| Cordelia | novembre 2022 

RECENSIONI  BREVI MA INTENSE. Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

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#ROMA

IL MESSAGGERO DELLE STELLE

Se il senno di Orlando è volato sulla luna, perché non immaginarla residenza per le menti più eccelse del pianeta? Un aldilà dove non esiste coerenza temporale, di modo che il dibattito sulle grandi scoperte scientifiche prosegua instancabile, non avulso da vizi e virtù terrene. Questa la semplice e affascinante intuizione di Francesco Niccolini, autore de Il messaggero delle stelle, portato in scena dalla Compagnia del Sole per la regia di Marinella Anaclerio. Storia, letteratura, astronomia e filosofia trovano la sintesi poetica e ironica, mai didascalica, in questa pièce in rima: Flavio Albanese è un Astolfo un po’ cavaliere un po’ astronauta, brillante e trasognato, pronto a prestare voce e corpo a Copernico, Keplero, Newton, Bruno e soprattutto Galileo. È quest’ultimo il Virgilio di questa esplorazione lunare che percorriamo attraverso gli occhi colmi di stupore di Astolfo d’Inghilterra. Albanese con fluida agilità presta la sua voce a caratterizzazioni e guizzi linguistici, immediati per i più giovani, profondi e sferzanti per il pubblico più adulto. Per troppo senno gli errori più grossolani furono compiuti. Ma l’errore è il segreto! Ognuno con i suoi peccati, percorriamo la nostra esistenza per qualche breve scintilla di tempo. Tanto vale liberarsi del troppo senno che teme l’errore, origine di ogni meraviglia, di ogni stupore. Ecco che il teatro e la scienza si danno la mano e danzano insieme. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro India. Flautissimo Festival. Crediti: di Francesco Niccolini, con Flavio Albanese, regia Marinella Anaclerio, consulenza scientifica Prof. Marco Giliberti, co-produzione Compagnia del Sole, Accademia Perduta/Romagna teatri, Fondazione TRG Onlus, con il patrocinio di INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica

A CHE SERVONO QUESTI QUATTRINI

I soldi non fanno la felicità. Da quando esiste il denaro come regolatore degli affari sociali c'è qualcuno che ne canta le doti contrarie: il denaro svilisce, rende disumani e porta con sé un peccato originale, il lavoro. Parascandolo lo sa, lo ha sperimentato e ora lo professa come una sorta di religione cialtrona. Tutto farà pur di dimostrare le sue tesi - anche del bene, a chi forse non lo merita. Metterà in piedi un teatro fatto di menzogne dolci come illusioni, per dire quanto insensata sia questa convenzione chiamata denaro. Al teatro Sala Umberto è andato in scena un classico della commedia napoletana, A che servono questi quattrini, che debuttò ottantadue anni fa in un altro teatro romano a qualche isolato da questo, il Quirino. Antonio Parascandolo era Eduardo De Filippo, il testo è di Armando Curcio, figura celeberrima della cultura e dell’editoria italiana. Nella versione di Andrea Renzi la scena è semplice e minimale: una parete di fondo grigia cambia con il cangiare delle luci e basta un drappo dall’alto per trasformarla nell'interno di una ricca casa borghese. Va detto che nella ripresa dello spettacolo per questa stagione il ruolo dell’abile Marchese Parascandolo, detto il Professore, è interpretato da Nello Mascia in sostituzione di Giovanni Esposito; nella prima a cui abbiamo assistito l’attore dimostrava di avere bisogno di qualche replica di rodaggio per entrare del tutto in un meccanismo corale molto preciso (supportato dalle prove notevoli di Valerio Santoro e del trasformista Gennaro Di Biase), ma già erano visibili il piglio aristocratico e il distacco sagace conferito dal portamento. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Sala Umberto. Crediti di Armando Curcio scene Luigi Ferrigno costumi Ortensia De Francesco luci Antonio Molinaro coproduzione La Pirandelliana Durata 2 ore (compreso intervallo) regia di Andrea Renzi. Con nello Mascia, Valerio Santoro, Salvatore Caruso, Loredana Giordano, Fabrizio La Marca e Ivano Schiavi

ERA MEGLIO CASSIUS CLAY

Ci sono spettacoli che fanno del disorientamento, della dissimulazione, della deviazione dall’idea iniziale entro la quale si è condotta l’immaginazione e lo sguardo di chi vi ha assistito, la propria cifra costitutiva. Era meglio Cassius Clay è uno di questi. Nato dalla scrittura (drammatica e registica) di Rita Frongia, lo spettacolo è andato in scena al Centrale Preneste nell’ambito della rassegna Puro Teatro, curata da Angela Antonini, in scena assieme a Gianluca Balducci e Stefano Vercelli. I personaggi sono tutti stati qualcosa che non sono più; c’è un ex pugile, Jimmy, che ora è figura muta, sbigottita e però fervido piano d’ascolto; Tex, ex promessa del pugilato ora sembra trovarsi soltanto come carezzevole mano e parlata biascicata. Fa il suo ingresso Clara, ex attrice e ora animatrice per bambini; se i primi due sembrano trovare una quadra in una passione in comune ora traslata in un rapporto di mutua interdipendenza (l’uno non esisterebbe senza l’altro), è proprio la figura femminile il primo elemento dissonante. Toni, azioni, proposte, costumi mostrano subito un atteggiamento fuori luogo; non sono bambini quelli davanti a sé, non sono le parole quelle adatte all’inaspettato uditorio. Eppure, qualcosa sembra tornare: “the show must go on”, parrebbe dire la società. Tocca resistere e adattarsi, anche di fronte a qualcosa di inaspettato, o così parrebbe; e allora se si hanno giochi per le mani, che si giochi. Fintanto che il caso non ci mette davanti a quella risata – amara, irreparabile, che qui ha il colore di una polvere blu – dalla quale non ci si può più tirare indietro. E allora, forse, smettiamo di ridere. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Centrale Preneste Rassegna Puro Teatro, Roma | Crediti: drammaturgia e regia Rita Frongia, con Stefano Vercelli, Gianluca Balducci, Angela Antonini, luci Fausto Bonvini, produzione Artisti Drama APS

PAS DE DEUX

Pas de deux: di una delle più note indicazioni di forma coreografica per due danzatori, in questa versione creata da Jari Boldrini e Giulio Petrucci, sembra rimanere appena una traccia. Lo spettacolo, presentato nell’ambito della rassegna Dancing Days di Romaeuropa Festival 2022 e vincitore del bando DNAppunti Coreografici 2021, intraprende una ricerca sottile e raffinata. Il rapporto a due non è a priori ma si costruisce man mano, e l’impressione è che tutto si concentri a partire da ciò-che-c’è-prima: si parte in assolo, morbidamente, il corpo privo di tensioni apparenti, in un agire privato (anche l’abbigliamento, poco caratterizzato e però proprio per questo indicatore di uno stato preciso), ripercorre passi, li accenna, quasi sembra analizzarli da fuori. Soltanto in alcuni momenti i due si incontrano, sovrapponendo in uno spazio comune le proprie linee d’azione, come a voler innestare un rapporto agli esordi ma senza che – volontariamente – ancora sia data una reale risultanza delle due presenze. Di fronte a questa riconfigurazione viene da chiedersi chi o cosa sia la controparte di questo pas, l’altro, il tappeto sonoro, il taglio di luce essenziale, lo spazio vuoto entro il quale creare una relazione? La coreografia cresce con calma, i due interpreti si prendono lo spazio per poter osservare, per potersi ripensare, guardando a quanto è stato fatto, ripercorrendo con ritmi diversi stesse azioni, non perdendo mai la concentrazione di un gesto in sottrazione che però esiste ancora. Il risultato è un lavoro che nonostante le perplessità di alcuni spettatori è riuscito morbidamente e persistentemente a catturare l’attenzione di molti. (Viviana Raciti)
Visto al Mattatoio |Romaeuropa Festival. Crediti: ideazione C.G.J. Collettivo Giulio e Jari, con Giulio Petrucci e Jari Boldrini, musica Simone Grande, luci Gerardo Bagnoli, installazione Elisa Capucci, produzione Anghiari Dance Hub, Nexus Factory
Nexus Factory

THE LETTER OF LAST RESORT

La lettera dell'ultima risoluzione, The Letter of Last Resort nel titolo originale del testo di David Greig portato in scena al Teatro Fortezza Est con la regia di Massimiliano Farau e il lavoro attoriale di precisione, ironia e tecnica sopraffina di Laura Mazzi e Marco Quaglia. Ci sono solo loro due in scena, lei è la Prime Minister inglese, lui un responsabile dell'organizzazione governativa. In mezzo una scrivania in legno, unico oggetto di scena, insieme a una sedia a dimostrare l'ambientazione istituzionale, forse il famoso numero 10 di Downing Street. Mentre la donna sta chiudendo la propria giornata scrivendo una lettera alla famiglia di un soldato morto John chiede udienza per una lettera ancora più importante. Quella dell'ultima risoluzione che il capo del governo britannico deve scrivere in funzione di un'evenienza remota: un attacco nucleare indirizzato al cuore del Regno. La lettera verrà aperta dal comandante di un sottomarino segreto solo nel caso in cui l'apocalisse nucleare avrà spazzato via l'intera catena di comando. Rispondere all'attacco oppure no? Entrambe le decisioni sono fallimentari? E se la lettera fosse solo un deterrente - enigmatico - proprio nei confronti di eventuali attacchi? La drammaturgia di Greig e l'allestimento di Farau hanno il merito tutto teatrale di rappresentarsi totalmente nel dialogo, senza soluzioni di continuità; non c'è montaggio, cambi scena o sospensioni a salvare i due attori che debbono, nei cinquanta minuti di spettacolo, tenersi (e tenerci) agganciati al filo logico e acutissimo del discorso. Fino a quando questo svelerà il paradosso come legge fondamentale su cui si regge l'intero equilibrio atomico mondiale. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Fortezza Est, nell'ambito di Periferico Ki, progetto di 369 gradi. Crediti: di David Greig Traduzione di Massimiliano Farau e Laura Mazzi Con Laura Mazzi e Marco Quaglia Scena di Fabiana Di Marco Costumi di Ilaria Albanese Luci di Camilla Piccioni Regia di Massimiliano Farau

HEDVIG

La “danza” del testo L’anitra selvatica di Henrik Ibsen nel suo secondo movimento dal titolo Hedvig, andato in scena al Teatro India, segue il primo I Sommersi, entrambi curati e interpretati da Federica Santoro, con Luca Tilli al violoncello e la collaborazione preziosa del pittore Ettore Frani per i quadri di scena. Un ricorrere ossessivo col quale si dice il testo, una corsa a tratti, poi un incedere lento, cadenzato, lo spogliare ogni parola del suo valore narrativo. La scena è lunga, larga, mezza vuota; lei, Santoro, è risonanza della sua parola, in ciabatte, calzini blu, maglia gialla e giacca a fiori. Pausa, beve al bicchiere sul tavolo, si siede, sfoglia un taccuino, buio, uno sparo. «Anti narrazione» è la definizione che dà del dramma Santoro aggiungendo come questa drammaturgia dell’adattamento si concentri sulla forma che prevale sul contenuto, inserendo nel flusso ibseniano anche delle «microscene», altri rimandi, legati ad esempio alla filosofia, che esulano dalla centralità del testo originale. Hedvig - è il giorno del suo compleanno e della sua morte - si stratifica in una polifonia di parole, musica, personaggi e anche di tempo, di durate. Non solo dei 15 anni del plot ma anche quello personale dell’artista: questo spettacolo è stato difeso fino alla sua andata in scena, prima fermato dalla pandemia e poi annullato al debutto, causa covid. Nel finale, è difficile interrompere il flusso, infilare il cappotto e uscire.(Lucia Medri)
Visto a Teatro India: Hedvig da L’anitra selvatica di Henrik Ibsen di e con Federica Santoro e Luca Tilli; adattamento drammaturgico Federica Santoro; musiche Luca Tilli, disegno luci Dario Salvagnini, i quadri in scena sono del pittore Ettore Frani; produzione Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee, Foto Ettore Frani

ESTERINA CENTOVESTITI

La scuola è il periodo della vita che prende dimensioni epiche quando poi, nel tempo, si torna a far visita a quelle sensazioni spesso premature, rimaste come acquarelli prima diluiti e poi seccati dalla polvere degli anni adulti. Lucia ha 10 anni, gli stessi di compagne e compagni della scuola elementare: con tutti gioca, con tutti si rincorre, con tutti inizia a mediare i meccanismi di relazione appena fuori il nucleo di famiglia. Il sapere, ciò che si impara dai libri, resta sullo sfondo di una foto di classe in cui emerge il volto dei protagonisti: tra di essi, Esterina, che di anni forse ne ha di più, che non parla o veste come tutti, che ha qualcosa di strano e manifesta un disagio estremo, fuori dai canoni che rende tutti più o meno uguali. Eccolo, l’elemento che getta il seme di una maturazione là da venire, ma che inizia pian piano a germinare nella protagonista. È solo un po’ più grande mentre racconta, Lucia, ma già in quei pochi anni di distanza ha compiuto un percorso di comprensione per quanto abbia rappresentato in lei la conoscenza di Esterina, ragazzina povera che urlava di avere cento vestiti, chissà se in camera o nell’immaginazione. In Esterina Centovestiti i temi del bullismo serpeggiante, sibillino, emergono dalla bellezza del racconto leggero che passa per l’interpretazione gioiosa ma profonda di Daria Paoletta; ancora una volta la Compagnia Burambò, qui con la regia di Enrico Messina, si segnala per la delicatezza con cui tratta il teatro per le nuove generazioni, ancora una volta grazie al teatro i più grandi osservano e d’improvviso ricordano quel tempo, quei volti, la scuola e le emozioni di quando erano bambini. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Torlonia. Di e con Daria Paoletta; regia Enrico Messina; Compagnia Burambò

IL DISPERATO

Una tavola imbandita, quattro sedie, tre generazioni. Attorno a questi elementi che bastano da soli a evocare una famiglia viene disposto il pubblico de Il disperato, lavoro del collettivo olandese Wunderbaum fondato da Marleen Scholten e presentato in prima restituzione pubblica al Romaeuropa Festival. Con lentezza abitudinaria e normalità disperata si consuma il rito del pasto, tradizionalmente sede delle piccole complicità e dei piccoli fastidi della routine familiare. Forte è il senso di oppressione in un unico spazio condiviso, che non concede intimità o ritiro, nella quale riecheggia la condizione del confinamento pandemico ma che facilmente coincide con la realtà di molte famiglie. La disposizione dello spazio scenico ricostruisce tanto un ambiente casalingo quanto un ring, o una gabbia, dalla quale gli attori si sporgono, in sospesi momenti precisi, come a chiedere aiuto in silenzio, o a denunciare l’invadenza di quegli sguardi esterni. Sebbene tutti i personaggi vivano a loro modo una qualche personale disperazione, il disperato del titolo è l’unica figura maschile presente, vittima di sé stesso, di un mondo in cui il modello patriarcale assimilato da generazioni si scontra con contesto, fragilità, insicurezze sociali e umane. Impreparato ad essere mantenuto, fragile, insicuro, ricorre alla violenza. Da vittima di se stesso, si fa carnefice di un’intera famiglia. A raccontarlo è figlia, riportando dati e statistiche in un finale un po’ didascalico, a dispetto dei momenti onirici e poetici proposti durante la messa in scena. (Sabrina Fasanella)
Visto al Mattatoio, Romaeuropa Festival. Di Marleen Scholten|Wunderbaum, Con Marleen Scholten, Alessandro Riceci, Ludovica Callerio, Elisabetta Bruni, Regista assistente Dafne Niglio, Scenografia e luci Maarten van Otterdijk, Produzione Wunderbaum, Associazione TRAK, Consulenze Paolo Giulini-criminologo clinico, Roberto Bezzi-Responsabile Area Educativa Seconda Casa di Reclusione Milano

SYBIL – UNA DONNA DIVISA TRA MOLTEPLICI ESISTENZE

Lo spettacolo ripercorre i dieci anni di sedute della psichiatra americana Cornelia Wilbur (Federica Bognetti) con la paziente Sybil Dorset (Silvia Giulia Mendola), il cui caso ha portato alla prima individuazione del disturbo della personalità multipla. La vicenda raccontata rappresenta di per sé una sfida attoriale importante, sorretta da Mendola con efficacia e tatto. Nell’avvicendarsi dei molteplici personaggi che abitano la paziente, corrispondenti a diversissime tipologie umane, il focus palleggia tra il dramma della paziente e la sfida della psichiatra, decisa non solo ad aiutare e guarire Sybil, ma a scoprire l’entità di un male mai prima riconosciuto. Bognetti interpreta il ruolo con la circospezione richiesta: assiste con solerzia ma alla giusta distanza allo svelamento delle esistenze parallele che Sybil ha sviluppato, persone che parlano e agiscono a sua insaputa, ne conoscono i segreti, rivelano il suo passato rimosso. La via drammaturgica scelta è quella della cronaca: lo spettacolo procede per balzi temporali, corrispondenti ai momenti salienti del percorso psichiatrico, sorretto da videoproiezioni che interagiscono con l’impianto scenografico. Una parete velata separa la platea dal palcoscenico, sul quale pochi elementi lasciano indovinare il salotto-studio della dottoressa Wilbur. Lo sdoppiamento dello spazio scenico aggiunge un filtro che sottrae concretezza ed emozione alla realtà della vicenda, di per sé non bisognosa di apparati simbolici. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Argot Studio, Roma. Con Federica Bognetti e Silvia Giulia Mendola, dramaturg Livia Castiglioni, regia Silvia Giulia Mendola, assistente alla regia Francesca Ziggiotti, videomaker Cristina Crippa, consulenza costumi Simona Dondoni, foto locandina Noemi Commendatore, grafica Carlo Sabatucci, produzione PianoinBilico e Geco.B Event

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#MILANO

MENEGHINISSIMA

Meneghinissima, preziosa mostra allestita alla Casa della Memoria di Milano, vuole restituire l’importanza storica del personaggio di Meneghino non soltanto nel teatro dei burattini, bensì nel teatro tout court così come nella stessa società. Meneghino nasce nel 1695 per mano di Carlo Maria Maggi, ma solo nell’800 diviene protagonista dei palcoscenici lombardi nelle interpretazioni dei maggiori attori, come testimonia la commedia Gli italiani a Massaua con Meneghino prode caporale dei bersaglieri (1890 ca); se il prode è l’autore Ferravilla, nel cast, tra gli altri, si leggono Salvini e Duse. Un viaggio nella storia d’Italia e del suo nord, dall’incontro fraterno con il piemontese Gianduja, al Meneghino fascista che bombarda le terre africane, a quello che diventa il titolo di giornali di satira e non solo. E proprio per la sua popolarità di personaggio drammatico, Meneghino ben volentieri venne adottato dai burattinai lombardi: ce ne mostrano l’evoluzione gli splendidi burattini dei maestri burattinai, da Benedetto Ravasio a Riccardo Pazzaglia, da Giacomo “Fiaca” Onofrio a Romano Danielli, fino, ovviamente, all’ideatore della mostra, collezionista e studioso, affermato burattinaio Valerio Saccà (Compagnia Burattini Aldrighi). La mostra, tuttavia, vuole non soltanto commemorare il passato ma anche proporre un Meneghino dei giorni nostri perfettamente immortalato nelle fotografie di Alvise Crovato, che ha seguito burattinaio e burattino nelle diverse atmosfere milanesi, così come nel lontano Oriente degli Emirati Arabi, e che ci restituisce l’umanità e la potenza di Meneghino e del burattino come strumenti contemporanei in un vivido racconto per immagini. (Angela Forti)
Visto ala Casa della Memoria di Milano. Crediti: La mostra è visitabile fino al 4 dicembre 2022. Un progetto di Valerio Saccà – Burattini Aldrighi e Alvise Crovato; mostra a cura di Gigliola Foschi; fotografie di Alvise Crovato.

PER STRADA

Per strada è un lavoro intenso, curioso, agitato. Del testo tragicomico di Francesco Brandi, Raphael Tobia Vogel cura la regia, portando avanti un vitale sodalizio che si intreccia alla collaborazione con la costruzione scenica di Andrea Taddei e quella video di Cristina Crippa. La storia, portata in una piccola sala del Franco Parenti, si sviluppa su più livelli scenografici, scavando con ambiguo illusionismo cinematografico la profondità del palcoscenico, e racconta di una generazione disorientata, che fatica a riconoscersi, a ritagliarsi uno spazio proprio, a negoziare un personale riscatto. Per strada è quindi il luogo in cui il disoccupato Jack e il paranoico Paul si perdono, travolti da catastrofi personali e famigliari, ma anche il tragitto che percorrono insieme per trovare il modo di ricominciare a vivere. Il loro rapporto funge da alterego alla complessa fragilità relazionale di quest’epoca e si plasma nei tentativi grotteschi ed urlati di arginare il dolore dell’altro, nella sincera speranza di porvi rimedio; è qui che le articolazioni di Paul cominciano a tremare inconsolabili, mentre la sarcastica ironia di Jack attutisce la tragicità di un gesto programmato, quello di togliersi la vita. All’inizio cadono leggeri i candidi fiocchi di neve, ricoprono come una coltre velata il silenzio del disagio, del rifiuto, del tradimento, delle aspettative; poi il fondo diventa un interno domestico, il lusso di una villa e l’interno di una macchina che fugge via, oramai troppo lontana per afferrare ciò che resta dall’idea di futuro. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: di Francesco Brandi, regia Raphael Tobia Vogel, con Francesco Brandi e Francesco Sferrazza Papa, scene e costumi Andrea Taddei, video di scena Cristina Crippa, produzione Teatro Franco Parenti. Foto di Tommaso Le Pera

LE NOSTRE ANIME DI NOTTE

Due personaggi entrano e si posizionano ai lati opposti del palco. Due luci oblique e distinte ne creano delle inquadrature, la distanza che inabissa nel buio di mezzo è luogo metaforico: Lella Costa è Addie, una signora vivace che porta le rughe dell’età nelle tonalità calde e graffiate della voce. Una sera raccoglie il coraggio per superare la solitudine che porta con sé la notte e chiede al suo vicino Louis, interpretato da un sincero Elia Schilton, vedovo come lei oramai da tempo, di farle compagnia. L’iniziativa della donna coglie sorpreso ed elettrizzato l’anziano goffo signore, che quasi non sa più come si fa a non stare da soli. Nell’adattamento teatrale di Emanuele Aldrovandi, firmato nella regia di Serena Sinigaglia, le febbrili attese e la naturalezza dei gesti riprendono fedelmente l’immediatezza della prosa del romanzo di Kent Haruf, che scava nel consunto amore per i ricordi attraverso le difficili storie che ognuno si porta dietro. Anche l’atmosfera domestica, con mobiletti vintage, carta da parati e fotografie che hanno lasciato l’impronta sul muro del tempo trascorso, apre ad una dimensione intima e confessionale in cui la coppia cuce una relazione basata sul rispetto e l’ammirazione, per poi spogliarsi del peso delle convenzioni e reinventare un nuovo modo di vivere l’anzianità. La scenografia si riduce e deteriora progressivamente seguendo l’incrinarsi dei rapporti; ma è proprio lì, dove gli obblighi familiari cercano di dividere e imporsi, che Addie e Louis riescono a ritrovarsi. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Carcano di Milano. Credits: regia di Serena Sinigaglia, con Lella Costa ed Elia Schilton, adattamento teatrale Emanuele Aldrovandi, tratto dall’omonimo romanzo di Kent Haruf, pubblicato in Italia da NN Editore, Produzione Teatro Carcano. Foto di Marina Alessi

ESEQUIE SOLENNI

Il teatro come chiave di lettura del mondo è un’esigenza che si avverte con prepotenza nel critico scenario attuale. Ma quando diventa necessario rivisitarne i codici, le forme, i linguaggi? Sono queste le riflessioni che puntellano l’attenzione dello spettatore che si è recato ai Navigli per assistere alla rappresentazione dell’elaborato testo di Antonio Tarantino, nella regia di Renzo Martinelli. Sul palco, un soggiorno disordinato, un lampadario a terra, sedie in precario equilibrio, specchi sdoppianti e due donne, Elena Arvigo ed Emanuela Villagrossi, che erano due mogli di importanti uomini politici e ora due vedove sole, vestite a lutto. Nello smarrimento di una perdita condivisa trovano conforto e si preparano alla liturgia delle esequie solenni, onoranze funebri riservate a coloro che la storia l’hanno scritta, anche a costo della vita. Al motivo personale di sofferenza, di crisi emotiva, se ne affianca uno più prettamente identitario, il principio di una riflessione che mette in discussione il ruolo stesso che assume la donna, aprendole la possibilità di emanciparsi, ma solo in seguito alla funesta rottura del legame col marito. È così che la ricerca di verità, messa in relazione ai tempi moderni, sembra disperdersi, mentre l’interpretazione si patina di un’aura di lontananza che rende impossibile un’autentica immedesimazione introspettiva. Infatti, nonostante la vicinanza strutturale tra platea e proscenio, la retorica dei due personaggi fluisce dalle parole scritte da Tarantino ma si chiude progressivamente in un mancato dialogo col pubblico. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro i di Milano. Credits: di Antonio Tarantino, regia di Renzo Martinelli, assistente alla regia Diego Zanoni, con Elena Arvigo ed Emanuela Villagrossi, suoni di Gianluca Agostini, luci di Andrea Ceriani e Beppe Sordi, costumi di Lapilou, produzione di Teatro i. Foto Luca del Pia

ROMANCES INCIERTOS, UN AUTRE ORLANDO

La penombra è una zona di sospensione onirica e di confine in Romances inciertos, un autre Orlando, una membrana porosa che consente il flusso trasformativo di una pelle ibrida che è corpo androgino, quello del danzatore e coreografo François Chaignaud. Il lavoro, co-diretto da Nino Laisné, attinge ad un sostrato culturale e letterario, nei riferimenti sia all’Orlando di Virginia Woolf e di Ariosto, sia al folclore dei balli e della tradizione locale spagnola. Le tele dagli scorci paesaggistici sconfinati e idillici, con atmosfere memori delle scene campestri, creano uno sfondo contemplativo che dilata lo spazio visivo e sonoro: essi abbracciano il passionale momento performativo diviso in tre atti e proiettano i distillati motivi musicali di quattro strumenti (il bandoneon, la viola da gamba, il theorbo e le percussioni), che nelle note scandiscono il ritmo cromatico ricamato sugli elaborati costumi, anch’essi narratori della storia popolare. È questo lo scavo nella tradizione ispanica, il gesto della sua riattualizzazione, il potere dell’immaginario mitico di una cultura condivisa che ritorna con la prepotenza del rimosso, ammalia, inibisce, trasporta in una dimensione altra dove la melodia sprofonda nella danza delle membra e il canto si sublima in una voce che condensa i frammenti del racconto. La fascinazione di questa visione, che sperimenta il limbo tra Opera e balletto, abita così il mistero inafferrabile del mito; poi ripercorre il tempo a ritroso, attraversa lo spazio e rifugge finalmente le categorie imposte e fisse del genere. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Triennale Teatro di Milano, Crediti: ideazione, regia e direzione musicale Nino Laisné, ideazione e coreografia François Chaignaud, voce e danza François Chaignaud, bandoneon Jean-Baptiste Henry, viola da gamba François Joubert-Caillet, theorbo chitarra barocca Pablo Zapico, percussioni storiche e tradizionali Pere Olivé

#PALERMO

I BROKE THE ICE AND SAW THE ECLIPSE

Una femminilità insofferente, a tratti beffarda. Una mascolinità incerta, spesso teneramente ottusa, racchiusa in un completo grigio. Giovanna Velardi e Federico Brugnone, in I broke the ice and saw the eclipse, sono particelle sottoposte alle leggi di un’affinità nervosa e complicata, segnata da un tentativo di comunicazione a lungo frustrato. Lei è scattante, mentre lui procede quasi per inerzia, avanzando lungo direttrici più limitate prevedibili. Lui parla di cose, sciorina nozioni, paventa l’apocalisse incombente. Lei reagisce risoluta, preferendo scuoterlo piuttosto che rassicurarlo: esasperata, diviene una belva ragliante, essere metamorfico distante da ogni umana convenzione. Le parole, la vocalizzazione sono parte integrante di questa relazione, e puntellano lo svolgimento della coreografia come piccoli nodi drammatici. Il dialogo di corpi, gesti e frasi, nella cui combinazione la performance trova sviluppo, accoglie e raccoglie la problematica precarietà dell’affettività contemporanea, offrendone una visione tanto impietosa quanto ironica. Privati dei loro abiti, del filtro degli occhiali che prima indossavano, i due personaggi trovano infine il coraggio di urlarsi contro quanto non avevano potuto dirsi prima. Un piccolo globo di ghiaccio, sospeso da Velardi e Brugnone a diretto contatto con la pelle nuda, è il simbolo di un cambiamento di stato avvenuto e ancora in atto. Il globo cade, finalmente si rompe il ghiaccio; le luci si spengono gradualmente, lasciando aperta la possibilità dell’incontro. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Franco. Crediti: concept e coreografia Giovanna Velardi, con Federico Brugnone e Giovanna Velardi, costumi Dora Argento, consulenza registica Luciano Colavero. Foto di Piero Tauro.

MACBETH/BANQUET

Il Macbeth/Banquet, per la regia di Paola Manfredi porta il pubblico fin dentro la cucina in cui si prepara un banchetto: quello durante il quale il fantasma di Banquo apparve a Macbeth, dopo esserne stato ucciso. Sulla scena del Libero, il tavolo coperto da utensili e pentolame è senz’altro invitante; tra questi Luca Radaelli si muove con sicuro mestiere, alternando cotture, ricordi, premonizioni, soffritti, visioni. Tra i fornelli e il racconto del cuoco si svolge un Macbeth decisamente imprevisto, avvolto dai fumi e profumi della pietanza – un trancio di carne cotto in abbondante, sanguinolento vino – cucinata sul posto. L’insistenza sul carattere più “gastronomico” della vicenda finisce per enfatizzarne gli aspetti comici: la danza dell’attore con la patata infilzata da una forchetta (una magistrale Lady Macbeth), il suo lavarsi spasmodicamente le mani dopo aver ucciso una cipolla (nei panni di Banquo), sono certo divertenti ma per poco non scadono nel grottesco. Tutto è nell’atmosfera, nell’ambientazione, nella scena domestica, familiare e suggestiva, dello stesso Radaelli. Qui si effondono le luci di Maurizio Anderlini, calde come quelle di un focolare, e gli assoli di Maurizio Aliffi alla chitarra, che alternano sonorità medievaleggianti e manouche. Un intrattenimento gustoso insomma, condito dal solo gusto di raccontare storie. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero. Crediti: da William Shakespeare, con Luca Radaelli e Maurizio Aliffi, idea scenica e traduzione Luca Radaelli, regia Paola Manfredi, luci e tecnica Graziano Venturuzzo, musiche Maurizio Aliffi, Teatro Invito – Lecco. Foto di scena Maurizio Anderlini

PALERMO CORSARA

Il porticciolo della Bandita è un piccolo tratto di mare e detriti dimenticato dalle amministrazioni, ma non da chi abita l’area circostante. Qui il Teatro Atlante ha raccolto per un mese le testimonianze di chi ancora vive questo spazio, all’interno di laboratori il cui esito è stato accolto da Palermo Corsara, performance in cuffia pensata proprio per la Bandita. Il titolo ha un duplice riferimento: da un lato richiama il quartiere Acqua dei Corsari, dall’altro il Pasolini intellettuale delle periferie. Durante il suo svolgimento, il pubblico è libero di vagare tra le barche rivoltate della spiaggia, mentre nelle orecchie risuonano le parole di uomini e donne comuni, interpretate dal vivo da Preziosa Salatino. Sono storie di abbandono e riscatto, alternate ai canti della tonnara e alle musiche evocative di Mauro Palmas. La spiaggia viene solcata da una meditazione condivisa, accompagnata fino al tramonto dal susseguirsi di denunce, ricordi e immagini. Palermo Corsara vuole essere registrazione della memoria, archivio sonoro e visivo di voci e cose rimaste ai margini della gentrificazione, resistenza politica agita dalla comunità al suo interno. Ormai al tramonto, le movenze della danzatrice sufi Soad Ibrahim, sulle musiche di Mauro Tiberi, concludono il percorso uditivo, ma è solo alla sera che il gruppo si dirada, quando mare e cielo sono diventati indistinguibili. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Porticciolo della Bandita Crediti: voce narrante di Preziosa Salatino, foto e video di Francesco Faraci, danza di Soad Ibrahim, ideazione e direzione artistica di Emilio Ajovalasit. con la collaborazione di: Marco Abbate, Elisabetta Carullo, Anna Di Giandomenico, Silvia Fontana, Adriana La Porta, Domenico Lo Cricchio e tutti gli abitanti della Bandita.

PULICI

In occasione della settima edizione del Festival Teatro Bastardo, diretto quest’anno da Giulia D'Oro e Flora Pitrolo, si è tenuto Pulici, di e con Sara Firrarello. Nel piccolo teatro del Museo delle Marionette, le luci della sala si spengono senza gradualità. Dall’oscurità improvvisa emerge l’interprete, giovane donna in nero: viso e mani affiorano pallidi dalla veste, ampia come un saio. La donna ciondola sui suoi passi come un’equilibrista sul filo; poi ruota su se stessa, come danzasse da sola un valzer solitario e malinconico. Si arresta, per guardarsi intorno circospetta: tuttavia, al termine di questi iniziali, misteriosi momenti, la sua voce è inaspettatamente giocosa. Un cunto, il tipico racconto popolare ritmato, prende vita. La narrazione di Firrarello è volutamente frammentata, procede per spigoli spezzati tra gesto, automatismi e silenzio. Sembra avere ancora qualcosa di acerbo, e il dramma procede per soluzioni che singolarmente sono interessanti, ma nel complesso sembrano più giustapposte che parte di un discorso organico. Nonostante ciò, questo cunto è senz’altro suggestivo: è una filastrocca triste, un gioco di bimbi che conoscono la morte e si rincorrono sul margine di un burrone, senza mai cadere. L’interprete non si lascia andare alla voragine, e pure avrebbe gli strumenti per farlo: attendiamo che ciò accada. Delicato ed espressivo, il suo racconto traccia comunque i primi passi di un nuova possibile tradizione, al femminile. Su questa strada Firrarello può ancora intestarsi una piccola rivoluzione. (Tiziana Bonsignore)
Visto a Teatro Bastardo Museo internazionale delle marionette. Crediti: Antonio Pasqualino, Palermo. Crediti: di e con Sara Firrarello, disegno luci Elena Rosa, suono Riccardo Napoli, tecnica luce Alessandro Schillaci, produzione Campo Barbarico Roma, con il sostegno di Spazio Oscena Catania

UNA VERDE VENA DI FOLLIA

La nuova stagione della sala Strehler al Biondo di Palermo è stata inaugurata da Una verde vena di follia di Alessio Arena, per la regia di Emanuela Giordano. Il testo, tratto da La vena verde dello stesso Arena, è liberamente ispirato alle lettere che Maria Antonietta Portulano, moglie di Luigi Pirandello, scrisse al figlio Stefano durante la propria permanenza in un ospedale psichiatrico: così la scena, la cella del manicomio, è definita soltanto da una branda e altri pochi elementi di arredo, poveri, isolati dalle eleganti luci di Giordano. Tra di essi si muovono la protagonista, interpretata da Mascia Musy, e una silenziosa infermiera (Chiara Muscato). Il rapporto tra le due è intimo, simbiotico: alle esplosioni verbali e fisiche della reclusa, interpretate certamente con energico vigore, fa sempre da contraltare lo sguardo dell’altra, denso, espressivo, severo. Col tempo, il rapporto di reciproca costrizione si scioglie in una fiducia sempre più disponibile a farsi, se non amicizia, solidarietà. La figura di Portulano, relegata dalla storia a una quasi inevitabile marginalità, assume qui riscatto e rilievo letterario: e proprio il “letterario” è il dato essenziale di questa regia, che forse guarda al testo e ai suoi modi con eccesso di aderenza. Sono soprattutto le interpretazioni di Musy e Muscato a sostenerla. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo. Crediti: tratto dal libro La vena verde (IQdB Edizioni) di Alessio Arena, liberamente ispirato alle lettere di Maria Antonietta Portulano Pirandello, adattamento teatrale e regia di Emanuela Giordano, con Mascia Musy, e Chiara Muscato, musiche originali Tommaso Di Giulio e Leonardo Ceccarelli, scene, costumi, luci Emanuela Giordano, aiuto regia Valentina Enea, direttore di scena Sergio Beghi, produzione Teatro Biondo Palermo. Foto di Rosellina Garbo.

KA-F-KA

Dopo un progetto su Calvino, il teatro Libero di Palermo continua a confrontarsi con le possibili relazioni tra danza e letteratura in un’ottica multidisciplinare. Alla fine di ottobre si è tenuto KA-F-KA, di e con Mehdi Farapour, coproduzione iraniana-francese della Oriantheatre Dance Company. Il pubblico accede in sala mentre il danzatore corre in senso antiorario lungo il quadrante di un orologio proiettato sul pavimento, bianco, della scena. La corsa diviene spasmodica, il ticchettio opprimente, fino al collasso: il tempo implode risucchiando il corpo chiuso di Farahdi. A partire da questo momento, è un susseguirsi di immagini simboliche nelle quali si sintetizza la poetica kafkiana: labirinti fitti, attraversati con ostinazione; la duplicazione del corpo e della figura del protagonista, frammentato in un suo doppio gigantesco e assurdo. Meccanicismi, iterazioni di gestualità minime e insensate, sottoposte a piccole ma significative variazioni progressive rendono la ricerca di Farapour grafica e raffinata, capace di introdursi nel testo letterario significandolo per mezzo di immagini di gusto modernista. Un’icona novecentesca è la figura del danzatore seduto alla scrivania, circondato dalla bolgia di sveglie attivate sulla scena che parcellizzano il tempo ingabbiando l’uomo nella vita d’ufficio. Al termine di una serie di costrizioni, ciò che resta dell’individuo è poca cosa: dopo essersi dimenato a lungo sulla schiena, circondato da tante piccole riproduzioni della propria fatica, il danzatore lascia sulla scena, immobile, l’immagine di un insetto. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero di Palermo Crediti: ideazione, direzione e interpretazione Mehdi Farajpour; motion graphics Stéphane Bordonaro, Mehdi Farajpour & Monumentiel; basato su un’idea originale di Mehdi Farajpour; suono Arnaud Rollat; video art Mehdi Farajpour

#NAPOLI

LA ZATTERA GERICAULT

Nel 1819 Théodore Géricault sottopose alla giuria del Louvre la sua imponente tela attirando su di sé aspre critiche; la sua Zattera della Medusa ritraeva un evento di cronaca avvenuto solo tre anni prima, il naufragio di una fregata francese causato dalla negligenza del comandante e la conseguente perdita di vite umane. Le questioni, oltre l’aspra critica sociale, erano calde: avrebbe potuto la bellezza stimolare l’opinione pubblica? La verità, anche quella più terribile, poteva essere perfezionata da splendide forme? Estremamente pregevole è la composizione scenica orchestrata dalla regia di Piero Maccarinelli; il piano dell’immedesimazione è notevole con quelle ambientazioni che rimandano direttamente alla più nota pittura realista (lo studio di Géricault pare la riproposizione de L’atelier del pittore di Courbet). Le accese discussioni tra il sopravvissuto Corréard (in scena un brillante Claudio Di Palma) e lo stesso Géricault (Lorenzo Glejeses, fagocitato dall’estro dell’artista, si perde in sperticate acrobazie e in esasperate esternazioni) su quale fosse il ruolo dell’artista nel mezzo di un dibattito politico sono entusiasmanti. Però la scelta di muovere una narrazione a ritroso nel tempo, alla ricerca dell’origine dell’impegno artistico del pittore, rovina malamente in un tedioso melodramma che vede il protagonista innamorato e ricambiato dalla giovane zia (una Anna Ammirati intiepidita dal ruolo strettamente funzionale), e così la ragione principale, morale e politica, evapora a suon di baci. (Valentina V. Mancini)
Visto al Teatro San Ferdinando.Crediti: Di Carlo Longo; Regia Piero Maccarinelli; Con (in ordine di apparizione) Lorenzo Glejeses, Francesco Roccasecca, Claudio Di Palma, Nello Mascia, Anna Ammirati; Scene e luci Gianni Carluccio; Costumi Zaira de Vincentiis; Foto di Ivan Nocera Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale

PARTY GIRL

Conturbante, eccitante, fastidioso, vero, finto, distopico, doloroso: Party Girl è l’immagine disarmante di una sessualità sottomessa. Alice, Barbara e Roberta sono tre splendidi corpi che si prostituiscono, guidati e governati da una voce maschile fuori campo che ne determina le posture, tutte inequivocabilmente funzionali al piacere di chi osserva. I loro corpi non sono veri corpi nella misura in cui tutto contribuisce a renderle oggetti: il neon posto ai piedi del palco le rende dure, le luci stroboscopiche le fa irreali, le porzioni di nudità volgare scoprono una pelle che non ha pori. Le tintinnanti palline vaginali dorate che escono dalle loro bocche ammiccano a un sesso cattivo. Non c’è davvero nulla che possa essere definito “bello”; la coreografia si sporca con movimenti meccanici (persino quelli più fluidi lo sono) e privi di vita che non sono altro che pause tra una posa e l’altra. Tre televisori a tubo catodico trasmettono stralci di vita notturna, irrequieta, illecita, perversa e crudele; l’estetica laccata e appiccicosa fine anni ’90 e inizio Duemila porta il racconto in eccessi surreali che, nel farsi simbolici, forse rischiano di allontanare la faccenda problematica della percezione del corpo femminile dalla sua condizione di terribile e diffusa e normale quotidianità. È come ricevere un violento schiaffo senza sapere il perché, e restano lo stordimento e il dolore. A festa quasi terminata, poco prima del giorno, le ragazze riescono a riprendere possesso della sensualità allegra dei loro corpi e si allontanano stanche e ridenti. Poco realistico. E se il nostro godimento di donne non fosse quasi mai solo nostro? (Valentina V. Mancini)
Visto al Teatro Nuovo. Crediti: con Alice Raffaelli, Roberta Racis, Barbara Novati; coreografia e regia Francesco Marilungo; Luci e spazio Gianni Staropoli. Foto di Luca Del Pia.

#TORINO

I RIFIUTI LA CITTÀ E LA MORTE

Francoforte, anni ’70. La Germania è distrutta, la memoria è marcescente e la città è un organismo che divora se stesso o, forse, un Crono che divora i propri figli. C’è un ebreo che fa speculazione edilizia e un ex SS che profetizza il ritorno del nazismo: così la censura cadde su I rifiuti, la città e la morte di Rainer Werner Fassbinder, travestita da j’accuse contro un presunto antisemitismo. Si tratta di un testo scritto d’impulso, durante un viaggio in aereo, rimasto silenziato fino agli anni 2000 e oggi quasi “intoccabile” per volontà degli eredi. La regia di Giovanni Ortoleva affonda in questa materia equivoca e ustoria e ne fa brillare ritmo, coralità e dolore, grazie alla scansione per quadri, all’intersezione dei piani diegetici e alle interpretazioni attoriali di limpidezza quasi disincarnata. L’angoscia metropolitana, sotto i segni cangianti dell’allucinazione e della gangster story, scava più a fondo della condizione storica, fino ai primordi della natura umana: l’abuso è la pulsione centrale, i rapporti sono campi di forze governati dal denaro, lo sforzo di trascendersi è vano, il degrado del corpo non riesce mai a mutarsi in espiazione. E, se sembra negato persino il sollievo della denuncia (che implicherebbe la speranza), rimane quello, lucido e spirituale, di cogliere e rappresentare una verità. La tensione sacrificale (tutti si muovono su una passerella che ha la struttura di una croce) si spegne in una resa, delicata, che non offre consolazioni o moniti. Seppure, da una feritoia, balugini forse la compassione. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Astra – Colline Torinesi 2022. Crediti: di Rainer Werrner Fassbinder; traduzione Roberto Menin; regia Giovanni Ortoleva; scene e costumi Marta Solari; realizzazione costumi Daniela De Blasio; sarte Rossana Cavallo, Rocio Orihuela; movimenti di scena Leda Kreider; musica Pietro Guarracino; disegno Luci Andrea Torazza; fonica Massimo Calcagno; costruzioni Giovanni Coppola; assistente alla regia  Gabriele Anzaldi; assistente volontaria Federica Balletto; con  Marco Cacciola, Andrea Delfino, Paolo Musio, Nika Perrone, Camilla Semino Favro, Edoardo Sorgente, Werner Waas.

#ROMA

LA MOGLIE PERFETTA

In origine c’è un decalogo, distribuito nella Spagna franchista, dal ‘37 al ‘77, una serie di regole attraverso le quali le giovani donne “in età da marito” venivano educate rispetto al loro ruolo in famiglia. Ma sul palco del Teatro Basilica siamo negli anni ‘50, Giulia Trippetta non parla spagnolo e l’Italia non è il focus della questione: nel divertente monologo il cuore del discorso riguarda tutti e tutte noi nel tempo in cui viviamo. La sedicenne che nella prima scena è protagonista di una sorta di colloquio/intervista diventerà la paradossale insegnante di un corso nel quale mostrare come interpretare "la moglie perfetta”. Trippetta scrive un testo efficace che per interrogarci sulla questione femminile oggi e sulla parità di genere porta alle estreme conseguenze l’iperbole contrario; fino a un'esplosione (unico momento in cui la drammaturgia vacilla dal punto di vista del senso e della credibilità) nella quale si intravede il lato umano e dolente della giovane moglie. Il filo è dato dalle 11 regole spagnole: la donna deve essere in grado di preparare cene deliziose, deve apparire sempre bella ed elegante – l’attrice si muove in un vestito a fantasia anni ‘50 -, deve essere dolce e interessante, occuparsi della casa, dei figli, essere silenziosa, in grado di ascoltare… tutto è pensato in funzione del maschio, come se davvero ci fosse una sorta di coefficiente matematico del patriarcato. Avevamo già apprezzato Giulia Trippetta in lavori corali, di compagnia, qui emergono con evidenza la tecnica e il talento a servizio di un tratto comico sorprendente ma anche riconducibile alla grande tradizione. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Basilica. Crediti: di e con Giulia Trippetta.Regia e drammaturgia: Giulia Trippetta. Compositore: Andrea Cauduro. Tecnico luci e suono: Giulia Bartolini

BURN SKIN

Due donne, nello spazio nero di Fortezza Est, due perfomer, solo due pezzi color carne a coprirne i corpi atletici e pronti a scattare: muscoli tesi per fare di un’idea una creazione teatrale, per scavare attraverso la poesia le contraddizioni, i paradossi, le problematiche della relazione madre-figlia. Carolina Cametti e Claudia Salvatore sono le interpreti e le autrici di Burn Skin, la prima ha una voce bassa, ruvida e sorprendente, una maschera che le permette la deformità all’occorrenza, la seconda, dal piglio vocale argentino non manca di puntualità e ironia. Quando si parla di urgenza a teatro: ecco. C’è una sincerità evidente in questo lavoro, nonostante la mancanza di un occhio esterno in grado di ordinare i materiali, ma a dispetto della grammatica anarchica (e dunque di una scrittura scenica debordante, che rischia l’effetto video-clip) c’è un’insondabile vitalità in questi corpi che chiedono di essere ascoltati; nei versi, dolenti, arrabbiati o ironicamente ritmici come quelli di un rap che appare dal nulla. Cametti e Salvatore tentano giustamente di saltare gli stereotipi. La relazione madre-figlia non è tutta rosa e fiori, anzi è talvolta disperante: lungo il cammino, come piccoli fiori marci, appaio bugie, omissioni, rinunce che diventano punizioni. Le figlie vorrebbero sentirsi dire quanto le madri sono orgogliose, basterebbe scriverlo su un post-it, le madri vorrebbero respirare, sentirsi libere ogni tanto. È un lavoro denso, che colpisce emotivamente, qualcuna in platea - rivedendosi in quelle ossessioni - piange, poi sorride.(Andrea Pocosgnich)
Visto a Fortezza Est. Crediti: di e con Carolina Cametti e Claudia Salvatore una co-produzione Fortezza Est, Campo Teatrale, Mare culturale Urbano

FAITH, HOPE AND CHARITY

Dopo il successo dello scorso anno, Alexander Zeldin, con la sua troupe, torna dall’Inghiterra per un’altra grande produzione: svetta sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma la scenografia iperrealistica di Faith, Hope And Charity, ultimo spettacolo della trilogia The Inequalities cominciata nel 2014 con Beyond caring e proseguita nel 2016 con Love. Siamo dunque ancora in quel paesaggio scenico che ambisce a fare del teatro una macchina documentaristica. L’ambientazione è quello di una sala polivalente, sociale, luogo trascurato dalle istituzioni pubbliche – che anzi vogliono venderlo – e che si mostra in tutta la sua trascuratezza. Qui una donna cerca di mantenere viva una piccola comunità di emarginati, li sfama, li ascolta, apre loro le porte quando fuori piove, cerca di essere utile. Homeless, disagi mentali, povertà, madri in conflitto con i servizi sociali e private dei figli; ma c'è uno scarto sentimentale rispetto a Love (forse a rischio sentimentalismo in alcuni momenti) dato da una scrittura maggiormente narrativa e meno sorprendente. In Love le piccole storie dei protagonisti si avvicendavano scarne, mostrandosi per sottrazione allo spettatore. Anche qui accade, ma vi si aggiunge un filo maggiormente riconoscibile, più narrativo e meno sorprendente, la musica di un coro tenterà di protestare (inutilmente) contro il municipio che vuole chiudere la sala. Rimane la forza politica di un teatro costruito sulla vita sociale e sulla capacità degli attori di viverla, in grado di portare di fronte ai nostri occhi pezzi di mondo dai quali tentiamo continuamente di fuggire. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Argentina, Romaeuropa Festival. Crediti: Testo e messa in scena: Alexander Zeldin Scenografia e costumi: Natasha Jenkins Luci: Marc Williams Suono: Josh Anio Grigg Movimenti: Marcin Rudy Musiche: Laurie Blundell Assistente alla messa in scena: Josh Seymour Collaborazione alle luci: Breandon Ansdell

THE RIVER

L’uomo, la donna e l’altra donna, in una piccola baracca su un fiume che risuona degli scricchiolii del tempo, nelle venature di legni buoni che lottano contro l’umidità penetrante. Ad un palcoscenico bastano i suoi tratti materici per evocare la scena, tanto più nell’intima sala del Teatro Belli che sembra sempre sul punto di cadere in avanti. La donna esordisce cantando, mentre l’uomo prepara meticolosamente la canna da pesca, elencandone le parti come in un salmo gestuale. La donna invita l’uomo a raggiungerla alla finestra, per vedere la bellezza unica di quel tramonto, ma l’uomo non si riesce a distogliere dal suo cimento: ne accadono spesso di tramonti simili, dice. L’uomo e la donna iniziano una lotta verbale che più di una schermaglia amorosa è una tenzone sull’unicità dei gesti e delle parole in una relazione. Poi la donna, Silvia Aiello, si alterna ad un’altra, Mariasole Mansutti, istituendo una danza misteriosa in cui a essere questionato è il senso del tempo. L’uomo, Alessandro Federico (anche regista dello spettacolo), è come l’invariabile corso del fiume: ma in quale direzione scorre? The river di Jez Butterworth è uno di quei thriller senza oggetto che la letteratura anglosassone sa partorire con naturalezza. È forse però proprio il passaggio linguistico a punire le interpretazioni, che non si svincolano dalla letteralità della traduzione consegnando il lirismo della scrittura ad un’oleografia in cui la presenza dei corpi e delle parole perde quella vibrazione inafferrabile del testo. (Andrea Zangari)
Visto al Teatro Belli per TREND - nuove frontiere della scena britannica. Crediti: Regia di Alessandro Federio; con Silvia Aielli, Alessandro Federico e Mariasole Mansutti; testo di Jex Butterwoth; traduzione di Massimiliano Farau e Laura Mazzi; produzione Proprietà Commutativa

STENDHAL COMEDY

Un manipolo di bambini e bambine, un cane e un gatto, alla guida di due libri su ruote, sulle cui copertine è scritto «Contro il nulla che avanza». È l’illustrazione della 3a edizione di Libri Monelli, Festival di Momo Edizioni organizzato nel primo weekend di novembre al CSA Brancaleone. Incontri, laboratori, spettacoli per le famiglie in cui il presente del mondo, problematico o meno, viene spiegato ai giovani attraverso la letteratura, il fumetto, i disegni e il teatro. Il nulla che avanza potrebbe anche essere quello personale: se conoscessimo noi stessi, cosa troveremo? L’attore, scrittore, e anche insegnante, Davide Grillo nel suo Stendhal Comedy risponde che potremmo anche non incontrare nessuno. Il nulla, appunto. Partendo dall’immedesimazione con la buccia di banana, come fossimo noi la causa dell’inciampo per antonomasia, Grillo instaura una chiacchierata schietta con il pubblico attorno ai temi chi siamo noi di fronte agli altri e, soprattutto, a noi stessi? E cita in causa anche Stendhal e il suo viaggio in Italia, in particolare a Roma, dove visse il suo anno più triste; pretesto con il quale l’attore traccia un parallelo biografico funzionale a rendere la costruzione dialettica un ragionamento divertente sulla coscienza, con aneddoti tangenziali ma congruenti nel senso, in cui i tre concetti psicoanalitici Es, Io e Super-Io interrogano i nostri comportamenti. Come piccoli buffetti sulle guance, le peripezie monologanti di Grillo pizzicano l’inconscio per ricordarci che il nulla è proprio dietro (o dentro?) di noi. (Lucia Medri)
Visto al CSA Brancaleone, Roma, Festival Libri Monelli. Crediti: di e con Davide Grillo. Foto Giuseppe Brigante

IL MERCANTE DI VENEZIA

Scenografia imponente, cast numeroso, star protagonista e adattamento snello: questi gli ingredienti del classico Shakespeare di giro, come il Mercante di Venezia diretto da Paolo Valerio. Circondato da una folla di personaggi sempre in scena, ai lati del palco, Franco Branciaroli è uno Shylock tutto esteriore, quasi macchiettistico. Lo stampo classico del suo ben dire diventa a tratti un cantato che assottiglia la distanza originale tra il tragico intrigo di vendetta e giustizia e i vezzi delle parallele vicende amorose di Porzia/Bassanio e Lorenzo/Jessica. L’intero spettacolo, di oltre due ore e mezza, vira decisamente sulla commedia, complici le trovate sceniche legate all’uso delle luci, delle musiche ed effetti dal vivo, delle coreografie di gruppo. Un gioco, “uno sport” - come Shylock definisce la clausola debitoria con Antonio - che incontra la grande approvazione di una platea variegata e numerosa. Il risultato è un Mercante di Venezia che resta in superficie, rinuncia alla tridimensionalità scespiriana e disinnesca il tragico a favore di un intrattenimento comunque forte di un adattamento efficace e di una compagnia affiatata, seppur eterogenea nella resa. Inevitabile chiedersi il ruolo di operazioni del genere nel panorama nazionale (lo spettacolo prevede una lunga tournée in molte piazze della penisola), soprattutto riflettendo sull’indice di gradimento di un pubblico certamente diverso da quello di altri circuiti, forse più vicino alla “pancia” del paese. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Quirino. Crediti: Di William Shakespeare. Traduzione Masolino D’Amico. Con Franco Branciaroli, Piergiorgio Fasolo, Francesco Migliaccio, Emanuele Fortunati, Stefano Scandaletti, Lorenzo Guadalupi, Giulio Cancelli, Valentina Violo, Dalila Reas, Mauro Malinverno, Mersila Sokoli. Regia e adattamento: Paolo Valerio.

DANAE FESTIVAL #MILANO

MEIN KAMPF (di Stefano Massini)

“Stefano Massini porta in scena il delirio di Hitler”, “Un vaccino contro l'ideologia nazista”, “Massini ci svela il male condiviso”, “Un vaccino teatrale contro il totalitarismo”, “È orrore puro ma è necessario”:  delirio, male, orrore, vaccino…sono solo alcune delle parole più ricorrenti che si ritrovano nei titoli di giornale che parlano dello spettacolo di Stefano Massini, portato in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano a ottobre e praticamente sold out per due settimane. E da Mein Kampf, scritto condannato per mezzo secolo all’oblio e solo di recente recuperato da quella pericolosissima damnatio memoriae, rievoca proprio gli stadi germinali di quell’orrore, di quel delirio contagioso che diventarono parte della Storia che conosciamo. Massini ci rivela però una verità che già si spera consolidata: Hitler non è nato mostro, era un uomo qualunque, con esperienze di uomini qualunque, eppure il potere delle sue parole, di cui ancora abbiamo paura (in paesi come Austria, Israele e Cina, il libro è ancora considerato illegale e si conservano solo poche copie per lo studio universitario) cambiò il corso della Storia per sempre.  Parole intrise di rabbia, frustrazione e disillusione giovanile, interpretate da un Massini che per 80 lunghi minuti di monologo è tutto pathos e troppo se stesso per essere Hitler. Su una pedana bianca, pagina ancora da scrivere, l’autore e regista fa cadere libri, vetri e valigie di chi non c’è più e rumori assordanti cercano di scuotere alcuni di noi dal torpore di una narrazione poco originale, perché reitera uno stereotipo che necessita forse di cambiare forma per arrivare davvero alle nuove generazioni. “Da dove si inizia per cambiare la Storia?” recita un titolo, ma – cosa forse ancora più urgente in questa sede critica – da dove si inizia per cambiare come la Storia viene percepita? (Andrea Gardenghi)

Visto al Piccolo Teatro Strehler. Crediti: di e con Stefano Massini, da Adolf Hitler, scene Paolo Di Benedetto, luci Manuel Frenda, costumi Micol Joanka Medda, ambienti sonori Andrea Baggio, produzione Teatro Stabile di Bolzano, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana, Foto Masiar Pasquali

I PIANTI E I LAMENTI DEI PESCI FOSSILI (Annamaria Ajmone)

C’era un tempo in cui i pesci comunicavano parlandosi in modo gentile. Era un tempo lontano, non connotato dalla presenza umana. Ora, nel mondo che noi tutti conosciamo, quei pesci urlano per farsi sentire. Che ne è della risonanza della loro voce? Che ne è del loro lamento nello spazio-tempo dell’uomo? Annamaria Ajmone si fa interprete di questa vocalità assente, una vocalità forse solo perduta, e assieme a Veza Maria Fernandez Wenger ne ricostruisce la genealogia, avviando la performance prima con una gestualità fluida di ricerca – sono mani che fendono l’aria aprendola, cercando una dimensione propria in essa, di matrice più spaziale che sonora – poi con uno studio rigoroso basato sulla vocalità profondissima, che parte dal fondo dello stomaco per salire e passare fin su dalla gola, una vocalità su cui sembrano originarsi tutte le cose – quella negata alla natura e quella ritrovata dall’essere umano che cerca di riconnetervisi. Su un tappeto di pitture fossili a cura di Natália Trejbalová, Ajmone con precisione e cura continua a cercare i lamenti di chi non c’è più: lo fa con un’attenzione nuova, attraverso una relazione vocale ma anche uditiva con l’altro da sé. Così, le sue frequenze sonore si intrecciano con quelle di Veza Maria Fernandez Wenger, connotando lo spazio di presenze altre, che non appartengono al nostro tempo, ma che sono tracce, testimonianza di un passato che incessantemente torna a trovarci sotto mentite spoglie. La performance, nonostante dimostri la peculiarità e la precisione delle indagini sviluppate da Ajmone, sembra tuttavia rimanere imbrigliata in uno stadio embrionale di ricerca che necessita d’essere approfondita e scandagliata nelle sue possibilità rivelatorie, sia a livello drammaturgico che scenografico (Andrea Gardenghi).

Visto alla Triennale di Milano. Crediti: danza e voce: Annamaria Ajmone, Veza Maria Fernandez Wenger, set e immagini: Natália Trejbalová, ricerca e collaborazione drammaturgica: Stella Succi, vestiti: Fabio Quaranta, disegno luci: Elena Vastano, consulenza set sonoro: Attila Faravelli, progetto web: Giulia Polenta, organizzazione: Francesca d'Apolito, diffusione: Alessandra Simeoni, produzione: Associazione L’altra

FINE (concept e danza di Olimpia Fortuni)

All’ultima edizione di Danae Festival ho rivisto, questa volta in uno spazio neutro e spoglio della Fabbrica del Vapore, Chamber Music di Silvia Rampelli (Habillé d’eau) che, nell’incredibile rigore con cui si dà, continua a sembrarmi un grande lavoro di liberazione delle immagini (la vita dell’altro) dalle finte e oppressive e crudeli discipline che le assumono come un mero calcolo. Ho visto anche The Second Body [unplugged version] di Ola Maciejewska, con Leah Marojević in un corpo a corpo con una scultura di ghiaccio (questo lavoro decisamente non è piaciuto ad Andrea Pocosgnich che ne ha già scritto: ma devo confessare che l’esperienza di questo vincolo sotto zero del corpo con la materia - al termine la carne sgocciola come ciò che ha liberato - ha la veemenza performativa di una trasmigrazione). Nel programma era atteso il debutto di Olimpia Fortuni con Fine. Titolo bellissimo per un assolo necessario: un archivio personale da smantellare. La scena tutta bianca infatti è uno spazio già dismesso, con tutti gli oggetti già ricoperti dai teli bianchi per imminenti traslochi. Fortuni, che è interprete straordinaria e coraggiosa, non ha timore alcuno ad aggredire l’ordine e la materialità di questi arredi, combinando la musica più nota dei Nirvana con suoni più cupi e ambientali (e bellissimi di Katatonic Silentio): è in gioco qui la memoria di figure considerate artisticamente materne, il peso forse di una legacy. E la prima apparizione video di questa memoria è bellissima, perché le due figure (Raffaella Giordano e Milena Costanzo) sono glitchate e sfumate e opacizzate in un video proiettato sul fondo, pieno di vita e pure di eleganza. Sarebbe bastato. Ma poi, la retorica dell’omaggio riconoscente e della dipendenza testimoniale sovrasta, e diluisce le azioni e il racconto. Nuovi ritorni di voci e di gesti che non sono congedo ma prigione, rivelano che la fine non è ancora iniziata. La felice forza distruttiva d’avvio si trasforma in un crepuscolo apologetico di relazioni che non finiscono mai, che sono sempre fra i piedi, certamente capaci di guida artistica, non sempre generativa. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Out-Off, Danae Festival. Crediti: concept e danza Olimpia Fortuni sound Katatonic Silentio con il contributo umano e artistico di Milena Costanzo e Raffaella Giordano apporto drammaturgico Cinzia Sità assistente di scena Elisa Spina direzione tecnica Silvia Laureti produzione Ass. Sosta Palmizi coproduzione Teatro delle Moire/Danae Festival, Fabbrica Europa con il sostegno residenziale di IntercettAzioni – Centro di Residenza Artistica della Lombardia, Olinda/TeatroLaCucina, Danza Urbana – Rete h(abita)t/Sementerie Artistiche ringraziamenti a Corinna Ciulli per le pratiche sciamaniche e a Pieradolfo Ciulli per l’assistenza video durante il processo creativo.

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