In onda su Rai 5 sabato 30 luglio alle 21,15. A Siracusa si è tenuta la 57a edizione del Festival del Teatro Greco. Abbiamo visto Edipo Re per la regia di Robert Carsen, con Giuseppe Sartori nei panni del re di Tebe, e Ifigenia in Tauride, regia di Jacopo Gassmann, dove Anna Della Rosa ha interpretato la protagonista.
Assistere alle rappresentazioni classiche di Siracusa, quest’anno, ha avuto un senso particolare. La cinquantasettesima stagione del Festival del Teatro Greco si è svolta in un momento di transizione epocale, segnato dal ritorno a fatti ritenuti distanti dalla presunta civiltà raggiunta. Da una parte, il trascinarsi di un’epidemia pluriennale; dall’altra, un conflitto che sconvolge solo perché consumatosi entro la frontiera ovest del mondo. E se ancora le altrui violenze, condannate come barbarie, sono prive della grazia che concediamo alle crudeltà di cui siamo responsabili, il nostro è comunque un impero alla fine della decadenza. È questo il punto: le tracce del declino sono già nelle prime espressioni di quella cultura che ora siede al banco degli imputati. I tragici hanno sempre qualcosa da dire.
La riflessione non può che prendere avvio dall’indagine più difficile: quella che conduce l’individuo a se stesso. Più che un’inchiesta, come spesso si dice, l’Edipo re di Sofocle è la prima seduta psicanalitica cui l’Occidente si è sottoposto. La sua regia siracusana è stata diretta da Robert Carsen, che vi è approdato da una lunga carriera operistica. L’allestimento del numeroso coro, guidato da Rosario Tedesco ed Elena Polic Greco e istruito da Marco Berriel, è frutto di una visione di concerto. La geometria armonica dei moduli gestuali produce una vera musica visiva, alla quale infatti corrisponde un limitato commento sonoro (di Cosmin Nicolae). I cittadini di Tebe entrano in scena compatti, vestiti a lutto, con mascherine anticovid. Il riferimento non è alla malattia in sé, ma scende più in profondità. Il morbo è temuto non in quanto affezione del corpo, ma in quanto espressione dei limiti della cultura dell’igiene: nel dilagare della peste è l’impotenza della civiltà di fronte alla natura – la propria contagiosa natura.
Giuseppe Sartori, nei panni del protagonista, affronta il male di cui è untore in un’instancabile tensione morale. Il suo Edipo è sobrio e dignitoso, già stoico davanti alla rovina. La limpida traduzione di Francesco Morosi è oggetto, nell’eloquio dell’attore, di un umile disvelamento. Nuda nella sua essenzialità, la parola si offre in sacrificio alla conoscenza; allo stesso modo, nudo è il re quando si palesa, insanguinato, dopo la scoperta del proprio incesto. Un momento di speciale impressione, questo; da allora in poi, quasi chiunque rifiuterà di toccare l’uomo. Maddalena Crippa, nei panni di Giocasta, fin da subito, è una moglie accogliente più come madre che come consorte. Paolo Mazzarelli, Creonte, ha la ruvida arroganza che il suo personaggio avrebbe rivolto alla figlia di Edipo, Antigone, nella fase successiva del mito; ma è pure il più solidale con il monarca nella disgrazia. L’indovino Tiresia, interpretato da Graziano Piazza, raggiunge un momento di vera estasi, al culmine di una serrata climax: solo in questa dimensione divina è possibile la conoscenza del vero.
L’Edipo di Carlsen entra nel vivo dell’umanesimo sofocleo, uscendone carico di un’intensità dolorosa ma incredibilmente moderata: la terapia è anzitutto sapiente misura. Misura che può essere giusta anche nell’eccesso: la recitazione asciutta, enfatizzata dai sobri costumi moderni (di Luis F. Carvalho), caratterizza i personaggi come umani, troppo umani. Nella sciagura, i reali sono normalissimi borghesi. Splendida la scenografia di Radu Boruzescu, che ha concepito la reggia di Tebe come una grande scalinata piramidale. Lungo la sua superficie, i protagonisti grandeggiano non per dimensione – piccolissima cosa sono rispetto al monumento – ma nel loro isolamento. L’intero dramma è la raffinata proiezione di uno sguardo scenico grandangolare, nel quale coesistono in sintesi il particolare e il globale, il bianco e il nero, la luce e l’ombra, la nobiltà e il popolo: si punta alla restituzione di una vicenda universale, più che attuale, e il fine viene perseguito.
Meno chiare appaiono, a prima vista, le intenzioni dell’Ifigenia in Tauride di Jacopo Gassmann. La scenografia di Gregorio Zurla è un grande oggetto site-specific, e ha pure discreto fascino: blocchi trasparenti, con corpi di animali al loro interno (ricordano le salme di Damien Hirst); al centro, la vasca con le acque rituali; alle spalle, un grande schermo tripartito di dichiarata derivazione kubrickiana. Il tempio in cui vive Ifigenia, sacerdotessa di Artemide dopo che la dea le ha salvato la vita a Troia, è insomma un ambiente a metà tra white box e piattaforma spaziale, sottoposto a un ricercato gioco di luci e riflessi. Qui abita anche il piccolo coro di inquietanti ancelle greche: le loro movenze, il loro canto, hanno qualcosa di ipnotico. Da Odissea nello spazio – o forse più da Star Wars – sembrano venire anche i costumi di Gianluca Sbicca. Ciò nonostante, la recitazione si svolge secondo i classici modi da tragedia classica ammodernata, visionaria a ogni costo: nel voler spingere al massimo il gioco sofistico del dramma, invocato a modello di scomposizione dei linguaggi convenzionali, qui si è forse superata la giusta misura.
Nei panni di Ifigenia, Anna Della Rosa forza l’eloquio e il gesto fino al manierismo, ma ha padronanza del gesto e dello strumento vocale. Pallide invece le interpretazioni del fratello Oreste (Ivan Alovisio) e Pilade (Massimo Nicolini). L’incontro fra i tre, tuttavia, conosce momenti di umana intimità, e in generale il dramma brilla in alcuni punti di disincantata ironia. Più convincente il Toante di Stefano Santospago: al re dei Tauri il merito di aver restituito il vuoto successivo al crollo degli ideali, alla perdita di un senso. E proprio nel vuoto sembra svolgersi l’Ifigenia di Gassmann, nella gelida parvenza onirica che è residuo di una civiltà implosa nel gelido esercizio di stile. In questo, le scelte estetiche sono comunque organiche: l’allestimento riesce nella resa del liminare, del limbo nel quale la convinzione etica si dissolve nelle contraddizioni di cui siamo miseri figli, e se ne presenta, suo malgrado, come esempio. Non c’è più spazio per la ricerca edipica del vero, statuaria e collettiva; ci è rimasto solo il dibattito delle opinioni particolari. Eppure, negli affetti è ancora una salvezza, una via di fuga: una ragazza, tra il pubblico, ha pianto a lungo durante il ricongiungimento di Ifigenia e Oreste. Chissà cosa le avrà raccontato, di lei, quell’episodio fautore di una catarsi privata. Comunque sia, anche questa Ifigenia si conclude al tramonto, quando le luci elettriche si sono ormai sostituite al sole e illuminano in scie artificiali la cavea. È già buio, ma tra gli applausi del pubblico pure quelli della ragazza, in parte, riempiono convinti le tenebre sopraggiunte senza preavviso, come sempre accade nei tramonti d’estate.
Tiziana Bonsignore
Viste a Siracusa – Giugno 2022
EDIPO RE
di Sofocle
Traduzione Francesco Morosi
Regia Robert Carsen
Drammaturgia Ian Burton
Scene Radu Boruzescu
Costumi Luis F. Carvalho
Luci Robert Carsen, Giuseppe Di Iorio
Coreografie Marco Berriel
Musiche di Scena Cosmin Nicolae
Regista assistente Stefano Simone Pintor
IFIGENIA IN TAURIDE
Opera di Euripide
Traduzione Giorgio Ieranò
Regia Jacopo Gassmann
Scene Gregorio Zurla
Visual Designer Luca Brinchi, Daniele Spanò
Costumi Gianluca Sbicca
Progetto sonoro G.U.P. Alcaro
Regista assistente Mario Scandale
Disegno Luci Gianni Staropoli
Assistente light designer Omar Scala
Maestro del Coro Bruno De Franceschi
Movimento e coreogrfie Marco Angelilli