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Stefano Tè: «abbattere il termine di teatro sociale, ora “sociale” è “teatro”»

In attesa di Trasparenze Festival, previsto dal 25 al 30 luglio nel borgo di Gombola, con il direttore artistico Stefano Tè abbiamo riflettuto sulle azioni di prossimità della compagnia Teatro dei Venti nei luoghi delle città. Intervista.

Foto di Chiara Ferrin

Una manciata di giorni ci separa dall’ultimo avvistamento di Moby Dick approdato a Timisoara a fine maggio, e crediamo sia sempre un grande impatto per coloro i quali ancora non sono entrati in contatto con la balena e nave del Teatro dei Venti, macchinario ingegneristico sorprendente per la realizzazione, un sogno che diventa costruzione tangibile e attraversa le città. La città e i suoi luoghi, i borghi e le loro diverse nature – umane, animali e vegetali – sono la scena dove si sta costruendo La misura umana, ultima creazione pensata da Stefano Tè insieme a tutta la sua famiglia, gli amici, le relazioni sedimentate in questi quasi ventanni di poetiche e politiche. A rappresentarle, l’immagine ispirata al manichino metafisico di De Chirico, usato nelle locandine e nella campagna di presentazione di Trasparenze Festival con particolare riferimento al quadro Il figliol prodigo, che sarà protagonista della nuova macchina scenica per La misura umana. Nel dipinto del 1922, all’interno di una piazza, in una città, sotto i portici, l’abbraccio di un incontro ritrovato che annulla differenze e distanze, in un ritorno senza colpe per cui il perdono è un gesto di condivisione. Sentimento che si respira durante le giornate di festival, nei dialoghi con artisti e organizzatori, nella disciplina dei detenuti e nel rispetto del pubblico, che non è mai astante ma partecipante alle pratiche di pensiero e azione.

La misura umana: suonare una città è il cantiere di creazione con artisti e cittadini che si sta costruendo nel borgo di Gombola in vista del festival di fine luglio. Qual è allora questa misura della prossimità, come si è rinnovata in questi ultimi due anni e quali sono le prossime azioni?

Foto di Davide Mari

Questa azione di prossimità, che corrisponde alla nostra vocazione da sempre, si è rivelata in questi ultimi tempi come una necessità. Le comunità hanno riconosciuto il valore del teatro, hanno voluto la nostra presenza e hanno aderito a progetti anche molto complessi. In questi due anni è stato prodotto uno spettacolo, La Passione, con gli abitanti di Gombola e di Polinago, e sono stati portati nelle case e nelle scuole atti poetici. Due anni complessi sicuramente, ma veder riconosciuto al teatro il suo valore è un atto importante che ci ha dato la forza di continuare a costruire il progetto de La misura umana, iniziato già prima della pandemia, che vuole essere il nuovo spettacolo-manifesto dopo Moby Dick da far debuttare nel 2025 durante il ventennale del Teatro dei Venti. Sarà anche questo un’enorme macchina scenica mutante che da grande marionetta ispirata all’opera Il figliol prodigo di De Chirico si sgretola diventando una città utopica da abitare. Quello che abbiamo fatto a Gombola, a Colonia e poi a Palermo insieme a Vittorio Continelli e a Azzurra D’Agostino è costruire una linea drammaturgica che possa sostenere lo spettacolo, diverso da Moby Dick perché non abbiamo come base il romanzo di riferimento. Con questo lavoro che segue una linea retta di pensiero, dopo il libro di Melville e l’Odissea, vogliamo ancora indagare l’uomo colto nelle sue fragilità e utopie proponendo la nostra visione politica del mondo per cui abbiamo bisogno di uscire dal teatro e cogliere la relazione con le persone.

In questo ampio orizzonte di azione si colloca anche Odissea, un progetto di luoghi, prima virtuali in quanto nato con riunioni e discussioni da remoto durante la prima fase della pandemia, poi diventato podcast e infine approdato prima nel carcere Sant’Anna di Modena e poi di Castelfranco Emilia. Ma non solo. Ribadendo l’importanza, già sostenuta da attivisti e associazioni, che il carcere diventi sempre più un ponte con l’esterno abbattendo l’isolamento, Odissea è soprattutto uno studio finalizzato a una nuova produzione per gli spazi urbani. In che modo state pensando di strutturarlo?

Foto di Chiara Ferrin

La versione precedente a quella presentata durante questa edizione di Trasparenze Festival era itinerante e attraversava con un bus il carcere di Modena e di Castelfranco Emilia, mentre quella programmata lo scorso maggio è stata solo a Castelfranco per sperimentare un’altra soluzione. La misura umana contiene anche Odissea, che da quest’anno e fino al 2025 sarà ancora più presente nelle zone del carcere perché, come per Moby Dick, vogliamo coinvolgere i detenuti dei due istituti penitenziari. Il mio sogno è di debuttare nell’ampio cortile del carcere di Modena, ed essendo per noi un evento importante, per il ventennale della compagnia e come manifesto del nostro lavoro, vorremmo fosse quindi una prima simbolica in un luogo che riteniamo della città tutta. Non possiamo continuare a considerare il carcere come luogo della negatività ma al contrario dobbiamo accettarlo e creare al suo interno occasioni di costruzione per le quali il carcere sparisce e diventa parte della drammaturgia. Così arriveremo forse un giorno a considerare il teatro parte del percorso di reinserimento del detenuto nella società. Parliamo molto di questo e ci impegniamo affinché sia così ma spesso il teatro viene poi inserito come attività di distrazione, intrattenimento, quando invece ci sono compagnie come noi che costruiscono dei progetti di formazione e professionalizzazione. Credo allora che il debutto di questo spettacolo debba essere innanzitutto un atto di inclusione che dimostri come il Teatro dei Venti si pone all’interno di questa tensione.

La “sparizione” del carcere passa anche attraverso il lavoro svolto dai detenuti nel progetto di Odissea, i quali vi si sono dedicati con ascolto, cura e professionalità, sono stati capaci di viaggiare dentro al testo e di rispettare la sua natura scenica, facendo emergere tanto gli aspetti truculenti che quelli simbolici, penso sia alla danza di Eolo che all’immobilismo dell’uomo di fango. Il testo si è fatto spazio e ha trovato a sua volta un suo spazio all’interno della falegnameria del carcere di Castelfranco, nel giardino e nella serra. Ogni progetto seppur inserito in un dialogo costante con gli altri sedimenta un ricordo preciso: qual è l’immagine del percorso di creazione di Odissea a cui sei più affezionato e che secondo te è emblematica di questo viaggio?

Foto di Chiara Ferrin

C’è un frammento che continua a emozionarmi e l’hai citato, ovvero la danza di Eolo. Conoscendo la storia del conflitto che è in atto in quell’attore e in cui il teatro ci finisce irrimediabilmente in mezzo, ed essendo consapevole che Guerino Spinelli aderisce totalmente al progetto e va oltre il personaggio, io vedo che lì dentro c’è una vita che fa quel salto e ci credo, in maniera totalizzante. Quell’attore, giovanissimo, sta allora prendendo le sue energie turbolente e le sta mettendo a disposizione del teatro. Per me è dunque una commozione immensa: da regista, mi interrogo sul come farla arrivare al pubblico, da uomo, me la tengo tutta per me.

Nei primi giorni di maggio, Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone in apertura della presentazione del XVIII rapporto annuale sulle condizioni carcerarie in Italia, ha affermato che sono troppo pochi i percorsi scolastici e professionalizzanti e poche opportunità di lavoro per i detenuti. Venendo meno la rieducazione, sale il tasso di recidività. Riportando i dati di Antigone: al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, solo il 38% era alla prima carcerazione. Il restante 62% in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Cosa diresti a chi non conosce il tuo lavoro e quello del Teatro dei Venti per spiegare l’importanza dell’opportunità di crescita e scoperta mutuale che scaturisce dalla promozione e dal sostegno dei progetti di teatro in e fuori dal carcere?

Se le attività artistiche vengono già generalmente considerate come parallele e straordinarie e non strutturali, non possiamo quindi certo sorprenderci che questo non avvenga nella carceri. Quindi la responsabilità dipende da noi, da chi presenta questo tipo di progetti. E la pandemia ce lo ha dimostrato: se siamo stati messi all’ultimo posto per importanza, le prime attività a chiudere e le ultime a riaprire, ci saremmo adagiati noi, avremmo forse smesso di sorprenderci e sorprendere. Chi pratica questo mestiere deve sempre attuare una relazione di confronto basata sulla qualità. La formazione e la professionalizzazione concorrono a ciò. Per Odissea abbiamo infatti assunto e pagato ai detenuti sia le prove che le repliche sostenute dalla coproduzione con Ert (Emilia Romagna Teatro Fondazione ndr). I detenuti sono attori veri e propri e questo ruolo attiva quel confronto di cui parlavo prima con le direzioni degli istituti e lo alza di livello facendolo rientrare tra le prospettive di vita di queste persone. E siamo noi artisti che dobbiamo cercare questi fondi, sta sempre a noi il compito di alzare l’asticella. È un atto di consapevolezza e di coscienza quello di dirottare i fondi su questi progetti, e il mondo del carcere ci accoglie e rispetta perché sa che c’è questo investimento di energie e risorse.

La poetica del Teatro dei Venti nell’orizzonte del teatro sociale, qualora volessimo nominarlo in una categoria, sta gradualmente abbandonando questa specifica dimostrando quanto, soprattutto oggi, la socialità e le sue fragilità non siano più circoscritte a determinate categorie di persone ma abbracciano in senso più ampio un’arte comunitaria che coinvolge tutte e tutti. Quali sono i tuoi pensieri a riguardo e come sono cambiati?

Foto di Chiara Ferrin

Come regista vorrei saper trasformare la percezione di questo cambiamento epocale in azione teatrale. La relazione con i soggetti è diversa. Per anni abbiamo costruito i progetti nelle bolle cercando di tutelare e proteggere queste realtà, al contrario invece quest’anno, abbiamo deciso di programmare tutte le sere sia Odissea che lo spettacolo del Gruppo L’Albatro, Quel che resta (recensione sull’ultimo numero di Cordelia). Quella relazione che si attiva e rinnova ogni giorno nella sala teatrale o nel carcere è franca, priva di ogni protezione che la inquinerebbe. Finalmente, dopo questo periodo, abbiamo l’opportunità di abbattere il termine di teatro sociale, ora “sociale” è “teatro”, e non abbiamo più bisogno di portare il teatro nelle condizioni di fragilità. Non siamo più noi e questi mondi, è il nostro mondo e basta perché siamo tutte e tutti uniti/e in questo turbamento, nella fragilità del reale, tra il mio e il tuo bisogno di aiuto. Qualcosa è accaduto e dobbiamo condividerlo insieme.

Lucia Medri

ODISSEA

Con Alessandra Amerio, Vittorio Continelli, Greta Esposito, gli attori del Carcere di Castelfranco Emilia (Abdelkrim Rafi, uomo di Ulisse; Michele Antelmi, Atena; Sergio Cermentini, Polifemo; Guerino Spinelli, Eolo, Tiresia, uomo di Ulisse; Robertino Spinelli, Circe, Calipso; Sofien El Amduni, uomo di Ulisse; Yamez Cimadomo, Euriloco; Ivan Pomice, Zeus; Francesco Meroni, Ulisse; Cisse Khadim, Re Alcinoo; Pietro Villirillo, uomo di fango; Nicolò Pantaleo; Poseidone), e gli attori e allievi attori del Teatro dei Venti. Costumi Beatrice Pizzardo e Teatro dei Venti. Allestimento Teatro dei Venti. Drammaturgia Vittorio Continelli, Massimo Don e Stefano Tè. Assistenza alla regia Massimo Don. Regia Stefano Tè.

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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