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L’arte esiliata ha voce. L’Egitto di Babilonia Teatri

Recensione e intervista sullo spettacolo Giulio meets Ramy, Ramy meets Giulio di Babilonia Teatri a partire dalla figura di Regeni per concentrarsi sulle vicende del’artista politico Ramy Essam.

Ramy Essam. Foto Patrick Fore

Le tragedie ci toccano davvero solo se le guardiamo da vicino? Per ribattere a una simile attitudine prende le mosse Giulio meets Ramy, Ramy meets Giulio di Babilonia Teatri presentato in prima nazionale al Fabbricone di Prato. Il Giulio del titolo rimanda al nostro Regeni, dottorando sequestrato, torturato e ucciso durante un suo soggiorno di ricerca presso Il Cairo, scomparso il 25 gennaio del 2016. Ma lo spettacolo non parla di lui, o meglio, non direttamente. Valeria Raimondi, che assieme a Enrico Castellani è anima della compagnia, proprio all’inizio dello spettacolo riflette su questo vizio di forma dell’informazione (non solo della stampa italiana) per cui si tende a parlare con attenzione delle catastrofi solo se riguardano anche qualche connazionale, ma quello su cui viene posta l’attenzione spesso non è altro che la cosiddetta punta dell’iceberg. Seguendo la volontà radicale e punk che accompagna la loro ricerca artistica, Castellani e Raimondi spostano il tiro dichiarando che l’uccisione di Regeni sia per loro motivo di indagine di una più profonda, e purtroppo ancora non risolta, questione egiziana, dove i valori di libertà di pensiero e di una parola non conforme a quella dello stato sono ancora ben lontani dall’essere attuati.

L’idea iniziale (nata su invito di Massimiliano Civica e Franco D’Ippolito nel 2018, con un debutto saltato a maggio 2020 e la rimessa in discussione tra questioni sociali e politiche, di messa in sicurezza collettiva e personale, ma anche di trasformazione artistica) porta a una lunga ricerca da parte del duo; ma i dati sono viziati da un punto di vista occidentale, dai vari depistaggi delle indagini da parte dell’Egitto. Nel confronto con l’educatrice sociale Amani Sadat (poi chiamata a partecipare in scena come traduttrice live, racconta Castellani in un’intervista dopo lo spettacolo), emerge anche come, nei luoghi che l’hanno vista accadere, la stessa vicenda era sì nota ma non così rilevante all’interno dell’opinione pubblica.

Ramy Essam, Foto Ivan D’Alì

Tristemente numero tra tanti: «per farci capire quale fosse la realtà di quel paese, ci aveva parlato  di una serie di scrittori, intellettuali, artisti egiziani che nell’arco di questi anni hanno tentato di opporsi ai diversi regimi che si sono susseguiti alla guida dell’Egitto», anche mettendo a repentaglio la propria sicurezza e quella delle persone loro intorno. Tra questi, c’era anche la figura di Ramy Essam, cantante, difensore dei diritti umani ed esule politico. I testi delle sue canzoni colpiscono in pieno la sensibilità di Castellani e Raimondi che, raccontano, decidono così di cambiare rotta al progetto e coinvolgerlo attivamente ai primi del 2020, poco prima che scoppiasse la pandemia.

«Quando ci siamo incontrati la prima volta alla Corte Ospitale, Ramy ha iniziato a cantare e raccontare della sua vicenda personale con voce nuda e chitarra (solitamente lo accompagna una band), in quello che all’inizio era un magma anche informe, all’interno del quale però nel tempo abbiamo iniziato a orientarci, soprattutto durante il periodo successivo, quando nel febbraio ’21 abbiamo avuto un altro tempo di residenza al Teatro Magnolfi di Prato. Lì, ci è arrivato chiaro come la vicenda e le figure che apparivano nelle canzoni di Ramy stridessero per contrasti molto forti». Se da un punto di vista musicale lo stile di Essam presenta una base rock che non nega le sonorità egiziane ma le contamina di influenze hip-pop e grunge, dal punto di vista testuale i suoi testi sono il racconto di un sistema che non può essere denunciato ma che deve passare necessariamente tramite i filtri dell’ironia (difficilmente della satira a volto scoperto), della fabula, della metafora per trovare una propria paradossale libertà di espressione altrimenti impossibile. Dichiara Ramy Essam come, quando lasciò l’Egitto per l’Europa inizialmente fosse preoccupato che la gente non avrebbe capito di cosa parlassero le sue canzoni. «Quello di cui sento la necessità è che tutti possano capire quale sia l’argomento ma poi lasciar fare alla musica, che è l’unico linguaggio comune che ciascuno può comprendere e con il quale comunicare».

Ramy Essam. Foto Eleonora Cavallo

«Si è trattato di un tempo importantissimo – aggiunge Castellani –, abbiamo sentito le sue canzoni, le abbiamo tradotte tutte per cercare di capire quali fossero le più adatte, anche perché abbiamo dovuto fare un lavoro enorme per comprendere i vari sottintesi dovuti a una cultura che per tanti aspetti è diversa dalla nostra, per cui non è sempre semplice farli trasparire. Abbiamo provato ad andare ancora più indietro, fino agli inizi del ‘900 per capire di cosa stessimo parlando, rendendoci conto di quanto non conoscevamo. Nell’ultima fase di lavoro prima del debutto abbiamo individuato quali informazioni potessero essere portate al pubblico, così da far emergere alcuni capisaldi per riuscire a costruire il quadro politico culturale istituzionale che porta l’Egitto a essere il paese che è, per capire che la vicenda di Regeni non può essere che considerata un modus operandi di un regime con cui intratteniamo relazioni di interesse, e per raccontare come Ramy abbia ampiamente attraversato diverse fasi della storia recente del paese».

Lo spettacolo allora si costruisce come un concerto raccontato, in cui le canzoni di Ramy Essam si alternano alle loro “versioni in prosa”, facendo emergere nel processo le varie questioni alla base, gettando una luce di evidenza sui fatti senza doverli direttamente nominare. Anche perché, come ricorda Essam, «essere un artista politico, non è mai semplice, sia che ci si trovi nella propria terra d’origine o in esilio; coloro contro i quali ti schieri potrebbero trovare sempre il modo di arrestarti. I testi delle mie canzoni sono cambiati molto nel tempo ma il senso rimane lo stesso, il cambio dipende dal periodo nel quale li ho scritti: per esempio quelli del 2011 (anno dei moti popolari di protesta, ndr) sono molto diversi da quelli dei due anni successivi o dai testi di adesso. Ma allo stesso tempo l’arte è come un camaleonte, ti dà sempre la possibilità di trovare il modo di dire quello che devi dire, di fare qualcosa di importante e di supportare i movimenti in cui credi». Si ascolta di amore, ma si intende il dolore per la distanza dalla propria terra, si sente di pane, libertà e giustizia e si guarda l’altra faccia della medaglia, si ride su asinelli e muli e vengono in mente personaggi pubblici intoccabili; dai calzoncini e cappelloni si intravedono figure di controllo. In questo processo di svelamento allora intervengono in aiuto anche le immagini proiettate a fondo di un palco altrimenti essenziale, ma che appunto si riempie del vissuto delle gioia e poi del massacro di piazza a distanza di pochi giorni, delle parole tradotte che trovano forma scenica, di una cascata di palloni (anche qui in un rimando sottile che però trova nel tonfo della caduta dall’alto un’eco sonoro brutalmente effettivo). Ogni elemento ha modo di sedimentarsi senza inficiare la potenza vocale e musicale dei pezzi ascoltati.

La  scelta come sempre radicale non passa per un racconto filtrato, né si ripara dietro la comodità della finzione, il tentativo di dare forma e interpretazione da parte di chi non ha vissuto dall’interno quei momenti inevitabilmente rischierebbe, sottolinea Castellani la «retorica, o il cattivo gusto di portare noi dei racconti della sua vita e del suo paese quando Ramy era presente insieme a noi. La nostra funzione doveva essere portare il suo  punto di vista». Ancora una volta la poetica di Babilonia Teatri si concentra non su un diretto processo di identificazione ma su uno scavo analitico, che mette insieme, che cammina al fianco «anche portando sul palco la nostra ignoranza».

Lo spettacolo, al debutto a Prato, andava in scena a pochi giorni dallo scoppio del conflitto in Ucraina, un’altra guerra, sentita forse più vicina per prossimità, che non fa altro che porci di fronte alla consapevolezza di aver introiettato tutti quel vizio di forma per cui guardare solo attorno al proprio orticello, o semmai a quello antistante, senza domandarsi quanto invece tutto sia dolorosamente collegato. Se le parole di Ramy, se le azioni di Babilonia Teatri, o i nostri pensieri silenziosi in platea risuonavano in modo nuovo per quel mondo che stava – che sta – cambiando, bisogna guardare altre prospettive, leggere tra le righe, continuare a cantare.

Viviana Raciti

GIULIO MEETS RAMY RAMY MEETS GIULIO

di Babilonia Teatri
con Ramy Essam, Enrico Castellani, Valeria Raimondi
e Amani Sadat
produzione Teatro Metastasio di Prato

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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