diventa proprietà apertamente condivisa che si espande in orizzontale nelle diverse ambientazioni scenografiche e in verticale nei tentativi eccessivi di coinvolgimento della platea. È Luca Oldani, un senza tetto marginale eccentrico che dice la verità – forse un po’ folle borderline – a tessere quel legame col pubblico; lo incalza, lo interroga, provoca una situazione di disagio e destruttura i concetti prestabiliti dell’abitare. È marginale anche la redattrice (Paola Galassi) che fatica a mantenersi, lo è lo studente (Tobia Dal Corso) bocconiano disperato nella ricerca di un tirocinio. A partire dall’indagine sociale sostenuta da PRAXIS e condotta a Milano sull’emarginazione e sulle condizioni degli homeless, a teatro queste disuguaglianze delle solitudini periferiche, poco centrate nelle interpretazioni di Galassi e Dal Corso, ci urlano qualcosa nel trambusto caotico della città, chissà che qualcuno ora le ascolti. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Crediti: testo e regia Lorenzo Ponte, con Tobia Dal Corso Polzot, Paola Galassi e Luca Oldani, scena Davide Signorini, costumi Giulia Rossena, luci Emanuele Agliati, suono Gaetano Pappalardo e Simone Sigurani,
DALL’ALTRA PARTE -2+2=?
Chissà cosa succede all’interno di un utero materno quando è la vita a originarsi e a prendere forma. Chissà cosa succede quando sono tre feti a condividerlo, costretti a ritagliarsi degli spazi, a crearsi dei ruoli, ad affidarsi dei nomi, anche solo per passatempo. Nel progetto di Putéca Celidònia diretto da Emanuele D’errico, vincitore del Premio Giovani Realtà del Teatro 2019 e semifinalista InBox 2021, tre gemelli eterozigoti, tuta intera blu, sono di spalle, corrono fermi sul posto, legati da un resistente cordone ombelicale ma destinati nel tempo a crescere e separarsi. La voce fuoricampo di Clara Bocchino e le musiche ritmate di Tommy Grieco ne scandiscono lo sviluppo prenatale, ben interpretato da un sensibile cast di giovani attori; c’è Damiano, il bello che ostenta sicurezza con un irriverente egocentrismo, c’è Febo, l’alto e maturo improvvisatosi poeta, c’è Innocente, il più piccolo e tenero, genuino nell’animo e nei sentimenti. I tre feti si muovono e si bistrattano, poi giocano, si spogliano e cambiano abiti fino a rimanere nudi nella propria pelle, per mostrare quella che è, a tutti gli affetti, un’evoluzione biologica che non si compirà del tutto. Anche il loro linguaggio subisce una progressiva trasformazione e da colto, filosofico e nutrito di riferimenti scientifici (tratti dagli studi della University of California) si semplifica, retrocedendo ad uno stato asemantico. Tutta colpa dell’irreversibile perdita di neuroni, ci spiegano i feti, condizione permanente con la quale i fratelli devono scendere a patti. E prepararsi, senza più equazioni risolvibili, a fuoriuscire, dall’altra parte. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro i di Milano. Crediti: regia e drammaturgia Emanuele D’errico, con Emanuele D’errico, Dario Rea, Francesco Roccasecca, voce Clara Bocchino, assistente alla regia Marialuisa Diletta Bosso, costumi Giuseppe Avallone, scene Rosita Vallefuoco, sound design e musiche originali Tommy Grieco. Produzione Cranpi
IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO
Rimbomba il canto lontanissimo e religioso di una voce ancestrale nello spazio dilatato del Teatro Strehler. Tutto è di un fitto nero tenebra finché una luce bianca, prima debole poi sempre più intensa (curata con minuzia da Giuseppe Filipponio), compare dall’alto e si espande a cono per scendere tagliente sul palco, dove tutto sembra oramai perduto, ricoperto di terriccio e sabbia. Un uomo, stretto nell’esile corpo in una soffocante camicia di forza, vi avanza senza direzione, confuso dallo spazio che lo ingloba e lo atterrisce; la scenografia ne accentua l’enorme vuoto di mezzo in una continua tensione spirituale tra il basso e l’alto. In questo ambiente, onirico negli elementi essenziali che lo compongono, Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij da testo diviene immagine. Il concitato flusso di coscienza dell’uomo meschino prende il corpo di Lavia - che traduce, adatta e dirige lo spettacolo già portato in scena negli anni ’90 -, ne ripete gli spasmi, ne amplifica l’ossessione e la mania mentre l’illuminazione ricade drammatica su di lui, come uno spirito pronto a giudicarlo. Del personaggio dostoevskijano riusciamo a percepire tutto il tormento nei passi trascinati, la follia negli occhi arrossati, la consunzione morale nel corpo raggomitolato. Lavia è intenso, modula la sua presenza tonale e scenica nei tratti del monologo e snocciola ciò che del testo dell’autore russo è parola scritta, diviene vita pronta a negarla, sogno che è un incubo tra cielo e terra. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Strehler di Milano. Crediti: di Fëdor Dostoevskij, traduzione e adattamento Gabriele Lavia, regia Gabriele Lavia, con Gabriele Lavia, Lorenzo Terenzi, luci Giuseppe Filipponio, fonica Riccardo Benassi, produzione Effimera. Ph Filippo Manzini
LA SECONDA SORPRESA DELL’AMORE
C’è sempre stato qualcosa di inafferrabile nel sentimento dell’amore, di ambiguo e di indefinito, poiché all’iniziale tensione attrattiva ne segue una immediatamente repulsiva. E l’essere umano rimane lì, al centro di una contesa di forze opposte, tenuto come in ostaggio, spinto dal desiderio passionale di lasciarsi andare e trattenuto dalla paura del rifiuto. In Marivaux questo timore assume il carattere di un mascheramento sagace: nella drammaturgia tradotta per la prima volta in italiano da Beppe Navello, i personaggi camuffano i propri sentimenti per sfuggirvi. Fugge la Marchesa (Daria Pascal Attolini), vedova piena di sospiri e tentennamenti, confinandosi in casa per proteggersi dal lutto del primo amore. Fugge il Cavaliere (Lorenzo Gleijeses), indocile e nervoso, ferito dal tradimento e dall’abbandono, trovando riparo nell’indifferenza. Ma è quando i due protagonisti s’incontrano che l’epilogo sembra già rivelarsi (un’abilità sottile che il regista eredita da Marivaux): il nuovo sentimento nel quale incedono sarà una sensibilità condivisa dalla quale dovranno invano affrancarsi. È lì che riprende la fuga all’interno di un labirinto di inganni e fraintendimenti, innescati dal guizzo dei due servi e di Ortensio. Nell’adattamento, il lavoro di Navello, realizzato a partire da un progetto del Ministero per la diffusione dell’autore francese, rimane fedele all’originale nelle sfumature dei sentimenti, scandite da un’illuminazione emotiva di rossi, verdi e bianchi curata da Orso Casprini, e inserisce solo alcuni motivi che ne accentuano la comicità per creare una doppia cornice di pubblico che, tra palco e platea, rimane complice divertito. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Grassi di Milano. Crediti: di Marivaux, traduzione di Beppe Navello, con Lorenzo Gleijeses, Daria Pascal Attolini, Marcella Favilla, Stefano Moretti, Fabrizio Martorelli, Giuseppe Nitti, regia Beppe Navello, scene e costumi Luigi Perego, musiche Germano Mazzocchetti, luci Orso Casprini, produzione Associazione Teatro Europeo, in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana. Ph Luca Passerotti
#PALERMO
LO STRANIERO
Pensato inizialmente per una maggiore quantità di interpreti, Lo straniero di Albert Camus per la regia di Lelio Lecis, visto al Libero, è stato ridotto a monologo per cause di forza maggiore. Così, la scena di Valentina Enna, un elegante incunearsi di luci e ombre, è stata calcata soltanto da Simeone Latini. Il suo monologo, successivo a una sorta di proemio divulgativo sull’autore e l’opera, ripercorre le vicende del protagonista Meursault in un flusso continuo. I fatti relativi agli ultimi giorni del protagonista (i funerali della vecchia madre, una relazione sentimentale, l’uccisione di un arabo) vengono rievocati da un eloquio dal ritmo nevrotico. Troppo: la problematica anaffettività – vera o presunta – dell’antieroe camusiano avrebbe potuto essere più approfondita. Il testo avrebbe forse richiesto maggiore pausa, vuoto tra i suoi momenti; il resoconto del protagonista, che poi è la deposizione rilasciata al giudice nel processo a lui intentato, si svolge qui con eccesso di rapidità tra gli eventi rievocati. Peccato. Certe soluzioni sceniche, il disegno delle le luci, di tono sobriamente minimale, sono nel loro complesso senz’altro suggestivi. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero. Crediti: di Albert Camus, drammaturgia e regia Lelio Lecis, con Simeone Latini, costumi Marco Nateri, scenografia Valentina Enna, musiche Peter Gabriel/Tradizionali arabe, assistente alla regia Julia Pirchl, assistente costumi e spazio scenico Stefano Cancellu
DON GIOVANNI INVOLONTARIO
Il Don Giovanni involontario di Vitaliano Brancati racconta le vicende di un Casanova siciliano. A differenza del suo equivalente mozartiano, il protagonista qui non è soltanto un amante appassionato – o presunto tale: è un maschio affetto da “gallismo”, dall’esigenza di mostrarsi sì eccellente cultore dell’ars amatoria, ma più per inettitudine che per slancio. La regia di Saponaro vorrebbe entrare nella vicenda valorizzandone gli aspetti comici, ma forza troppo la mano riducendo la sottile ironia brancatiana, fine come una lama, a farsa parodica poco misurata. Le interpretazioni degli attori e delle attrici vengono costrette a impietose esternazioni macchiettistiche; soltanto Fabrizio Falco, nei panni del protagonista, riesce con consueta asciuttezza a governare il proprio personaggio. Il suo Francesco Musumeci è ora annoiato, ora lascivo, ora esasperato: i passaggi da uno stato all’altro sono ben calibrati e verosimili, nonostante a volte lo stesso Falco sembri perdersi un poco nel caos complessivo. I costumi, di Dora Argento, sembrano uscire dall’universo brancatiano. Interessante anche la scenografia: un edificio di coltri nere all’esterno, che lasciano intravedere la vita domestica che si svolge all’interno. A circondare gli amori di Musumeci è un funesto velo funebre. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo, Crediti: di Vitaliano Brancati, regia di Francesco Saponaro con Fabrizio Falco, Claudio Pellegrini, Antonio Alveario, Simona Malato, Irene Timpanaro, Daniela Vitale, Chiara Peritore, Giovanni Arezzo, Annibale Pavone, Giovanni Arezzo
#CASERTA
COSTELLAZIONI
Stando a una delle leggi della fisica quantistica, una cosa può contemporaneamente avvenire o no su svariati piani della realtà; per questa ragione, Marianna (Ilaria Delli Paoli) e Rolando (Roberto Solofria), una fisica teorica e un apicoltore, vivono e si incontrano innumerevoli volte. I due innamorati sono come l’esperimento atto a dimostrare la legge: fasciati e isolati da luci uniche, vivono come se il loro fosse un caso esemplare. Lo spazio vuoto prende corpo dalla ripetizione degli eventi, assumendo di volta in volta le sfumature delle emotività dei protagonisti; alle volte cambiano minimi dettagli, lievi inclinazioni della voce o gesti minuti, altre volte sono prospettive opposte. Il loro è un susseguirsi di what if che esplorano la relazione in ogni variabile implicazione. Il tono leggero da commedia romantica, i suoi rapidi meccanismi di battuta e risposta, le incomprensioni e le gaffe, il confronto a tratti conflittuale tra due personalità estremamente differenti, scivolano nel melodramma come la più classica delle storie d’amore. Ilaria Delli Paoli, nonostante i limiti dei ritmi di relazione piuttosto serrati, riesce brillantemente a dare vita a una Marianna che, per quanto sia un personaggio tipico del genere, non di rado si allontana dai toni monocordi del cliché per assumere connotazioni di spiccata personalità. Forse molto più semplice di quanto viene proposto, il racconto dall’intreccio classico procede in maniera lineare e rispetta le esigenze di pubblico desideroso di dolci sentimentalismi. (Valentina V. Mancini)
Visto a Civico 14, Caserta; Crediti: di Nick Payne; Con Roberto Solofria e Ilaria Delli Paoli; Progetto sonoro Paky Di Maio; Regia Roberto Solofria; Traduzione Valerio Piccolo; Impianto scenico Nicola Bove e Vincenzo Leone; Costumi Alina Lombardi; Produzione Mutamenti/Teatro Civico 14
#NAPOLI
DAL SOGNO ALLA SCENA
Per ricreare l'idea di un'enorme pagina biaca sul palcoscenico buio, Daniel Pennac ha bisogno solo che la penna nella sua testa ne trascriva le parole. La sua presenza è motivata solo dal gusto dell'immaginazione, e il sogno ne alimenta le immagini. Le parole, con un giro vorticoso, da idea si fanno testo drammatico, corpo attoriale e apparato scenico. Il momento del teatro diventa, per un meccanismo di sola evocazione, piacere genuino per il raccontare, quando niente esiste se non viene prima nominato; ed è solo l'impossibile a venir richiamato. Lo zio Federico Fellini che spiega al piccolo Daniel e al fratello che i dinosauri si sono estinti perchè hanno trattenuto delle scoregge non è reale, ma diventa vero. Maradona, ormai spirito semidivino in Purgatorio, per davvero ha recuperato all'Inferno l'anima persa della moglie di un pescatore conducendola in Paradiso. La maestria narrativa prende corpo nello spazio vuoto che resta tale finché non viene reificato dall'agire dai compagni di racconto che si prestano al gioco dell'immedesimazione e, come per scherzo, si fanno personaggi (Pako Ioffredo e Demi Licata intensi e vividi, davvero due personaggi da racconto onirico). Il sistema è immediato: c'è una rapida successione tra ciò che viene espresso in francese dall'autore e poi tradotto dagli attori in italiano e in gesti. Il processo creativo, tanto del romanzo quanto del teatro, così disvelato diventa un esercizio di stile, un espediente narrativo, una lettura ad alta voce. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Nuovo, Napoli; Crediti Di Clara Bauer, Pako Ioffredo, Daniel Pennac; Con Pako Ioffredo, Demi Licata, Daniel Pennac; Mise en space Clara Bauer; Musiche di Alice Loup e Antonio Urso; Coproduzione compagnie Mia – Mouvement International Artistique e Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro
LA NONA (DAL CAOS AL CORPO)
Nel silenzio dei primissimi tempi, prende avvio la Fede: un corpo solo produce movimenti iconici di tensione verso l'alto; i movimenti si riproducono in sequenze ordinate, sempre le stesse, e diventano rito: a ogni nuovo passaggio vi si aggiunge un adepto e un unico enorme corpo, fatto di numerosi sospiri, si ammassa imponente. I segni delle religioni, un crocefisso e la Mano di Fatima, si impongono come monolitiche e irremovibili guide. Dal silenzio scuro della Fede si eleva opposto e forte la n°9 op. 125 di Ludwig Van Beethoven come attitudine dello spirito alla libertà. Gli accoliti riprendono la scena, non più corpo unico ma corpi in relazione: ancora, la partitura di movimenti si compone di pochi frammenti che si ripetono in sequenze caotiche le cui combinazioni producono variabili nella solitudine e nelle relazioni. Ognuno, abbandonati gli abiti civili quotidiani e indossati quelli spirituali (arancioni, evocativi del Movimento Hare Krishna), segue la propria vocazione e si immerge nel mondo con gli altri. Il caos delle individualità o dei minimi incontri trova talvolta l'ordine in un sentimento condiviso, che diventa segmento corale, per poi disfarsi nuovamente nell'accidentale e nel sempre nuovo. Il conflitto, in una simile impostazione, non si manifesta mai se non nell'apparato simbolico che ne fa da cornice: forse anche l'eccesso didascalico del sistema simbolico è una visione estremamente pacificata. Per paradosso, la visione che si richiama fieramente laica riproduce quel sistema manicheo nei valori umani che sono proprio dell'estremismo religioso che tanto rifiuta. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Bellini, Napoli; Crediti Coreografie e regia Roberto Zappalà; Pianisti Luca Ballerini, Stefania Cafaro; Controtenore Riccardo Angelo Strano; Soprano Marianna Cappellani; Musiche Ludwig Van Beethoven Sinfonia n°9 op.125
#Roma
GIULIO
Con guizzo fantasioso, un po’ disordinato e ancora da rodare ma impavido, Giulio di Anonima Teatri è una riscrittura di Aleksandros Memetaj e Yoris Petrillo del Giulio Cesare di Shakespeare, all’insegna della stravaganza e dell’intrattenimento e dalle molteplici sfumature, forse un po’ troppe in alcuni passaggi tanto da far perdere di incisività l’equilibrio tra le dinamiche personali dei protagonisti e quelle politiche. La storia è raccontata dal punto di vista di Giulio (di una maturità monella e sensibile l’interpretazione di Beatrice Fedi), servo ciabattino di Bruto che, a tre giorni dalle Idi di marzo, deve preparare i sandali che indosserà Cesare per andare in Senato. Alla base vi è un corposo studio sul testo originale e sui testi storici collaterali, e un denso lavoro che parte dall’improvvisazione e giunge a creare una movimento interno alle scene. La danza unita alla prosa “porta le parole” su di un piano immaginifico ordinato dalla regia di attori e di attrici, notevole quella di Fabio Pagano nel ruolo di Antonio, mentre la gestualità di Caroline Loiseau ci restituisce una Porzia ineffabile. Ensemble affiatato in cui ciascuno/a è pedante nella tipicizzazione dei caratteri, sarebbe infatti opportuno distaccarsi dai ruoli quel tanto che basta giusto per non rischiare la caricatura. La goliardia e l’inebriante fame di potere rilevano delle relazioni la loro precarietà: la grande storia potrebbe cambiare se si tornasse all’umile tensione a fare del bene? (Lucia Medri)
Visto allo Spazio Rossellini: liberamente ispirato al Giulio Cesare di W. Shakespeare, di Aleksandros Memetaj e Yoris Petrillo, con Beatrice Fedi, Caroline Loiseau, Fabio Pagano, Guido Targetti, Valerio Riondino e Umberto Gesi, produzione Anonima Teatri, con il sostegno di Twain Centro di Produzione Danza, Dance Project Festival, con il contributo di Regione Lazio Spettacolo dal Vivo. Foto di Valeria Tomasulo
CENERENTOLA REMIX
I sogni son desideri… ma no, i sogni sono roba concreta e Cenerentola, la favola di Perrault che vanta numerosi tentativi di imitazione, arriva a scoprirlo, suo malgrado, attraverso il dolore e la sopraffazione. C’è un guardaroba sul fondale, tutto è visibile in questa versione “remix” firmata da Fabio Cherstich e Tommaso Capodanno; una struttura metallica è casa della nuova famiglia della protagonista, vi scorgiamo all’interno la malvagità della matrigna e delle sorellastre, la fragilità del padre rimasto vedovo, la sua solitudine che misura il tempo che passa attraverso un orologio enorme appeso al collo, per non dimenticare mai la propria madre. È una versione immaginifica e plastica, che punta alla vivacità espressiva su note graffianti e nulla concedendo alla dolcezza patinata da confetto della nota versione disneyana: in questa Cenerentola la fata è una spassosa vecchina che parla dialetto romanesco da un water immondo, il principe è un nerd misogino che non accetta la morte della madre e regala una scarpa alla giovane ignota, il ballo un mix di valzer e suoni da videogioco, la matrigna una donna che, in nome dell’estetica ipertrofica di questa epoca in cui la giovinezza si crede eterna, vuole sostituire le figlie nella ricerca del principe; Cenerentola vincerà perché è l’unica a dire la verità, in una storia piena di menzogne. È una lettura lucida quella di Cherstich, divertente e aggressiva, che sviluppa ciò che delle fiabe spesso resta fuori, una storia in cui la vanità è sconfitta e la modestia valorizza l’umanità, in cui la superbia sarà umiliata e i sogni, se non sono motivati dalla concretezza delle azioni, sono turpi imbarazzanti equivoci ridotti alla miseria umana. Tutt’altro, che desideri. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro India. Ispirato alla favola di Charles Perrault, ideazione e regia Fabio Cherstich; musiche Pasquale Catalano; con Julien Lambert, Giuseppe Benvegna, Annalisa Limardi, Alessandro Pizzuto, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane
ROLLERCOASTER
Prendete una sala sotto i cento posti, riempitela di un pubblico di giovani - probabilmente molt* alliev* artist* della scuola di circo Materia Viva -, programmate un artista altrettanto giovane, ma già un fenomeno riconosciuto nei circuiti, il trentaduenne Wes Peden ed avrete una serata da tutto esaurito, piena di energia, applausi e viva attenzione; come quella di ieri (10 dicembre) in chiusura della rassegna Battiti al Teatro Furio Camillo. Per creare Rollercoaster il juggler statunitense (con base a Stoccolma) ha attinto alla propria memoria di infanzia, alla passione per le montagne russe: in scena grandi gonfiabili azzurri e componibili, il protagonista con scarpe arancio fluo come i capelli e poi gli oggetti del mestiere, palline, clavette, cerchi, scatole piene di accessori da far volare sopra la testa. Wes Peden sembra riuscire a lavorare con qualsiasi cosa: una giovane spettatrice che mi siede accanto sussurra a un altro spettatore: «i piatti cinesi… sa usare anche quelli!». Con una voce fuori campo, di quelle da sintesi vocale computerizzata, Peden occupa lo spazio del riposo con piccole riflessioni o ricordi ironici sulle montagne russe, l’intrattenimento da luna park ritorna anche nelle forme dei “numeri”, nell’uso di un lungo tubo in cui far scorrere le palline, nella progressione delle difficoltà e del ritmo con cui si dipana lo spettacolo. Rollercoaster però non è solo un fenomenale susseguirsi di esercizi di giocoleria è anche una poetica danza tra uomo e oggetti, c’è qualcosa di commovente e dolce negli occhi di questo colorato juggler in grado di sfidare la gravità. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Furio Camillo, Battiti - Rassegna Internazionale di circoteatro. Crediti: di e con Wes Peden
RIDING ON A CLOUD
Libano, 1987. Un giovane uomo sta per iniziare l’università, ma si trova all’improvviso a dover tornare all’asilo. Sullo schermo dell’auditorium del Maxxi vediamo le immagini delle sue pagelle scolastiche. Più che un palco, una predella con una scrivania e, seduto, l’uomo che dà in pasto allo schermo tracce audio e video tramite un mangianastri. Il suo sguardo ritratto nel perimetro della scrivania, il suo silenzio rimediato da quell’archivio di memorie, comunicano la solitudine impenetrabile di una sparizione improvvisa. L’uomo è Yasser Mroué, fratello di Rabih, regista, performer, drammaturgo, artista visivo libanese di stanza a Berlino, fra le voci più intense e complesse a portarci testimonianza della storia moderna del paese mediorientale. Riding on a cloud porta in scena la storia del fratello, sopravvissuto ad un proiettile al cervello, sparato da un cecchino appostato sui tetti di Beirut, lo stesso giorno che il nonno dei due, dirigente del partito comunista, venne assassinato. La guerra come forma di dolore senza storia, ma anche la storia come forma di rappresentazione sono ossessioni per Rabih Mroué, che qui porta la riflessione al grado di una scansione magnetica nel corpo-biografia del fratello, privato della parola per un certo periodo dopo il terribile incidente. Nell’afasia, Yasser ha costruito un rapporto nuovo con le immagini, strumenti alternativi per indicare gli oggetti che il trauma ha reso estranei al linguaggio. In quello iato fra parola e immagine sta un dissidio profondo, che per i Mroué racconta, in modo misterioso ma potente, la guerra stessa. (Andrea Zangari)
Visto all'Auditorium Maxxi, Romaeuropa Festival: Performance di Rabih Mroué Scritto e diretto da Rabih Mroué con Yasser Mroué In collaborazione con: Sarmad Louis
#PALERMO
GIUSTO
A vederlo entrare in scena così, abito e papillon non proprio su misura, bottiglia di spumante in mano, aria sperduta e tanto imbarazzo, non si può non provare solidarietà. Il Giusto di Rosario Lisma è l’unico individuo davvero “giusto” all’interno del microcosmo nel quale vive: il palazzone dell’istituto previdenziale dove il protagonista, impiegato di origini siciliane trapiantato a Milano, trascorre la maggior parte della propria vita. Il posto di lavoro è un covo fantozziano di belve competitive e senza scrupoli, sempre pronte a vessare il più debole. Nel raccontarlo, l’attore lascia scorrere un catalogo variegato di personaggi, cadenze regionali, specie animali descritte con il piglio di un caratterista acuto ma non altezzoso. Sullo sfondo, i disegni di Gregorio Giannotta ricreano l’atmosfera comicamente fiabesca che già è del testo, sciorinato tra sonorità struggenti e discutibili musiche latino-americane, da festa aziendale. A volte il personaggio sparisce un poco, superato dall’insofferenza del suo interprete: così, la vera protagonista dello spettacolo diviene una personale esigenza di invettiva, che Lisma scaglia contro le storture del mondo come uno stand-up comedian. Il rischio è di scivolare talvolta nel luogo comune; ma lo spettacolo diverte così tanto che anche questo è senz’altro concesso. La risata è, spessissimo, la migliore delle soluzioni. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo di e con Rosario Lisma illustrazioni Gregorio Giannotta costumi Daniela De Blasio luci Matteo Selisaiuto regia Alessia Donadio produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse si ringrazia Comasia Palazzo per i movimenti coreografici
ARTE
Tre pareti, o meglio, il profilo luminoso di tre pareti, separa gli ambienti nei quali vivono rispettivamente Serge, Marc e Yvan. Tre amici con differenti vite e vedute, le quali si incontrano e si scontrano nell’ambiente disposto al centro della scena. Qui campeggia un dipinto bianco, completamente bianco, che Serge ha comperato a un prezzo spropositato. L’acquisto diviene il detonatore di asti a lungo sepolti nel silenzio: Arte di Yasmina Reza (premio Moliére nel 1994), per la regia di Alba Maria Porto, pone a nudo le spesso ipocrite dinamiche del vivere sociale. Gli attori interpretano persone facilmente riconoscibili, nelle quali è facili immedesimarsi, tra approvazione e ostilità. Elio D’Alessandro, nei panni di Marc, è un ingegnere caustico e a tratti brutale, efficace tanto nell’ironia quanto negli scatti d’ira. Mauro Bernardi è un Yves svampito ma buono, divertente nelle sue esternazioni più immature. Alessandro Cassutti, nei panni di Serge, è il dermatologo sensibile all’arte informale, ma forse la sua interpretazione è quella meno convincente. Comunque sia, l’attenzione del pubblico è stata costante e in qualche modo partecipe: le elucubrazioni dei protagonisti, tratteggiati come individui comuni, sul valore di un’arte per molti sfuggente, sono certo suscettibili di interessante dibattito. La storia che i tre raccontano è una vicenda verosimile, utile a sollevare riflessioni: se ne sente il bisogno. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero, Palermo. Crediti: di Yasmina Reza, nuova traduzione Luca Scarlini, regia Alba Maria Porto, con Mauro Bernardi, Alessandro Cassutti ed Elio D’Alessandro, scene e costumi Lucia Giorgio, Asterlizze Teatro, Torino
#MILANO
AL SUO POSTO
Una piccola sala da tè, quattro sgabelli, un nutrito servizio di porcellane, tazzine, piattini e cucchiaini sono lo sfondo di una scenografia tintinnante e minimale, luogo protagonista del lavoro diretto da Marianna Esposito Al posto suo. Lo spettacolo, semifinalista al Premio Teatrale Dante Cappelletti, è andato in scena alla Fabbrica del Vapore ospite di ACEA Odv, ente che si occupa di contrastare la violenza di genere. In scena, è il 2021. Siamo in un bar. Qui, quattro amici si riuniscono periodicamente per organizzare, con largo anticipo, il giorno in cui si rivedranno alle terme. La decisione della data è il pretesto per innescare una dimensione confessionale; invece di una narrazione imprigionata negli stereotipi maschili, il testo di Esposito ne rovescia con ironia i termini della relazione, attraverso la buffa storpiatura dei vocaboli (“quote blu”, “La Madrina”, entrando anche all’interno di un dibattito non poco attuale). Non si tratta di «uomini che parlano di donne o che fanno le donne - viene spiegato nelle note di sala – ma uomini che si calano, letteralmente, nei loro panni» per raccontare abusi spesso taciuti, ignorati, minimizzati. È l’uomo a lamentarsi della violenza fisica subita dalla moglie, è l’uomo a giustificare quella psicologica, l’uomo che si sente a disagio al lavoro. Gli anni si susseguono a ritroso, improvvisamente è il 2016, ai fatti di scena si mischiano quelli di cronaca. Il suono di una radio ne scandisce il ritmo, ma le ellissi temporali ci rivelano che la storia è ancora una volta sempre la stessa. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Fabbrica del Vapore di Milano. Crediti: testo e regia Marianna Esposito, con Alberto Corba, Alessandro Cassutti, Giulio Federico Janni, Leonardo Tacconella sostituito da Diego Paul Galtieri, assistente regia Francesca Ricci, scenografie Stefano Zullo. Ph Emanuele Limido
NEL GUSCIO
Amleto, il principe, torna in famiglia quando tutto è già compiuto, era lontano e trova una condizione su cui non ha più capacità d’azione se non quella dei reietti, dei folli, dei visionari. Ma se Amleto avesse invece visto tutto e sapesse, da un punto privilegiato d’osservazione? Parte da questa suggestione, velata e non certo dichiarata, il testo Nel guscio di Ian McEwan che Cristina Crippa porta in scena e che rivela la molteplicità del talento di Marco Bonadei: è sospeso, letteralmente, ad una fascia che scende dal soffitto, un feto nel guscio che attende di nascere e conosce fin troppo, scorge con i propri sensi in via di compimento un mondo già troppo crudele con il quale misurarsi, da cui presto dovrà difendersi. La madre, Trudy, che lo ospita per la gestazione inscena il tradimento più brutale con Claude, fratello del marito e padre, un poeta senza soldi ma colmo di bontà; insieme ordiscono la sua morte per avvelenamento, ma il feto sa tutto, nessuno saprà che lui ha visto, udito, toccato con mano la pena della propria discendenza. Con una potente capacità descrittiva, la visione che il feto ha del mondo attorno è ferocemente critica, il delitto vi appare a deturpare la purezza del senso che emerge, dopo il dolore, dopo la giustizia, a macchiarsi già del peccato più atroce. La regia di Crippa esprime tinte ora fluttuanti ora tetre, fosche, attraverso le luci e i suoni profondi d’organismo, come il battito del cuore; Bonadei raccoglie e vince la difficile sfida di mettere in scena un personaggio grottesco e tragico ad un tempo, cui dona ogni sfumatura del proprio bouquet d’attore, gestendo i colpi di scena con qualità estrema. E, sia detto a suo vantaggio: senza mai uscire da una placenta. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Ian McEwan; regia Cristina Crippa; con Marco Bonadei; scene e costumi Roberta Monopoli, luci Michele Ceglia, suono Luca De Marinis
COME TU MI VUOI
È un gioco di incastri irrisolti la definizione di ciò che siamo. È un gioco di incastri irrisolti ciò che siamo davanti agli occhi degli altri. Il gruppo teatrale Invisibile Kollettivo porta in sala gli interrogativi della questione identitaria negli stessi ruoli femminili/maschili del cast, per indagare il confine liminale tra realtà e finzione. Lo fa con una reinterpretazione del classico pirandelliano Come tu mi vuoi, attraverso un co-produzione del Centro Teatrale Bresciano e del Teatro dell’Elfo. Del testo diviso in tre atti, il gruppo cura la scenografia espressionistica e l’adattamento drammaturgico in un’ottica metateatrale, che fatica inizialmente ad ingranare: si vedrà la scena di una Berlino notturna a luci rosse, luogo di seduzione e di piaceri, dove s’incontrerà Elma, una femme fatale che gingilla compiaciuta alle attenzioni dei compagni che la contendono. In lei verrà riconosciuta Lucia, la moglie di Bruno scomparsa dopo l’invasione austriaca in Friuli; Elma tornerà nella villa patrimoniale di Udine e tenterà di aderire all’imposto stereotipo sociale per riconoscersi in Lucia (nello sdoppiamento ben interpretata da Elena Russo Arman e Franca Penone). Ma cosa le rimane della propria identità, nell’ immagine frammentata dal desiderio dello sguardo altrui? Apparenza e menzogna finiranno per scontrarsi con il reale, ne diverranno agenti trasformanti, mentre l’adesione al canone verrà messa sotto scacco da una nuova verità, fittizia come le altre, offrendo alla donna la possibilità di tornare ad essere chi, forse, un tempo era stata, o chi, forse, non avrebbe potuto essere mai. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Luigi Pirandello, adattamento, scene e costumi, regia e interpretazione Invisibile Kollettivo: Nicola Bortolotti, Lorenzo Fontana, Alessandro Mor, Franca Penone, Elena Russo Arman, consulenza costumi Bruna Calvaresi
#PARMA
MOSTRARIO. PARTE 1
Aprire i teatri svincolandoli dalla prassi degli spettacoli serali, aggiungendo prospettive diverse a luoghi bisognosi di essere riconoscibili nelle prospettive cittadine: sarebbe sensato, oltre che utile e bello. Il mastodontico progetto di Reggio Parma Festival è in questo senso un esempio importante: viene chiamato un artista, Yuval Avital, israeliano di nascita ma milanese di adozione, ad abitare tre luoghi teatrali iconici con una trilogia multidiscilplinare in grado di stravolgere gli spazi delle tre istituzioni decentrando lo sguardo dello spettatore. Il primo capitolo del Mostrario, che abbiamo avuto modo di attraversare, si è tenuto proprio al Teatro Regio di Parma e in questi giorni (10 e 11 dicembre) la terza e ultima parte al Teatro Valli di Reggio Emilia, arrivata dopo il secondo appuntamento del Teatro Due. Insomma un grande progetto emiliano che al Regio di Parma ha visto lo storico teatro d’opera aprirsi ai cittadini, anche nei luoghi solitamente interdetti. La prospettiva palco platea è ribaltata ad esempio: nella fantasia del Ratto delle Sabine la performance avviene sul palco, il pubblico lo attraversa e la platea è chiusa da un velatino che nasconde l’orchestra, nei saloni al piano di sopra una coloratissima e un po’ kitsch discoteca in cuffia, la proiezione di un film, le piccole e preziose sculture in vetro realizzate da Lucio Bubacco (accompagnate dai fiati dell’Orchestra Rapsody) sono solo alcuni degli interventi che compongono sogni e incubi di un artista che sembra poter dispiegare il proprio segno nella musica, come nelle arti visive, plastiche e performative. (Andrea Pocosgnich)