Nel coraggioso programma di Bolzano Danza Festival spiazza e divide Meg Stuart, mentre convince pienamente il Puccini-fuori-cànone di Emanuel Gat, così come l’assolo di Alessandro Sciarroni per Marta Ciappina, e la ripresa di Naharin della Gauthier Dance Juniors.
PER NUOVE GALASSIE
C’è un’opera, una macchina cinetica in legno e plexiglass dell’artista filippino David Medalla (1942-2020), dal titolo Cloud Canyons (1964), in mostra al Museion di Bolzano, in una personale da intercettare dal titolo Parables of Friendship: una combinazione di pompe e tubi di altezze diverse che spuntano da una base circolare, autogenerativa di bolle di sapone, sempre in lento movimento e sempre in forme casuali e imprevedibili, «che traboccano lentamente formando pennacchi e cascate». Proprio quest’opera è già emblematica per comprendere Cascade, il difficile (senz’altro esigente) ultimo lavoro di Meg Stuart/Damaged Goods, ospitato in prima italiana a Bolzano Danza. Come nella scultura di Medalla, la coreografia di Stuart è meditativa e richiede tempo: soprattutto ai sette performer che in scena provano logiche cinetiche di relazione non lineari ma istantanee, in tempo reale.
Liberati dalle forze fisiche che vincolano i corpi, essi agiscono in uno spazio che allude a un nuovo e mutevole «universo galattico» ideato da Philippe Quesne. Qui, enormi bolle gonfiabili e un ripido scivolo di continuo transito, creano per i performer originali condizioni di «iper-presenza»: il movimento è il risultato della condizione di osservazione e di reazione istantanea alla scena perché tutto è qui generativo. Sembra di cogliere ancora il lento processo di crescita e decomposizione continuo dell’opera cinetica di Medalla, la stessa inversione del rapporto tra ordine e caos. In questa nuova cascata del tempo di Meg Stuart, si intravede (seppur in affanno) la possibilità di un nuovo cosmo sincronizzato sul ritmo dei due gruppi di percussioni (su partitura di Brendan Dougherty) che a ondate governano la performance: «una sfida anche per lo spettatore», ammette serafica la stessa coreografa.
L’ASCOLTO IMPREVEDIBILE
Sorprendente è l’esperimento di ascolto, in forma coreografica, di Emanuel Gat sul secondo e terzo atto di Tosca. Scelta nella registrazione dell’edizione diretta da George Prêtre, nel 1965, con Maria Callas, Carlo Bergonzi e Tito Gobbi. In prima battuta sembra scelta esoterica, enigmatica forse cabalistica; oppure, a pensar bene, accidentale, contingente, scolastica… Proprio no. In Act II&III or The Unexpected Return of Heaven and Earth tale scelta è legata a una precisa memoria del coreografo, già danzatore per Xavier De Frutos che la utilizzò, e ora diventata scelta drammaturgica perché vissuta nel corpo di undici interpreti, non certo sul piano del racconto, ma come una scena del ritorno imprevedibile. La memoria che esplode perché capace di allentare i cardini della porta che la contiene. Il coreografo intuisce il potenziale di violenta intimità del secondo atto (in cui una vittima sessuale accoltella il proprio carnefice), e lo restituisce con una lunga trama soltanto di assoli, tutti a corpo nudo.
Qui è davvero efficace come i due piani (dell’ascolto e del movimento) scorrano nei corpi degli interpreti senza alcuna subordinazione per mostrare, dell’intimità, ciò che è insopportabile, esposto, feribile. Mentre per il terzo atto (in cui la vittima è raggirata dalla perversità del carnefice già punito), un sapiente disegno di luci trasforma la scena in una composizione atmosferica che rimanda al familiare della sala prove di Montpellier. In un punto, la registrazione si attenua e si sposta lontano, cambiano allora le condizioni della scena, la danza è più rude e violenta (mai didascalica), in una consapevolezza scenica che personalmente mi ha ricordato i ‘pezzi’ di Bausch. La coreografia di Gat, intensa e imperante, è una condizione dell’ascolto di questo Puccini-fuori-cànone, messo a nudo e deterritorializzato in tutto un nuovo habitat. È addirittura l’apoteosi del coreografico, consegnato ai corpi attraverso una nuova, imprevedibile, logica dell’ascolto.
DANZARE LA VITA
A Bolzano Danza ha debuttato in prima assoluta anche il nuovo, intenso, assolo di Alessandro Sciarroni per Marta Ciappina, Op. 22 No. 2, in uno spazio tutto bianco nel magnifico NOI Techpark di Bolzano. Il titolo, conciso e numerario, rimanda al secondo poema sinfonico di Jean Sibelius (Il cigno di Tuonela, da Lemminkäinen Suite). Tutte premesse del freddo e dell’algido, che si dissolvono in scena con la presenza e nel corpo di Ciappina (vestita da Ettore Lombardi). Lo sguardo da sé costruisce lo spazio, difficile non sentirsi agganciati, folgorati. Sia che si tratti di omaggio, consegna, dono che ripaga in modo scoperto e senza rischi tante collaborazioni, sia che si tratti invece di una performance empirica capace di incorporare un’idea, tutto funziona eccome. Il concept è bipartito: all’inizio la performer ascolta negli auricolari Sibelius, che poi noi ascolteremo quando lei avrà invece tappi nelle orecchie, mentre le transizioni sono condivisioni silenti. Se le sequenze autobiografiche di Ciappina sono una definita stratificazione di gesti e movimenti del suo passato come interprete, quel che sta di fronte allo sguardo dello spettatore è qualcosa che eccede ed estende la definizione di ‘danza della vita’. Che tipo di patto bisogna fare per ricevere come autentica questa doppia ‘autofinzione’? Occorre guardare al processo che porta a riconoscere il profilo personale nelle tracce gestuali di un interprete. Allora, questo di Sciarroni per Ciappina, sembra davvero un lavoro sull’amicizia necessaria in ogni processo di composizione, e in fondo sulla bellezza di ogni (auto)biografia. Così come perfettamente risulta dalla visione del bellissimo film di Matteo Maffesanti, Will you still love me tomorrow?, anch’esso in prima assoluta, che documenta con sobrietà e rigore la vita di Folk-s, lavoro del 2012 di Sciarroni e dei suoi numerosi interpreti, da cui soprattutto risulta come delizie e doveri di una esperienza, così resistente nel tempo, investano direttamente la questione della felicità.
RINUNCIARE AL CONFLITTO
La chiusura del Festival è stata tutta un tripudio alla Gauthier Dance Company, con ben tre diversi appuntamenti, tutti applauditissimi. Da una parte il progetto didattico Moves for Future, con cui l’incontenibile direttore Eric Gauthier presenta (alle scuole, in genere) brevi esempi di repertorio, con l’obiettivo poi di costruire una sequenza da far eseguire agli astanti (in una sorta di evangelizzazione dal basso che, in tempi post-pandemici, va bene anche così). Dall’altra, con una super produzione, super blasonata e per questo super pretenziosa, come The Seven Sins, ossia i vizi capitali ripensati dai sette coreografi oggi più onnipresenti: Sidi Larbi Cherkaoui, Aszure Barton, Marcos Morau, Marco Goecke, Hofesh Shechter, Sasha Waltz e Sharon Eyal (ma alla fine è sembrato un gran minestrone, di poco gusto, molto annacquato come durante gli inverni più duri). Ciò che invece mi ha più colpito e travolto è stata la ripresa di Kamuyot del 2003 (sic!) di Ohad Naharin, da parte della Gauthier Dance Juniors, all’Eventspace di Fiera Bolzano. È un lavoro ancora straordinario, con il pubblico in prossimità sui quattro lati, che in una intelligente progressione finisce per portare tutti dentro a ballare. Il miracolo è stato che tra i colleghi della stampa presenti, coi quali ci saremmo presi a calci volentieri (e prima o poi chissà), in un momento ci si è trovati conciliati e conniventi proprio nei corpi chiamati a danzare. È il più vero mandato del lavoro coreografico di Naharin: un corpo che danza rinuncia al conflitto, è sùbito aperto all’accettazione della differenza dell’altro, anche senza sapere, senza niente, soltanto in quel tempo, e fino al prossimo ballo, per questo occorre saper continuare.
Stefano Tomassini