Intervista con Lino Musella. Una conversazione sul mestiere dell’attore, tra teatro e cinema. Dalla vocazione, agli studi, fino al rapporto con i grandi registi. Tra il 2022 e il 2023 tornerà in scena con Tavola, tavola, chiodo, chiodo, Brevi interviste con uomini schifosi,
Incontro Lino Musella un sabato pomeriggio, al Pigneto, a Roma, lungo un asse che da Bologna deve riportarmi verso Sud. La mia deviazione necessaria è per una conversazione di oltre due ore, che sarà intervallata dai saluti dei passanti del quartiere che conosce, dalla questua di qualcuno e da un temporale di cui a stento mi accorgerò se non per il timore che il rumore intacchi l’audio della registrazione. Cercherò di tener fede alle parole che ho annotato sul taccuino e sarà semplice perderle provvidenzialmente insieme a un ordine di sequenza per ritrovarle, tutte, nelle trame del e dei discorsi. Le curiosità, le constatazioni e le domande sembreranno palesarsi come se non potessi farne a meno.
Mi piacerebbe partire dalla parola vocazione per capire che senso ha per te, se ne ha uno, nell’avvicinamento a quello che fai.
La vocazione, almeno nel mio caso, è una capacità che trovi. Magari ho dovuto fare più passi di altri ragazzi. Il contesto in cui sono cresciuto non è un contesto facilissimo, in provincia di Napoli, a Marano. Quando quella luce si è accesa è stato come incontrare delle capacità, la scopri perché gli altri ti dicono che ce l’hai e semplicemente la coltivi, capisci che sei bravo a fare quel tipo di gioco, il gioco della rappresentazione. Al sud si usa particolarmente la rappresentazione, ti può capitare di fare delle vere e proprie recite quando hai cinque o sei anni, è inserito nella didattica. Ho capito da molto piccolo che in quello avevo qualcosa in più. Chiaramente c’è un’età in cui quella cosa viene messa da parte, poi ritorna se deve ritornare.
Come ricostruiresti il tuo percorso formativo, inteso non solo in senso scolastico o accademico, e quindi anche i tuoi inizi?
Nel 1995/1996 era diverso da adesso, esistevano tante situazioni interessanti, però non tutte queste possibilità di studio. A me è capitato l’incontro con l’Accademia d’Arte Drammatica di Guglielmo Guidi, una scuola che aveva una cadenza bi o trisettimanale. Il giusto modo per cominciare. In un secondo tempo sono venuto a sapere che il Teatro Bellini aveva una sua scuola o ho sentito parlare del Bardefè, da cui sono usciti molti colleghi e amici. Ho capito subito che c’è una doppia vocazione: la vocazione dell’attore è una cosa, quella dello spazio del teatro è un’altra, è parallela, può andare insieme, ma può anche non andarci. Ci sono attori con una vocazione straordinaria per la recitazione, ti puoi coltivare da attore da solo quasi, hai bisogno di confronti, di insegnanti, ma puoi coltivare un cammino “solitario”, attivare un percorso di formazione o comunque – come per le lezioni di pianoforte, vai lì due tre volte a settimana e il resto del tempo è tutto esercizio – puoi essere “autonomo”. Il teatro in sé è una vocazione parallela, il teatro ti risucchia, hai bisogno di stare nel luogo, non puoi starne fuori, quel tipo di vocazione ti chiede di stare dentro. Ho sentito che io volevo stare lì, passare del tempo in quel luogo, non era più il recitare, è attrazione verso uno spazio. Quindi è diventato relativo anche l’esercitarmi come attore, il pensare di dover studiare. Il direttore della scuola era anche direttore artistico, ha riaperto il Teatro Politeama, ha capito e mi ha dato la possibilità di formarmi all’antica italiana, mi ha affidato a Emilio (Peluso n.d.r.). Era una figura estremamente eduardiana, aveva una somiglianza con Eduardo pazzesca. Sono stato fortunato, ho avuto la possibilità di avvicinarmi al teatro stando a teatro, e vivendo tutta una serie di esperienze che sono state molto intense dal ’96 al ’98-’99. Ero al Politeama tutti i giorni, d’estate facevamo le rassegne estive, ero dentro al mestiere dai sedici o diciassette anni. Quella per me è la mia formazione. Poi sono venuto a Roma e ho conosciuto un altro contesto, quello delle cantine, sono entrato in contatto con un altro modo di stare in scena, vedendolo, non facendolo, gli spazi erano piccoli. Ero abituato a spazi molto grandi e la drammaturgia contemporanea non sapevo cosa fosse, che esistessero testi scritti l’altroieri e messi in scena oggi.
A proposito della parola “mestiere”: farò una forzatura lapidaria, ma ti senti un attore puro? O meglio credi che il tuo mestiere sia l’attore?
No. Tecnicamente da un po’ di anni a questa parte sì, perché è quello che mi dà da vivere soprattutto. Però non mi sono mai sentito un attore puro. Il non esserlo probabilmente mi dà una sorta di equilibrio, mi ha permesso di non impazzire dentro questa forma d’arte, di restare lucido in molte situazioni. Credo che la mia parte pura sia l’attore, il bimbo, il talento più cristallino probabilmente è quello, però mi sono sempre occupato di altro.
Quindi se dovessimo operare una distinzione tra lavoro (quello che ti dà da vivere) e mestiere, come definiresti il tuo concetto di mestiere?
Sul cinema è un’altra cosa, l’ho incontrato molto tardi. Credo di essere un costruttore di teatro, anche quando faccio l’attore costruisco un tipo di possibilità teatrale. Recitando cerco di mettere in moto quella dinamica. C’è una parte di me che si preoccupa profondamente del personaggio, della battuta, e una parte che crede che il personaggio e la battuta servano a costruire quell’evento, quella possibilità di contatto platea-palcoscenico. La stessa cosa mi è successa con la scrittura, lineare e frammentaria. Non credo di farlo solo con la recitazione, credo di farlo profondamente anche con altre cose, anche lavorando con la scena, con le luci, …C’è anche una parte razionale-artigianale che si mette in moto, penso sia la mia principale capacità, non ho mai escluso, anzi mi interessa e mi piace pensare che ci sarà un momento in cui ci starò “da fuori”, cercherò di portare persone verso quella cosa lì.
Considerando tutto questo, se dovessi provare a focalizzare una sorta di processo identitario che è andato a formarsi e stratificarsi nel tempo, come lo faresti? Non intendo necessariamente nell’ “abbracciare” o acquisire delle cose, ma anche nello sconfessarle, nel perderle.
Credo di aver avuto sempre ben presenti le mie sensazioni pure. Non mi sono mai mentito, su quello che mi ha colpito, mi ha toccato. Più esperienze hai e più sei “inquinato”: da una parte hai più esperienza, dall’altra scendi a più compromessi. Più conosci persone che fanno questo lavoro e meno riuscirai a dire la verità dei lavori che vedi, sarà compromesso il tuo sguardo. Io sono un fantasma che va a vedere degli spettacoli, nessuno verrà a chiedere a me che cosa ne penso, ciò che penso è mio, lo tengo per me: in quel caso hai la possibilità di vedere e di sentire cosa provi quando vedi un attore, uno spettacolo. Si forma e si chiarisce sempre di più il tuo gusto, le tue “pulsioni”. Nel momento in cui, invece, entri in contatto diretto con le cose o incominci a studiare, tutto si modifica, e si modifica ammorbidendo il tuo giudizio stesso, sarai più predisposto a giustificare delle cose che non ti piacciono, ad apprezzare qualcosa che potresti anche non apprezzare. È un po’ il pericolo che c’è dietro la contaminazione. Cerco sempre di mantenere pulita quella zona, anche nella formazione o nell’idea embrionale che fa nascere uno spettacolo… È complicato da comunicare, è una sensazione: nel caso di Tavola tavola, chiodo chiodo era difficilissimo raccontare cosa avessi in mente, o quando capita di interpretare un personaggio è difficilissimo raccontare cosa vorresti farne. Penso a una formazione e una deformazione, una costruzione e una decostruzione, operata sempre, aggiungi elementi, ma poi devi distruggere. La nettezza e la lucidità coincidono spesso. Se guardo uno spettacolo e sono in barcaccia, non vedo bene, non sento bene, sono scomodo, non sono più spietato, c’è solo una freddezza, che non mi permette di vedere bene qualcosa. Oppure conosco tutta la compagnia e magari sono sbilanciato dall’altra parte. La ricerca va in questa zona. Ho capito sempre di più che non è importante che io dica quello che penso, l’importante è quello che penso, ovvero ciò che mi permette di creare dei personaggi, delle drammaturgie, degli spettacoli. È stato un po’ il mio conflitto negli ultimi anni.
Credi sempre a quello che pensi? O ti capita di metterlo in dubbio?
Credo a quello che sento. Mi capita di mettere in dubbio quello che penso.
In scena ti capita?
Mi capita come spettatore, in scena no. Non potrei fare altrimenti. Passo in delle fasi, come un processo meccanico, finchè una cosa non gira non gira, ma quando gira gira.
Hai un metodo, degli appoggi su cui sai di poter far leva?
So quando gira, perché smetto di preoccuparmene. Mi posso solo preoccupare “che avvenga il miracolo anche domani”, ma questa è la retorica del nostro lavoro. Se ci sei riuscito una sera vuol dire che probabilmente quello è già un metodo. La sensazione che una cosa non giri è sempre uguale, ma ogni volta ha dei processi diversi, ci sono tantissimi aspetti che ti portano a trovare l’energia giusta per “stare dentro” ciò che fai.
A te capita di lavorare da solo, in formazione con un’altra persona in modo sistematico, di costruire e scrivere un tuo spettacolo o di essere diretto da qualcun altro, di lavorare al cinema… La sensazione dell’ingranaggio che gira cambia da un caso all’altro?
Al cinema ci sono parametri non totalmente dissimili ma di altri tipi, che hanno a che fare con la funzione dentro a un film e questa ha a sua volta a che fare profondamente con il punto in cui il tuo personaggio si colloca. In teatro è diverso: la sensazione è che qualcosa sia arrivato a un punto in cui puoi smettere di preoccupartene ed è dovuta anche al pubblico. Mi sono sempre occupato di un teatro fatto col pubblico, più che per il pubblico. Non è la sala che mi restituisce, è sempre qualcosa che deve girare con loro. Il senso lo dà la relazione, c’è un test, un esame, una verifica, hai la possibilità di mettere alla prova questo processo. Con Tavola tavola ho debuttato due volte. Il primo debutto è stato molto duro. É andata bene, però non ero contento, per me non girava, il tipo di lavoro forse già si mostrava nella sua forza, tale era stato l’impegno drammaturgico e registico. Uno spettatore da fuori, in una condizione veramente faticosa, a un pelo dalla zona rossa, con una grande tensione, calorosa, ma tensione… Un debutto così difficile, con la preoccupazione di essere tediante…
Hai avuto paura di quello spettacolo?
Si, assolutamente.
Più di altri?
Si.
Perché?
Non per Eduardo, di questo non ho mai avuto paura nemmeno per un attimo. Più persone hanno cercato di farmi paura perché “toccare” Eduardo… Io però sono sempre stato orgoglioso dell’idea, sono sempre andato dritto come un treno perché ho avuto una consapevolezza intellettuale. Mi ritengo un grande conoscitore di Eduardo, eppure ho scoperto che non lo conoscevo così bene, che lo stavo scoprendo. Quindi mediamente ero un grande conoscitore, e stavo facendo le grandi scoperte, ero molto orgoglioso di questa prospettiva su di lui. Mi sembrava che gli storici di Eduardo continuassero a dire cose che carteggi smentivano, più entravo nella materia e più mi chiedevo perché la gente non studiasse, perché continuano ad esserci delle leggende che non hanno dei fondamenti e si sono ormai fissate, e ancora discuto su moltissimi aspetti. Posso parlare della retorica della cattiveria o di contraddizioni che ci possono essere tra lui e altri autori o attori. Scopri perché leggi, perché sai quando lui usa le parole e le usa consapevolmente. Eduardo amava gli altri artisti, sapeva di essere superiore solo nella dedizione, di lavorare più di tutti gli altri, di essere più instancabile, questo sapeva. Ma non si è mai messo come attore sopra agli altri, neanche come autore. Ci sono tante questioni, pensa al rapporto con Viviani, c’è ancora dialettica. Si fa presto a dire si presto. Ci sono idee che si sono cronicizzate. Per tornare allo spettacolo, sapevo che il sommergibile stava andando, ma d’altra parte volevo fare teatro, non certo quello che non mi piace andare a vedere, spettacoli intellettuali e basta, intellettualistici anzi. Dopo la prima sentivo il calore delle persone, ma non ero contento, come attore non lo ero, come regista e autore sì. Non ero pronto come attore. Lo spettacolo era quello, solo che io non ci respiravo dentro, era una questione di intenzione. Un regista e amico, Andrea De Rosa, è venuto a vederlo. Sapeva su cosa stavo lavorando, ma non sapeva niente del lavoro. In maniera molto netta mi disse che era bellissimo, ma che conoscendomi sapeva che avrei potuto divertirmi nel farlo. Era vero, dovevo capire come respirare dentro quel materiale. Ricordo che ho fatto quattro repliche la prima volta, dalla terza ho cominciato a immettere i giochi che mi servivano a divertirmi, a coinvolgere il pubblico, zone che sono mie. Quel minimo di strafottenza che occorreva a un lavoro così denso, la zona un po’ “teppista”. In quel caso mi è servito, mi è successo anche in altri lavori, il famoso rodaggio. Il rodaggio però molte volte è più una questione “ginnica”. Per Tavola tavola è stato un click, è bastato iniziare a divertirmici dentro, serviva far ridere, far respirare l’ironia di Eduardo in testi che non facevano esattamente ridere. Ho bisogno di sentire che gli spettatori capiscano che stiamo comunque giocando, che questo materiale denso è piacevole, seduttivo, divertente anche.
Giochi sempre in scena? A prescindere dalla “matrice” con cui ti confronti?
Finchè c’è gioco c’è speranza. Sarebbe come fare qualcosa senza provare piacere, se non giochi o fai un assurdo esercizio di vanità o una sorta di psicodramma. Forse sulla seconda a volte puoi avere un approccio su testi precisi per cui durante le prove qualche esperienza umana può farti trovare chiavi di accesso per rendere concrete delle parole. Ma sono parole che non hai creato tu, è più uno strumento di analisi. Per la vanità, invece, non saprei come. Ci può essere un compiacere quando vedi che il pubblico si diverte tanto. A volte devi fare attenzione a “tenere il carro per la scesa”, a non farti trascinare, a non diventare schiavo di quella condizione. Forse salva che ci sia un principio intellettuale, di divertire il pubblico e basta non mi interessa niente, è un contatto più profondo che voglio raggiungere. Il mio massimo desiderio è che il pubblico mi sia grato, che provi un senso di gratitudine verso lo spettacolo.
Riusciresti a definire la “qualità della presenza”? Cioè come definiresti il complesso di elementi che pertengono alla dimensione identitaria, emotiva, del mestiere, etc. quando assurgono a una dimensione estetica, quindi leggibile?
Mi ha sempre divertito pensare che l’opera totem della storia del teatro, quindi tutte le riflessioni possibili sulla dimensione dell’attore anche, sia l’Amleto. Non quando si parla degli attori “didascalicamente”, lì probabilmente Amleto prende in giro quanto si pensa e si dice di loro. Mentre per tutto il testo racconta dell’uomo e mi diverte pensare che parli continuamente dello stare in scena, che la questione della presenza non sia essere o non essere. Quello che rende la vera qualità di presenza è l’essere e non essere, cioè sono qui ma non sono qui, non sono totalmente qui e non sono assente però. Non presente e non assente, quindi un medium. Guardando me guardi altro, ma anche me. Sono gigantesco perché non sono io soltanto, ma devo essere anche io. Il semidio, Dioniso, …C’è tutto quello, l’essere in contatto con forze più grandi. La sacralità è l’intenzione che sale. Credo che in scena debba accadere questo. Anche se fai teatro contemporaneo. Sento quando alla lente lo zero corrisponde esattamente allo zero, quando la messa a fuoco è perfetta, noiosa, quando vedo una cosa in quanto ciò che è. Il teatro è evocativo dal primo passo che fai in scena. Al cinema scivolo continuamente. Il set è un luogo dell’insicurezza, del demandare anche allo sguardo del regista. Devi scegliere, ma hai meno libertà di scelta rispetto ai progetti. Ho imparato prestissimo che il teatro lo potevo fare da solo, e mi sono formato da prestissimo per farlo, per essere indipendente. Il cinema no.
Questo senso di scivolamento di cui parli…
A teatro non l’ho mai incontrato.
Nemmeno quando sei stato diretto da qualcun altro?
No. In quel caso so cosa succede. Ho lavorato con dei grandissimi registi, ma ho fatto sempre un lavoro di interprete. E sono qui a dirlo e a rivendicarlo con tutto l’amore. I grandi registi che ho incontrato sono autori, e io come attore ho interpretato non solo il testo, ma anche loro. Non significa che voglia fare quello che credo io, è per questo che i registi mi lasciano fare. Metto in scena loro, non il mio teatro. Non riporto a me Shakespeare o altri, vado verso gli autori. Allo stesso modo vado verso Latella, Jan Fabre, … Cerco di capire, sono un medium, interpreto quello che il regista vuole fare dello spettacolo.
Ti è mai capitato di fare particolarmente fatica in questa interpretazione?
Sono stato abbastanza fortunato, o forse ho evitato delle situazioni che sapevo non essere adatte. Ho una dialettica aperta col teatro di regia. Lo difendo se è un’eccezione, siccome siamo cresciuti nella regola del teatro di regia lo attacco. Non possono essere tutti Latella, Ronconi. Devo vedere dell’ottimo teatro, dei grandi registi che fanno spettacoli. E poi trovare i registi autori. Un periodo sembrava che per forza bisognasse prendere un testo e farlo “a testa sotto”. Gli attori hanno sofferto molto di una manipolazione e dell’utilizzo dell’attore come strumento. Detto ciò, preferisco lavorare con un regista del teatro di regia perché mi dà più materiale. Al cinema è diverso, voglio che il regista mi dica se è buona, la camera è una cosa che controlla solo lui.
La tua relazione con la parola, la voce, il corpo lo spazio, l’immagine del sé, cambia completamente?
Tra cinema e teatro cambia completamente. La condizione dell’abbandono è completamente diversa. Al cinema smettere di pensare a quello che stai facendo è molto complicato. Per una serie di motivi, relativi alle informazioni che hai, e alla formazione quasi sociale. Con Paolo (Mazzarelli n.d.r.) avevamo comunque una responsabilità, di salvare la drammaturgia. Quel tipo di responsabilità ti dà una specie di abbandono, ma non totale, perché non abbandonerai mai il testo, lo devi difendere. Non sei preoccupato di te come attore, ma di mandare avanti il testo. È con Tonino Taiuti che ho sperimentato, frequentato l’abbandono, l’ho scoperto e portato avanti anche nei lavori da solo. Nei Sonetti, nel lavoro con Jan Fabre e in Tavola tavola. Con Tonino la struttura siamo noi, è il non dover badare a niente, l’abbandono vero viene tra una cosa e l’altra.
Qualcosa che ha a che fare con l’affidarsi?
Si, ma non all’altro. Non hai più responsabilità interpretative, né nei confronti di un testo (un testo non c’è, sono frammenti), né nei confronti del pubblico, perché ti senti quasi in una dimensione sacra di cantina. Là dentro così deve succedere. Un certo tipo di teatro nasce in luoghi che sono speciali, forse in altri non sarebbe possibile, anzi risulterebbe stonato. Quella dimensione si regge sul fatto che quando performi lo fai al cento per cento, quello che fai è bello, e virtuoso, ti puoi permettere di abbandonarti. Abbandonarsi significa poter sbagliare. Al cinema, sai, vedi la troupe: quando vedi tutta questa gente che sta lì a lavorare intorno a te sei preso da un senso di responsabilità che ti porta a volerla fare bene.
Tu hai un forte senso di responsabilità nel tuo lavoro?
Si. Verso la mia storia, se parliamo di teatro. Il teatro sicuramente è il luogo in cui ho delle ambizioni. L’ambizione di essermi trovato più volte, da solo o in compagnia, a fare delle cose forti, senza bisogno di nessuno e a uscirne vivo. Nei confronti del cinema, invece, c’è una grande curiosità di mettermi in gioco, è davvero un territorio strano, cosa sono non lo so ancora. In teatro voglio esserci. Non è “voglio dirigere questo” o fare tot numero di repliche, non ho mai ambito a queste cose. È portare dei lavori importanti, pensare di essere una presenza importante, non per i posteri, ma all’interno di questo pezzo di storia che vivo. Il cinema è una cosa che mi sta facendo crescere, mi mette in crisi. Col teatro è più complesso, è il fenomeno che può avvenire oppure no, ma so comunque di essere a casa. So che un momento di estrema verità può passare per una tirata trombona, lo so, ho accesso a quei misteri, li accetto in quanto tali, li conosco, ci credo, li vivo. Nonostante i registi possano costruirti tantissime macchine intorno, addosso, ho sempre sentito che poi era responsabilità mia quel contatto quando toccava a me.
Ora cosa stai facendo e hai in programma di fare?
Quest’estate ho girato due nuovi film e ho girato con i miei spettacoli. Ho portato in scena una lettura scenica-concerto con un amico musicista, per la commemorazione della strage di Ustica a Bologna, ho riportato in giro i Sonetti, sono usciti questi due film cui tengo molto, uno a Venezia e uno a Locarno. Riprenderò sicuramente Tavola Tavola. Sono al San Ferdinando a dicembre per una decina di giorni, all’Astra di Torino, a Roma al Vascello, … E riprenderemo Brevi interviste con uomini schifosi di Wallace.
Come vivi il rapporto con la memoria e con le parole tradizione, tradimento, traduzione?
La memoria è un caposaldo del mio scheletro, sono fatto di memoria, intesa come parole a memoria. Vivo con la mia memoria, mi tiene compagnia. Ho passato molti anni a imparare cose a memoria e ricordo a memoria quasi tutto quello che ho fatto. Brandelli, anche battute di altri. Come detriti che ti restano dentro. Per me è qualcosa che contiene immagini, ma passa profondamente per la parola. La parola ha a che fare con tutto, necessariamente deve almeno avere una sequenza. Ho un rapporto altrettanto forte col corpo, ma non ho “coreografie” a memoria. Per quello che riguarda, invece, la traduzione e il tradimento, non mi sento in grado di tradire totalmente un autore, non ci riesco, non mi piace. Mi sembra profano, volgare. Ma se non tradisco un po’ non gira, tutte le volte che non ho osato farlo, quasi come una cosa esoterica, non funzionava. Non troppo, ma un po’ devi forzare la mano, non è metterci del tuo, è qualcosa che ti fa pensare che un po’ stai truffando, che crea una piccola bugia, una zona incerta. Mi preoccupo molto di essere fedele, ce l’ho sempre ben presente. Però se poi faccio esattamente com’è scritto e basta non è vero, non si muove. Pensa ai percorsi che hanno fatto le commedie di Eduardo, sono assurdi, quanto lui abbia anche usato i suoi attori, quanto si sia servito di loro per tradirsi e poi per girare un’altra volta la chiave. Ha sentito quando una cosa andava mossa o quando era il caso di chiudere perché il tradimento era già avvenuto. Un tradimento che diventa forma, ma se non vai verso quella forma…
C’è qualcosa da cui fuggi, per tornarci? Dove ti ritrovi a tornare, nonostante inevitabili peregrinazioni?
Napoli, è un posto in cui torno da sempre e scappo da sempre. Non l’ho mai abbandonata, ma sono sempre fuggito. Non è solo una città, è una qualcosa che mi riporta al passato, alle origini, a una periferia anche. Un mondo che ha umori, sapori. Quando parlo di Napoli parlo di una mia dimensione, che ha a che fare con i ricordi, con l’evasione da cui nasce il mio mestiere, l’evasione da una realtà da dove scappare. C’è sempre una base a cui torno: ritornare sempre, per ricordarti anche perché sei scappato.
C’è, invece, qualcosa verso cui fuggi e dove ti sembra di non arrivare?
Non so, forse no. Io ho una dimensione razionale e una irrazionale. C’è questo dialogo continuo tra l’essere comprensivo e comprensibile e l’opposto. Mi succede di avere periodi di grande lucidità che poi devo abbandonare. Oppure il contrario. Non sono passaggi bruschi perché sono consapevoli, sono voluti.
Marianna Masselli