Ho lasciato Roma con la teatralità dirompente di Antonio Rezza e l’ennesimo Pitecus, egoisticamente usato come placebo alla tristezza che la città eterna si porta con sé. Ho lasciato Roma dalla Stazione Temini, dove il marketing corre sui pattini e i barboni dormono su via Giolitti, in terra mentre i turisti velocemente passano loro accanto.
Da Roma con un paio di colleghi siamo partiti per la Valtiberina, in tre ore la E45 ci ha portato a Sansepolcro, all’ingresso del centro cittadino il manifesto del festival campeggia con il suo salvagente… si salvi chi fa.
Tutto si svolge all’interno del complesso di Santachiara, qui c’è la chiesa sconsacrata dove ha trovato posto la Kilow’art Temporary Gallery 2010 (opere di 5 giovani artisti, Arianna Lerussi, Klaus Morgue, Alessandra Rinaudo, Marta Coletti e Giovanni Copelli) e La scena elettrografica di Renzo Francabandera. Quest’ultimo rappresenta forse proprio l’inaspettato del festival, un critico che nel buio della sala fotografa a modo suo il particolare scenico, il momento teatrale. Nella chiesa sconsacrata troviamo così le tracce febbrili di un bel pezzo del teatro contemporaneo, dai Demoni di Stein a Macadamia di Ricci e Forte. Le linee color pastello si rincorrono sui bianchi Fabriano e il teatro rinasce lì, in quel momento, raccontato e ricreato.
Dalla scena elettrografica alla scena materiale, corporea e al contempo invisibile di David Batignani, spettacolo di apertura di questa 8° edizione del festival diretto da Luca Ricci e organizzato dalla sua Compagnia Capotrave. Batignani nel suo nuovo Assolutamente solo gioca con il tema del doppio partendo da una concettualità densa di rimandi, la scena infatti è condivisa con il padre, una sorta di alter ego invecchiato. Il sottotitolo del lavoro di Batignani è “uno spettacolo di trasformismo”, ma la trasformazione asservita sì alla creazione dello spaesamento non è quasi mai gioco illusionistico serio. Sin dall’inizio l’artista si presenta al pubblico a carte scoperte, i trucchi sono già svelati prima del loro incipit, volutamente facili, con il rischio di diventare irritanti anche per alcuni tempi, forse troppo dilatati. Senza psicologia alcuna, senza pretese sociologiche, di cui sono invece affamati spettatori più esigenti, Batignani crea una poesia danzante dove un figlio abbraccia il padre, gli scrive una lettera che si perde nel tempo e si ritrova in una maschera di cartongesso, volto frantumato di un manichino e del suo riflesso d’oltretomba.
Per la seconda proposta della serata passiamo dal chiostro, dove all’incirca 140 persone avevano occupato tutti i posti disponibili, ad una sala chiusa dove per motivi logistici Luca Ricci e Lucia Franchi rischiano di sacrificare il loro ultimo lavoro, Virus, rendendolo semi-invisibile, causa l’assenza di una platea rialzata, a metà del pubblico. Ed è un peccato perché chi come me ha avuto la possibilità di vederlo in un altro contesto non può non aver recepito il clima angosciante creato da Capotrave, l’atmosfera da fine del modo schizzata in scene buie con un’estetica di primi piani fumettistici per raccontare di due uomini (interpretati Simone Faloppa e Pietro Naglieri) costretti in un underworld a raccogliere topi, ognuno che combatte a modo suo contro il virus, scrivendo lettere mai spedite al proprio amore, contando gli animali infetti o tentando il suicidio.
Il tempo per scambiarci qualche opinione, per catturare impressioni a caldo, come quella puntuale proprio di Renzo Francabandera che giustamente ritrova il tratto di Frank Miller nel lavoro di Luca Ricci, e poi eccoci proiettati di fronte all’ultima produzione di questa prima serata. Sono i Quotidiana.com co-prodotti da Kilowatt dopo la partecipazione dell’anno passato nella categoria dei Visionari, il duo riminese, Paola Vannoni e Roberto Scappin, con Sembra ma non soffro porta nel chiostro di Santachiara un antidialogo fatto di una parola asciutta e di una performatività altrettanto sintetica. In un ritmo lentissimo e funzionante proprio per l’alternarsi di lunghi sospiri a battute taglienti, i due personaggi, inginocchiati nella bianca luce del neon, astraggono i simboli di una religione decaduta a superstizione di massa, innestano il quotidiano nel teologico dove un’acuta e spiazzante ironia lavora nell’immobilità di una sofferenza logorante.
Oltre le performance e le discussioni appassionate che intorno ad esse già si sono create mi piace ricordare una frase che Luca Ricci ha rivolto a noi addetti ai lavori poco prima dello spettacolo di apertura: “non ci sono sedie riservate alla stampa, questo è un festival per il pubblico”. Che la festa abbia inizio.
Andrea Pocosgnich