A marzo il teatro Pirandello di Agrigento ha ospitato Viva la vida. Monologo su Frida Kahlo, interpretato da Pamela Villoresi e diretto da Gigi Di Luca. Lo spettacolo ricostruisce la vicenda della ormai notissima pittrice messicana, descrivendone la passione politica, artistica e umana.
Negli ultimi tempi, la figura e la storia di Frida Kahlo sono state oggetto di una crescente riconsiderazione. Ma, come talvolta accade, il nuovo interesse ha pure comportato la riduzione dell’artista messicana a fenomeno folkloristico e commerciabile (argomento affrontato anche in altra occasione). Viva la vida. Monologo su Frida Kahlo si pone in tutt’altra direzione. Tratto dall’omonimo romanzo di Pino Cacucci, diretto da Gigi Di Luca e interpretato da Pamela Villoresi, lo spettacolo restituisce a Kahlo lo spessore che le mostre blockbuster degli ultimi tempi hanno assottigliato, e non cede alla facile tentazione di romanzarne la vicenda biografica.
Sul palco del Pirandello, la storia di Frida Kahlo è anzitutto un racconto orale. Ancor prima dell’apertura del sipario, le parole dell’artista si espandono sonore nella sala, colmando l’ambiente del proprio volume e del proprio vissuto. La voce di Villoresi ne accarezza ogni frase, sciogliendola come velluto. Il tono di fondo è tuttavia aspro: al pari di un tessuto ambivalente, il racconto si svolge con una sua morbidezza ruvida, dotata di una fisicità percepibile. Il senso tattile dell’ossimoro guadagna sempre più una consistenza somatica, che culmina infine nell’esposizione del corpo della protagonista. In Viva la vida, la storia di Kahlo è anzitutto la storia di questo corpo infranto, distrutto dall’incidente che ne ha ridotto in segmenti la colonna vertebrale. A partire dal trauma, e forse già prima, all’artista si nega per sempre la possibilità di un’integrazione.
La storia di un corpo. Esso appare nudo, di spalle, adagiato su una sedia ortopedica (quasi uno strumento di tortura). Nella scena di Maria Teresa D’Alessio, il pubblico può vedere Kahlo-Villoresi soltanto nel riflesso dello specchio posto di fronte a lei. Non un monologo, dunque, ma un dialogo di Kahlo con se stessa. Sul suo seno scoperto scorrono le pitture di Veronica Bottigliero, eseguite sul palco. Il volto di Bottigliero, truccato come fosse il dia de los muertos, rappresenterà per tutta la durata dello spettacolo La Pelona. Una compagna inquietante, questa, eppure amica: è la morte, con la quale la protagonista intrattiene un rapporto incredibilmente affettuoso. Nonostante l’irruenza delle proprie braccia, che si muovono al di là dello schienale con gesti decisi e scattanti, Kahlo si rivolge a lei come a una controparte necessaria e comprensiva.
Al termine del momento iniziale, il corpo di Villoresi è un impasto di pigmento − arte, perciò vita − e morte. Così infine si presenta alla vista del pubblico, quando decide di alzarsi e vestirsi. Più che coprirla, gli indumenti che l’artista indossa sono il mezzo di un’appropriazione identitaria. I costumi di Roberta Di Capua e Rosario Martone sembrano provenire da certe foto di Leo Matiz, e restituiscono l’immagine della donna nella sua iconografia consolidata: abiti bianchi e ampi, corona di fiori. La vestizione è un fatto sia privato che culturale, e costringe Kahlo a fitte dolorose. Nel corso del suo svolgimento riemerge, direttamente dal deposito della memoria, la stagione dell’impegno comunista, delle passioni e dell’eros. Villoresi imprime al ricordo un’energia che non conosce cedimenti, sebbene la rievocazione del passato avvenga in un momento di bilanci. L’ideologia si presenta adesso come un filtro, una copertura per trame e ottusità svelatesi nella loro incoerenza; ma è pur vero che la lotta è vita e, al pari dell’amore, degli amori traditi e traditori, non può essere davvero rinnegata.
Quasi nel tentativo di sanare le ferite del fisico, le battaglie di Kahlo rispondono a un’esigenza unitaria di senso. La loro reminiscenza comporta una nostalgia rabbiosa e irrisolta, che viene diretta alla compagna di adesso, la chitarrista messicana Chavela Vargas (Lavinia Mancusi, di cui sono le musiche di scena). Come la Pelona, Chavela è una compagna di viaggio; tuttavia, si oppone alla prima come la vita alla morte. La sua relazione con Kahlo è scandita da attimi di intesa, di passione, di lite: alle parole della pittrice l’altra risponde con lo sguardo, con il gesto. Il suo canto, tanto intenso da commuovere, commenta la storia di Kahlo per tutta la durata dello spettacolo, e dell’amica esalta temperamento e umori. Nonostante Chavela sia vagamente androginica, è pur sempre donna: più facile, per la protagonista, mostrare il suo corpo mutilato alle proprie simili. All’occhio giudicante dell’uomo, più straziante si manifesta lo spettacolo della propria disgregazione.
La dissoluzione è stata, per la pittrice, uno stato più somatico che metaforico. In Viva la vida il suo corpo offeso è il frutto di uno stupro – che può essere non soltanto violenza sessuale direttamente subita. Fin da subito Kahlo si presenta come creola, figlia dell’atto oppressivo con il quale il colono ha mescolato il proprio sangue a quello di altre genti, servendosi delle donne come il mezzo di questa operazione. Una sfumatura abusante tinge anche l’avvenimento che ha costretto la pittrice alla semi-immobilità, compromettendone i genitali e la possibilità di diventare madre. Ma pure in queste condizioni, è possibile divenire arte, e generare vita. Ogni frammento trova infine ricomposizione nella morte: coperta da una veste bianchissima, la protagonista ha le sembianze di Coatlicue, la dea azteca della fertilità. Mentre la Pelona si muove lenta al di là dello specchio e Chavela intona l’ultimo, disperato canto, Frida si ricongiunge con se stessa in una ritrovata, luminosa unità.
Tiziana Bonsignore
Visto ad Agrigento, marzo 2022, Teatro Pirandello
VIVA LA VIDA. MONOLOGO SU FRIDA KAHLO
liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Pino Cacucci
progetto, adattamento e regia Gigi Di Luca
con Pamela Villoresi
e con Lavinia Mancusi (Chavela Vargas, musiche di scena) e Veronica Bottigliero (La Pelona, body painter)
scene Maria Teresa D’Alessio
costumi Roberta Di Capua, Rosario Martone
assistente alla regia Valentina Enea
direttore di scena Sergio Beghi
produzione Teatro Biondo di Palermo