Nell’anniversario del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, torniamo a parlare dello spettacolo Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro, diretto e interpretato dall’attore Fabrizio Gifuni che interroga la memoria di quel corpo, scomodo.
Oggi si concludevano i cinquantacinque giorni di prigionia dell’onorevole Aldo Moro, il cui corpo ucciso dalle Brigate Rosse fu ritrovato il 9 maggio di quarantaquattro anni fa a Roma, in via Caetani, simbolicamente “in mezzo”, tra la sede nazionale della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista Italiano; dai familiari viene più volte ricordato quel momento, in cui ci si fermò. Uno squarcio di incertezza e timore, la percezione che nessuno stesse più al sicuro. Lo Stato, in primis. Chiusero le scuole, e gli uffici, anche alcuni negozi, nella sospensione si tornò a casa, davanti la televisione. Cadde il silenzio ma si levò il clamore per il rapimento, prigionia e uccisione di quello che Fabrizio Gifuni – nel salutare il pubblico del Teatro Vascello – ha definito una «meteora».
Sono passati circa due mesi da quelle serate di metà marzo quando l’attore – che si è già cimentato sui testi pubblici e privati di Carlo Emilio Gadda e Pier Paolo Pasolini – ha riportato nella Capitale Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro, dopo il debutto romano avvenuto nell’autunno 2020. Prima dell’inizio della lettura, Gifuni si prende qualche minuto per parlare al pubblico, per ragionare in maniera condivisa spiegando il suo «esperimento», così lo chiama, e ricordando come proprio in quei giorni di marzo si celebrasse il centenario di un altro «corpo scomodo», quello del poeta Pier Paolo Pasolini. L’attore si presenta a noi come uomo di teatro che ha fiducia nelle parole e crede nei testi, e ci chiede se il corpo di Aldo Moro, come meteora viaggiante, sia ancora un corpo caldo o freddo, se le sue parole abbiano ancora un effetto vivido nel presente o siano invece ora inerti. Il 9 ottobre 1990 a Milano, nel covo brigadista di via Monte Nevoso scoperto nel ’78 e dove i carabinieri rinvennero quarantanove fogli dattiloscritti riportanti alcuni brani del memoriale, dietro un pannello scoperto da un operaio durante dei lavori di ristrutturazione, vennero recuperate altrettante fotocopie dei manoscritti del memoriale e altre lettere scritte durante la prigionia. Come cadde il muro di Berlino, cadde anche questo pannello.
«Moro, non è Moro» veniva detto per screditare le testimonianze incidenti, lo sdegno, la delusione e la paura di un uomo abbandonato, non al suo di destino, ma a quello di un paese immerso in una «tragedia nazionale, che altro non è se non lo studio del potere di eccezione e della sua pratica concreta laddove oggi più interessa: ossia non in uno Stato totalitario, ma dentro un regime democratico che formalmente non sospende le sue funzioni e prerogative costituzionali, ma continua a operare come tale anche quando subisce un attacco terroristico». Questo sostiene lo storico Miguel Gotor (che insieme a Francesco Biscione si è occupato della consulenza storica per lo spettacolo) nel suo libro Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano (Einaudi, 2011).
Concluso il prologo nelle vesti di ricercatore e studioso, Gifuni si cosparge i capelli con un po’ di sabbia (ve n’era qualche granello nel risvolto dei pantaloni indossati da Moro al ritrovamento), allunga la gamba e entra nel quadrato di fogli ricostruito in scena, al cui centro troviamo un tavolino/scrittoio e una sedia, inutili alla drammaturgia perché non usati ma simbolici oggetti da lavoro di colui che scrive. In camicia bianca e pantaloni neri, Gifuni fa allora il suo ingresso nello spazio del teatro e diventa Moro. Il destinatario ideale delle sue lettere è innanzitutto «il popolo» inteso sia come i suoi rappresentanti che come le persone, a loro parla l’onorevole, da loro spera di avere ascolto. Nel lavoro di ideazione, drammaturgia e interpretazione dell’attore romano si ritrova sin da subito un rispettoso sentimento di cura e di reverenza per le pagine che stringe tra le mani, tutte e due le mani, in una posa che ferma in un punto, e per le quasi due ore di messinscena, sosterrà con rigore, mai un cedimento di stanchezza, un disequilibrio. Dal baricentro esce la voce stentorea, a calcare i singoli vocaboli per far emergere le emozioni, la fronte è corrugata; ogni tanto scosta una mano per toccarsi la tempia, a toccare la memoria del testo. Con voce piana esprime quelle dichiarazioni così concentrate e tese a farsi comprendere, densissime, da non lasciare scampo alla confusione. Il corpo dell’attore è corpo del politico, le braccia distese lo distanziano dai fogli in mano, quasi a indicare quello straniamento che lo allontana dalla passione per poi invece avvicinarcisi, ma solo nei toni vocali, verso la fine, amplificandone la trepidazione man mano che passano i giorni, e cresce la consapevolezza che sarebbe stato abbandonato. Allora le gambe di Gifuni si piegano leggermente e incurvano i piedi, i fogli tremano nella stretta nervosa. «Zaccagnini!» urla a più riprese al segretario della Democrazia Cristiana come fosse un’anafora a cui tornare, in diversi momenti della prigionia, ammonendolo sulle sue responsabilità e, allo stesso tempo, confidando nel suo aiuto, evidenziando come «il conflitto tra il “personale” e il “politico” esplode con impensata intensità» scriveva La Repubblica il 22 aprile 1978, quando pervenne alla redazione un plico contenente il testo autografo dell’ultima lettera di Moro a Zaccagnini. E poi Gifuni/Moro si indirizzerà a Piccoli e Bartolomei capigruppo alla Camera e al Senato, a Galloni e Gaspari vice segretari, a Fanfani presidente del Senato, e a Andreotti Presidente del Consiglio, di cui dirà essere «regista intenzionato a continuare a fare altro male», e a Cossiga Ministro dell’Interno. Al livore per queste cariche, si alterna la dolcezza per la sua famiglia, di cui l’attore si fa tramite commosso e commovente: alla figlia dirà «Ti amo Agnese mia carissima», e quando si appresta a salutare, per l’ultima volta, la moglie e i figli, «Bacio Noretta, Giovanni Emma e mio nipote Luca». Sullo schermo alle spalle, scorrono le immagini storiche dei funerali, con tutto lo stuolo di facce e corpi coinvolti. Allora Gifuni abbandona la sua posa e li guarda, si avvicina, quasi toccandoli.
«Siete tutti d’accordo?» è la domanda forse più sofferta per l’attore, quella che stride nel dolore, proferita dalla rabbia, «con il vostro irridente silenzio» è l’offesa pronunciata con il petto colmo. Nel finale, sciolta la postura, Gifuni si tocca la schiena, dolorante per la tensione. La stanchezza però è ricompensata dal pubblico con un lungo applauso e standing ovation, che dà calore a questi testi, ne attualizza la vitalità politica ma non solo, è espressione di gratitudine per il lavoro dello studioso, per la sua fatica, che a tratti diventa anche quella di qualche spettatore e spettatrice meno interessato/a alla questione. La rinnovata implicazione storica del memoriale alimenta il dibattito intorno al caso Moro, diventa, grazie al corpo dell’attore, corpo caldo rappresentante della contraddizione e dell’alternativa. Proprio la prossima settimana, uscirà nelle sale Esterno notte, il film in due parti diretto da Marco Bellocchio (già regista di Buongiorno notte, sempre sul caso Moro) sempre con Gifuni nei panni dell’onorevole, che sarà presentato nella sezione Première della 75ª edizione del Festival di Cannes. Nel film, il corpo reale sembrerebbe cedere alla sua irrealtà, per cui quella di Moro sembra essere una storia fatta coi “se”: se non fosse morto, quale sarebbe stato l’effetto delle sue parole?
Lucia Medri
CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro
ideazione e drammaturgia Fabrizio Gifuni
foto Musacchio, Ianniello & Pasqualini
si ringraziano Nicola Lagioia e il Salone internazionale del Libro di Torino
per la collaborazione Christian Raimo
per la consulenza storica Francesco Biscione e Miguel Gotor