Recensione. L’appuntamento. Storia di un cazzo ebreo è andato in scena al Teatro Franco Parenti di Milano, lo spettacolo di Fabio Cherstich è l’adattamento teatrale del noto romanzo di Katharina Volckmer che affronta le questioni di genere, il senso di colpa e il tentativo di riconciliazione con una storia ancora dolorosa.
Nel gennaio 2003 lo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman pubblica un libro faticoso, eppure importantissimo, per affrontare un certo negazionismo diffuso sul genocidio nazista e portare il pubblico all’elaborazione necessaria del peso della storia passata. Già nel titolo, Images malgré tout, emergono implicitamente alcune difficoltà, che coinvolgono sia la dimensione narrativa sia quella rappresentativa dei fatti accaduti nei campi di sterminio – avvenimenti che hanno il carattere dell’indicibilità e dell’irrappresentabilità. I fotogrammi che Didi-Huberman analizza, sfocati e con zone d’ombra, sono infatti una testimonianza parziale ma autentica dei campi di concentramento di Auschwitz, testimonianza di una memoria che squarcia il presente e ritorna con prepotenza, testimonianza residuale di una tragedia collettiva, rubata da un comandante tedesco all’oblio indotto dell’Olocausto, e che sopravvive malgré tout. È questo il peso estenuante della Storia, di un passato che porta con sé i segni incancellabili della colpa, che ci rincorre da dietro, poi avanza, ci supera e annienta, infine si allontana irrecuperabile lasciando a terra solo poche tracce. Di queste tracce, che sono frammenti taglienti e vividissimi, si fa carico Marta Pizzigallo, protagonista sul palco dello spettacolo di Fabio Cherstich L’appuntamento. Storia di un cazzo ebreo, nell’adattamento teatrale del libro di Katharina Volckmer che ha riscontrato un enorme successo in seguito alla sua pubblicazione del 2021. Il lavoro è stato prima presentato al Festival dei due mondi di Spoleto e poi riportato sul palco del Teatro Franco Parenti di Milano, che ne ha curato la produzione.
La scena, costruita con un raffinato gusto estetico, è di una staticità immobile, silenziosa, aleatoria. Sono immobili anche i personaggi che la abitano, nonostante la loro stasi assuma un significato più simbolico che estetico, l’impossibilità di procedere senza scegliere per poi rimanere fermi, osservatori di una vita che sembra appartenere solo ad altri. Nella zona marginale e oscurata del palco, troveremo quindi il dottor Seligman seduto su una sedia; indosserà una maschera anonima e ascolterà le confessioni di una donna senza nome, il cui fisico è stretto in un corpetto modellante per contrastare quelle che lei definisce “deformità del corpo”. Posata su un lettino ginecologico e rivolta di schiena, le sue braccia terranno in alto una rivista aperta con le immagini della Venere di Botticelli, idolo di bellezza, di femminilità ma anche di materna fertilità (nell’elemento della conchiglia) e riferimento iconografico per la cultura occidentale che a lei guarda e si rapporta da secoli. Le immagini della rivista poi scorreranno, mostrando i corpi di modelli, figure che impartiscono un preciso canone estetico non solo da imitare, ma a cui dover necessariamente aspirare. «Sentivo che non sarei mai stata ciò che avrei dovuto essere»: sarà questo scontro tra immaginario e cruda realtà il detonatore del suo incontrollato stream of consciousness, il riverberarsi di una verità intima ma squassante pronunciata da una voce materica che fende l’aria e apre la ferita di un disagio esistenziale, recante con sé l’impronta cucita della vergogna. La protagonista, dopotutto, è tedesca ma vive a Londra, è donna ma si sente un uomo, ama gli uomini ma vuole circoncidersi, come gli ebrei, per espiare una colpa che appartiene ai suoi avi quanto alla sua generazione, la colpa di un intero popolo.
In questa dimensione confessionale, il light design di Oscar Frosio, e le lampade a led in sospensione del designer Ernesto Gismondi, sono studiate per accentuarne la tragicità, nelle tonalità cromatiche espressionistiche e nella luce profonda ed emotiva, che indaga la complessa psicologia del personaggio e la riporta ad un livello esterno, visivo e fruibile agli occhi del pubblico. Qui, vediamo la memoria del passato intrecciarsi alle riflessioni su Hitler, sulla propria famiglia e sulla cultura germanica, tutti messi sotto giudizio con ironica gravità, rivelando un latente trauma irrisolto – di una patria che ha portato avanti uno sterminio di massa e di un corpo non riconosciuto, “campo di battaglia” personale –. In un articolo su The Guardian Volckmer parla, nello specifico, di un particolare terrore negli occhi del popolo tedesco che si esprime in un silenzio diffuso sull’argomento dell’Olocausto, rivelando un’incapacità di fare i conti con il proprio passato. «We sang in Hebrew to make sure that we remained de-Nazified and full of respect. But we never mourned; if anything, we performed a new version of ourselves, hysterically non-racist in any direction and negating difference wherever possible», confessa la scrittrice, portando alla luce una situazione attuale ancora problematica che si lega alla questione complessa ed ignorata del genere, priva di riconoscimento e di tutela in più paesi (basti pensare alla situazione italiana).
Nell’esposizione di un’abitudine “omissiva” di una cultura e nella decostruzione di un’immagine che corrisponde ai canoni stigmatizzanti della società, Marta Pizzigallo è abilissima interprete e incarna le parole graffianti di Katharina Volckmer; la tensione vocale poi aumenta, seguita dal fremito delle membra che vorrebbero spogliarsi del peso della propria storia. Non resta che ripudiare la madre, ripudiarne il grembo, ripudiare l’apparire del proprio corpo, ripudiare il sesso, il proprio genere, la propria identità. Ripudiare l’amore che ha incontrato, in un corpo mascherato come il suo. Ripudiare quel senso di solitudine e di vuoto, ripudiare la prigionia, la menzogna, la società. Confessarne l’offesa subita. Scegliere chi essere. Perdonarsi, ripartire. Nel concitato dialogo con il dottore, che rimane sempre un’ombra silenziosa, il flusso discorsivo condensa un’intensità violenta che sembra appartenere propriamente alla trasformazione del corpo, non più femminile ma non ancora maschile, e che talvolta straripa dai confini delle possibilità ricettive del pubblico: lo spettatore è distratto dall’eccedenza di parole, e riflessioni – immagini nell’adattamento drammaturgico del testo, risultato della collaborazione tra la scrittrice e il regista – è distratto da un’oscillazione emotiva che segue quella sintattica della scrittura, con alti picchi e note più basse; ma ciò che si imprime è una scossa, forte, propulsiva che scava e arriva alle sinapsi, crea quell’increspatura epidermica involontaria e scivola via dalla pelle, alla ricerca di un modo nuovo per riconciliare l’intimità del singolo con il peso insostenibile della Storia, malgrado tutto.
Andrea Gardenghi
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano – ottobre 2022
L’APPUNTAMENTO. STORIA DI UN CAZZO EBREO
di Katharina Volckmer
traduzione italiana Chiara Spaziani
adattamento Fabio Cherstich, Katharina Volckmer
da un’idea di Andrée Ruth Shammah
regia, spazio scenico Fabio Cherstich
con Marta Pizzigallo e con Riccardo Centimeri e Francesco Maisetti
luci Oscar Frosio
musiche originali Luca Maria Baldini
assistente alla regia Diletta Ferruzzi
macchinista Marco Pirola
fonico Emanuele Martina
elettricista Luca Asioli
sarto Giacomo Pietro Viganò
produzione Teatro Franco Parenti